Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 5 Giugno 2022

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La vita secondo lo Spirito

Con la Pentecoste noi contempliamo il compimento della Pasqua del Signore e il compimento implica l’inclusione del credente nella Pasqua. Il dono dello Spirito opera il passaggio da Cristo al cristiano, dalla missione di Gesù alla missione dei discepoli, dalla predicazione e dall’azione di Gesù alla predicazione e all’azione dei credenti nella storia. Opera il passaggio da Cristo alla Chiesa. Grazie allo Spirito il credente comprende e ricorda la parola di Gesù e grazie allo Spirito la annuncia, vi risponde con la preghiera e vi obbedisce con la testimonianza. Così l’evento pentecostale ci dice chi è il credente. Compimento del mistero pasquale, la Pentecoste è anche compimento della vocazione cristiana, del discepolato. Infatti, lo Spirito insegnerà e farà ricordare, come un maestro al discepolo, e il fine di tale insegnamento è che il Cristo sia nel discepolo, ne divenga presenza interiore e intima. Non esteriore, estrinseca, funzionale.

Il compimento della vocazione cristiana è che la vita di Cristo viva in noi. E la vocazione, o, se si vuole, l’essenziale della vita cristiana sotto la guida dello Spirito, è la vita interiore come capacità di far abitare in sé la parola del Signore, meditarla, comprenderla, interpretarla. La parola poi, vivificata dallo Spirito, diviene magistero interiore del credente: “Lo Spirito vi insegnerà tutto e vi ricorderà tutto ciò che io ho detto” (Gv 14,26). La congiunzione “e” è esplicativa: l’insegnamento dello Spirito consisterà nel ravvivare presso i discepoli il ricordo delle parole di Gesù. Accanto alla vita interiore c’è poi la preghiera che risponde a tale parola e che diviene non solo un invocare Dio come Abbà, “Padre”, ma un vivere da “figli di Dio”.

“Quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio” (Rm 8,14), “per mezzo dello Spirito noi gridiamo Abbà, Padre” (Rm 8,15). Questo vivere da figli di Dio richiede la capacità della lotta interiore, ovvero la capacità di rompere con la carne, cioè con l’egoismo e l’autoreferenzialità. Infine c’è la testimonianzal’annuncio, la capacità di rendere eloquente per tutti gli uomini il messaggio evangelico. Ciò che avviene quando i discepoli parlano la lingua dello Spirito (At 2,1-12). Vediamo così che la festa della Pentecoste ci introduce all’arte della vita secondo lo Spirito santo, ci introduce ai movimenti fondamentali della vita spirituale: l’ascolto della parola, la preghiera, la lotta spirituale, l’annuncio e la testimonianza.

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“Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; … se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,15.23). Amare il Signore è custodire e mettere in pratica le sue parole che rendono presente la sua volontà anche in sua assenza. Questa per Giovanni è la fede e questa è l’azione dello Spirito: rendere presente colui che è assente. Tale, infatti, è la potenza di realtà e la forza creatrice della fede. Quella fede che per Giovanni diviene amore e si esprime come amore. E diviene amore perché crede all’amore e rimane in quella fede: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore di Dio per noi” (1Gv 4,16). Eppure proprio lì si innesta, in noi, la resistenza, l’opposizione; lì sorge in noi la mondanità; lì noi diventiamo, direbbe Giovanni, “il mondo”. Nello spazio cristiano, credere è sempre credere l’incredibile, ma un incredibile che non riguarda tanto la natura o la trascendenza di Dio, ma l’evidenza della nostra persona. Gesù ha appena detto: “Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi perché io vado al Padre” (Gv 14,12).

Come è credibile? Le resistenze alla fede si fondano sulla lampante evidenza della nostra impotenza e inadeguatezza, ma, in radice, e ancor più in verità, sull’incredibilità dell’essere amati. Per Giovanni, questo è il peccato: la non-fede. L’unico peccato. Il peccato radicale. Il peccato che Paolo chiama “carne” e che non è peccato sessuale, che anzi sarebbe già un’apertura, un atto di abbandono e di fiducia in altri da sé, una via di amore, un’apertura del corpo all’amore, ma è proprio la chiusura in sé, la non volontà di relazione, la paralisi dell’autocentramento. E così il peccato, ovvero, nell’essenziale linguaggio giovanneo, la non fede nell’amore, si manifesta come capacità di rendere assente anche chi è presente, di vanificare il reale, di nullificare l’amore.

Ecco il peccato contro lo Spirito, che si oppone cioè a quell’azione dello Spirito che rende presente colui che è assente. La fede che ama rende visibile e tangibile l’invisibile e crea una storia che dura nel tempo; la sfiducia che non crede l’amore fa sparire il visibile e cancella le tracce dell’amore dal presente. Ecco perché l’unica ascesi, secondo il IV vangelo, è il rimanere, il rimanere nell’amore del Signore e nella sua parola, parola che ripete sempre che l’unica realtà salvifica ed essenziale è l’amore con cui siamo amati. Quell’amore che è riversato nei nostri cuori insieme allo Spirito donato (Rm 5,5) e che può operare la nostra conversione facendo dei nostri corpi dei corpi che credono all’amore e dunque dei corpi che amano.

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La Pentecoste poi è sì compimento della Pasqua, ma è anche novità, atto di nascita. Essa compie l’evento della resurrezione di Cristo con il passaggio del respiro di Cristo nel credente, con la partecipazione del credente allo Spirito della resurrezione effuso in lui. Mediante il dono dello Spirito il Risorto chiama l’umanità e la creazione intera a essere là dove lui è. Il compimento pasquale che è la Pentecoste è caparra del compimento del desiderio di Cristo di non essere solo, ma di essere per sempre con le creature. Ciò che manca alla resurrezione di Cristo è dunque la resurrezione dei credenti, la trasfigurazione del creato, la trasformazione e il rinnovamento dell’umano. E lo Spirito scende sulla mancanza e sulla povertà facendone luogo di elezione e di possibile trasfigurazione.

Come lo Spirito che nell’in-principio aleggiava su un mondo bisognoso di armonia e di ordine, come lo Spirito che nell’esilio si posò su un popolo privo di vita, ridotto a ossa inaridite, come lo Spirito che il giorno della resurrezione raggiunse dei discepoli vuoti di coraggio e di fede. Come lo Spirito che insegna la preghiera a noi che della preghiera siamo ignoranti, come lo Spirito che, perché lo possiamo accogliere, chiede a noi di riconoscere la nostra ignoranza e smemoratezza. “Lo Spirito vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26). Lo Spirito ci rende coscienti del peccato della smemoratezza. Se Dio, nella Bibbia, non chiede tanto di aderire a dei valori, ma di fare memoria, il peccato radicale è la dimenticanza. Si tratta di fare memoria della sua azione, delle sue opere, della sua parola, dell’evangelo. Ma anche di ricordare gli eventi, i fatti, le sofferenze della propria storia.

Solo attraverso la memoria la storia diviene tale e può divenire storia di salvezza. La salvezza dei figli d’Israele è letta nel libro della Sapienza come mediata dalla memoria: “I figli d’Israele continuavano a ricordare i fatti del loro esilio” (Sap 19,10), mentre la perdizione degli Egiziani viene espressa come dimenticanza, quando essi “furono preda dell’oblio delle cose passate” (Sap 19,4). La memoria è, nella vita cristiana, struttura di salvezza. Dio stesso è il Dio che salva perché si ricorda della sua alleanza, della sua fedeltà, della sua misericordia. E si ricorda della fragilità umana. Durante l’esodo, alle numerose dimenticanze colpevoli del popolo, Dio non oppose la distruzione, ma “misericordioso, perdonava la colpa, ricordava che essi sono carne” (Sal 78,39).

Lo Spirito effuso è la memoria di Dio che inabita nell’uomo e diviene in lui compassione e perdono per ogni essere umano, per tutte le creature, ma soprattutto per il prossimo, per le persone vicine, le uniche che sappiamo far soffrire veramente e per cui soffriamo veramente. Lo Spirito è il soffio che porta la parola di Cristo, la insegna e la ricorda. Così il discorso iniziato da Cristo con i suoi discepoli si compie nella chiesa, nella storia, nell’oggi delle generazioni fino alla fine. La memoria della parola che lo Spirito mette in atto tende a che questa parola diventi gesto, prassi, storia. Diventi compassione, misericordia e perdono. Perché chi ascolta la Parola senza ricordare e senza mettere in pratica, senza amare e senza perdonare, è come chi, dopo essersi guardato allo specchio, subito dimentica chi era (Gc 1,23-24).

E chi altro era se non una creatura bisognosa di perdono e di misericordia? Lo Spirito che ci insegna e ricorda la parola è lo Spirito che vuole compiere Cristo in noi. Ma vuole anche che noi ci compiamo e troviamo pienezza in Cristo. Vuole che la nostra umanità si compia nell’umanità di Cristo. Mentre genera Cristo in noi, lo Spirito suscita la nostra nascita a Cristo. Mentre ci dà la parola di Cristo, dà anche la parola a noi, generandoci alla libertà e all’amore, alla realtà salvifica della compassione, della misericordia e del perdono. La Pentecoste compie la Pasqua con questo atto di memoria di Cristo che diventa misericordia, compassione, perdono. Allora infatti c’è il compimento dell’alleanza e la conoscenza del Signore, quando lo Spirito effuso farà sì, dice il Signore, “che gli uomini non dovranno più istruirsi gli uni gli altri perché tutti mi conosceranno, perché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato” (Ger 31,34).


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose