Il deserto e la Parola
Preparare la venuta del Signore, questo il messaggio della seconda domenica di Avvento. Ma preparare la venuta del Signore significa prepararsi. Immagine di questa preparazione è Giovanni Battista. Il testo odierno non parla ancora in dettaglio della predicazione di Giovanni, ma si limita a presentare Giovanni stesso. E a presentarlo nella solitudine. Giovanni prepara la venuta del Signore e si prepara ad accogliere il Veniente abitando la solitudine. Il testo di Luca accentua questa dimensione. Si evoca lo scenario della grande storia con i suoi protagonisti politici e religiosi obbligando il lettore a un enorme allargamento dello sguardo, ma poi l’attenzione si concentra sull’invisibile parola di Dio, sul minuscolo deserto della Giudea, sulla persona di Giovanni e sul libro delle Scritture, sulla profezia di Isaia citata molto più estesamente che in Marco (1,2-3) e in Matteo (3,3). La descrizione lucana presenta Giovanni come situato in un luogo, un deserto, e accanto a un libro, uno scritto: “come sta scritto nel libro (en biblío) degli oracoli del profeta Isaia” (Lc 3,4). Marco e Matteo sottolineano il cibo e il vestito di Giovanni, mentre Luca si attiene a ciò che viene ancora prima e che è più fondamentale ancora di queste due dimensioni pure basilari ed essenziali. Il luogo e il libro. La descrizione della cella di Antonio del deserto con cui Gustave Flaubert inizia il suo racconto La tentazione di sant’Antonio dice: “Si trova nella Tebaide, in vetta a una montagna a forma di mezza luna chiusa da macigni. La capanna dell’eremita è in fondo. È fatta di fango e canne, senza porte. Dentro vi si distingue una brocca con un pane nero, in mezzo, su una mensola in legno, un libro”. La cella e il libro, il libro della Scrittura, la cella e il vangelo: ovvero i luoghi per vivere la solitudine, per abitarla e renderla feconda. E preparare così se stessi alla venuta del Signore.
Con solenni toni da storico Luca inserisce la vocazione di Giovanni nel contesto della storia del tempo: siamo nel 28 d.C., nel XV anno dell’impero di Tiberio (3,1) che era subentrato ad Augusto nel 14 d.C. Poi Luca parla di Pilato (prefetto romano della Giudea tra il 26 e il 36 d.C.) e di Erode Antipa (tetrarca della Galilea dal 4 al 39 d.C.) che svolgono le loro funzioni in terra d’Israele; quindi accenna a Filippo e a Lisania che stendono il loro potere politico-amministrativo su terre pagane. La geografia è a servizio della teologia: Luca mostra che l’annuncio della salvezza riguarda ebrei e pagani, ha un’estensione universale. Dopo aver ricordati i capi politici, i potenti della terra, Luca ricorda le autorità religiose menzionando “il sommo sacerdote Anna e Caifa” (così, letteralmente, Lc 3,2) con un singolare abbinato a due nomi. La strana espressione, poiché in carica vi era ovviamente sempre un solo sommo sacerdote, vuole denunciare la situazione di corruzione e degrado del sacerdozio gerosolimitano per cui il sommo sacerdote Anna, dopo essere stato in carica dal 6 al 15 d.C., continuò a controllare quella carica e a tenere le fila del potere religioso grazie ai suoi cinque figli e al genero Caifa che successivamente subentrarono nella carica.
Dopo questa lunga presentazione della grande storia, ecco la scelta spiazzante di Dio: “la parola di Dio fu su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3,3). Giovanni, di stirpe sacerdotale, essendo figlio di Zaccaria, come racconta Luca nel primo capitolo del suo vangelo, doveva conoscere bene la situazione di corruzione del sacerdozio a Gerusalemme, eppure egli non si perde nelle contestazioni o nella ribellione a tale sistema, ma compie una scelta altra. Egli non reagisce, ma agisce. È un sacerdote che diviene profeta. Lascia Gerusalemme, il tempio e il sacerdozio e va nel deserto. Se il sacerdozio aveva il compito di operare mediazioni e far vedere la gloria di Dio, Giovanni va nel deserto obbedendo alla parola del Signore che gli consentirà di realizzare per altra via il fine di far vedere la salvezza di Dio. Nel deserto Giovanni consente alla parola di Dio di abitare in lui, tanto che egli parla pronunciando parole della Scrittura e soprattutto fa del suo corpo e della sua persona la realizzazione delle parole profetiche di Isaia. Giovanni giunge a riflettere la luce della parola nella sua persona. Egli cita la Scrittura per chiedere che ci sia conversione, appianamento di una strada per il Signore, ma lo fa con autorevolezza perché ha già obbedito lui stesso a tale Scrittura: lui stesso fa vedere nella sua vita e nella sua persona la gloria del Signore. E la fa vedere con il suo cambiamento, con la sua conversione, con la sua scelta. Gesù vedrà in lui l’azione di Dio, e se ne lascerà illuminare a sua volta. Ecco colui che apre la strada al Messia. Gesù potrà dire ai suoi avversari che non avevano nemmeno creduto in Giovanni: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto?” (Mt 11,7). Gesù ha visto Giovanni e se ne è lasciato illuminare. Ai suoi avversari, invece, dirà: “Giovanni era la lampada che arde e splende e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce” (Gv 5,35). Gesù, il più grande che si è fatto più piccolo di colui che andava davanti a lui, ha saputo vedere che Giovanni era mandato da Dio. Giovanni, il più piccolo che per obbedienza è stato il testimone dell’Agnello e si è fatto maestro nella cui scia Gesù si è immesso, ha anche lui saputo vedere la gloria di Dio in Gesù e lasciargli il posto. Ha saputo diminuire con gioia, abbassarsi e cedere il passo con gioia. Diminuire non nell’amarezza della sconfitta ma nella gioia dell’adempimento della missione. E grazie a Giovanni, davvero tutte le genti ormai possono vedere la gloria di Dio che splende sul volto di Cristo.
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Il “programma” che definisce la persona e l’azione di Giovanni è nelle parole di Is 40,3-5 (Lc 3,4-6), in cui il nuovo esodo da Babilonia veniva fatto risalire alla parola del Signore: “Ogni valle sia innalzata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata. Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni carne la vedrà perché la bocca del Signore ha parlato”. L’orizzonte dev’essere sgombro affinché tutte le genti da ogni luogo possano vedere il ritorno dei figli d’Israele deportati e tale cammino possa avvenire senza inciampi: ma tutto è dovuto alla parola del Signore. In Luca tutto è riferito alla persona di Giovanni. Su di lui cade la parola del Signore ed egli fa regnare a tal punto la parola profetica su di lui che dà realizzazione personale a tale parola. Giovanni diviene lui stesso strada per il Signore, diviene lui stesso terreno appianato, ed è attraverso di lui che ogni carne potrà vedere la salvezza di Dio, ovvero il Messia Gesù.
Forse Giovanni, in quella zona della Giudea, era in contatto con gli uomini di stirpe sacerdotale che si erano ritirati a Qumran per preparare la strada al Signore in particolare studiando e ascoltando la Scrittura (e dove il testo di Isaia 40 era particolarmente importante), ma importante è che Giovanni, presentato nel testo evangelico come solitario nel deserto, realizza nella sua persona la Scrittura isaiana e così dà inizio a una storia nella storia. All’interno della storia mondiale ne inizia un’altra con una persona che, nella solitudine del deserto, cambia se stessa. Dalla scelta di Giovanni impariamo che l’unico potere che un uomo può usare legittimamente e anzi doverosamente, è quello su di sé, non quello su altri, come fanno i potenti del mondo politico e religioso. Per cui egli si lascia lavorare dal deserto, midbar, in ebraico, e dalla parola, dabar, in ebraico. In una situazione politica e religiosa scoraggiante, Giovanni fa l’unica cosa veramente foriera di novità: prende se stesso come terreno da appianare grazie all’ascolto della parola di Dio. Il terzo vangelo è molto attento alla simbolica dell’alto e del basso, del troppo alto e del troppo basso e in esso ricorre spesso la condanna dell’elevarsi, dell’innalzarsi, dell’insuperbirsi (Lc 1,52; 14,11; 16,15; 18,14). Per restare alle immagini di Is 40, non si tratta solo del fatto che un’altura impedisce la visione di ciò che ci sta dietro e che il trovarsi in un baratro ostacola la visione di ciò che sta in superficie, ma del fatto che tanto nel nostro inorgoglirci, quanto nel nostro deprimerci e inabissarci nelle valli della disperazione noi stessi diventiamo ciechi e non vediamo più esattamente né noi stessi né gli altri né la realtà e ancor meno l’azione di Dio nella storia e nelle nostre vite. Molto bello il passo sapienziale di Pr 3,5-6: “Confida nel Signore con tutto il tuo cuore e non affidarti alla tua intelligenza; riconoscilo in tutti i suoi passi ed egli appianerà i tuoi sentieri”. Affidandosi al Signore e lasciandosi guidare dalla sua parola, Giovanni lascia che il Signore appiani i suoi sentieri e lui stesso diviene via appianata per il Signore. È così che Giovanni potrà indicare la salvezza di Dio a iniziare dalla sua persona. Cioè, mostrando se stesso come uomo cambiato dalla parola del Signore: un sacerdote divenuto profeta, un potenziale funzionario del tempio divenuto abitante del deserto, un potenziale maestro divenuto discepolo della parola di Dio nel rigore dell’ascolto e dell’obbedienza.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose