Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 4 Luglio 2021

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Che Gesù conosco?

L’inizio del cammino di Gesù è stato segnato dall’evangelista Marco con uno spostamento geografico da Nazaret al Giordano: “Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni” (Mc 1,9). Attraverso continui movimenti che ci mostrano Gesù sempre in itinere, che va, cammina, passa, parte, giunge, esce, entra, si ritira, toccando anche il paese non ebraico della Decapoli (Mc 5,1-20), ora, come ci dice la pericope odierna di vangelo, Gesù ritorna al punto di partenza, alla sua patria, a Nazaret: “(Gesù) partì di là e venne nella sua patria” (Mc 6,1). È come se un cerchio si chiudesse. Da Nazaret a Nazaret. Ma si tratta di un ritorno deludente, che lascia Gesù stupito e amareggiato: “Si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,6). In questo cammino Gesù è ormai accompagnato dal gruppo dei discepoli che sono alla sua sequela: “i suoi discepoli lo seguirono” (Mc 6,1). Tuttavia nell’episodio che avviene a Nazaret essi non compaiono mai in scena. Non abbiamo che Gesù, solo, confrontato con i suoi concittadini. Nei vv. 2-3 l’evangelista riporta la reazione dei concittadini di Gesù alla sua persona e alla sua predicazione, mentre nei vv. 4-6 narra, potremmo dire, la lezione che Gesù trae da tale reazione.

L’antefatto da cui parte tutta l’azione è che Gesù, in giorno di sabato, si mette a insegnare in sinagoga (Mc 6,2). Marco ha già annotato che di sabato Gesù insegna in sinagoga e libera un uomo da uno spirito impuro che lo tormentava (Mc 1,21-28) e sempre di sabato, in sinagoga, compie un gesto di potenza, la guarigione di un uomo dalla mano paralizzata (Mc 3,1-6). E sempre Marco registra le reazioni di stupore meravigliato (Mc 1,27) o di aperta opposizione (Mc 3,6) suscitate da Gesù. Come spesso nel primo vangelo, Marco non specifica il contenuto dell’insegnamento di Gesù ma, in estrema sintesi Gesù, quando insegna, sempre annuncia il Regno di Dio e l’esigenza della conversione (cf. Mc 1,15). E che questo insegnamento sia percepito come particolarmente forte e autorevole da parte dei presenti è espresso dalla loro reazione di stupore: restano colpiti, quelle parole non li lasciano indifferenti e li porterebbero a prendere una posizione a schierarsi. Ma l’esito di quello stupore sembra piuttosto quello di un difendersi dal prendere posizione, dal lasciarsi interpellare e affascinare dal nuovo e dal potente che sentono in Gesù. Pongono domande, ma non sempre le domande sono apertura al nuovo, sono segno di ricerca e di interesse, di quella curiosità che è passione per l’umano. Qui le domande sono una misura di difesa, una protezione. Agiscono come uno scudo. I concittadini di Gesù si ritirano nel loro guscio, si proteggono ritraendosi nel loro carapace. La forza e la sapienza che sentono in Gesù, che è uno di loro, che è nato in mezzo a loro, mette in discussione anche loro. Come mai un esito esistenziale così diverso in uno che ha condiviso il loro passato, la loro origine? Da dove questa diversità? Questa alterità? La domanda che essi pongono: “Da dove?” (Mc 6,2: “Da dove gli vengono queste cose?”) è significativa: Gesù spiazza, rompe l’omologazione, l’uniformità dei Nazaretani e questo viene sentito come insopportabile. In certo modo, il giudizio degli abitanti di Nazaret non è lontano da ciò che fu pronunciato da quel Natanaele che era originario di Cana di Galilea (Gv 21,2): “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1,46).

In particolare suscita diffidenza la sua sapienza. È la sapienza che traspare dal suo parlare, dal suo insegnamento. Questa non viene negata, ma non ci si capacita della sua presenza: da dove mai può essere saltata fuori? È come se i concittadini di Gesù riducessero il sapere di Gesù al loro sapere. E in questo modo si autorizzassero a misconoscerlo, a “fare come se non”. Analogamente, vengono posti in discussione i “gesti di potenza” (dynámeis, virtutes: Mc 6,2) operati dalle sue mani. O meglio, non se ne nega la realtà, ma si resta scettici di fronte ad essi perché la conoscenza che essi hanno di Gesù, una conoscenza innegabile, autentica, verificabile, suffragata dall’adesione alla realtà e ai fatti, non contempla un tale esito. Le domande che essi pongono a ripetizione indicano che Gesù stesso per loro è ormai un interrogativo. Ma poiché questo interrogativo riverbererebbe la sua ombra anche su di loro, essi preferiscono allontanarlo da sé. Certo, nell’intenzione dell’evangelista, le domande che essi pongono si rivolgono anche al lettore del vangelo, il quale trova la risposta nella sequenza narrativa del vangelo e sa che tutto questo proviene a Gesù dallo Spirito santo che si è posato su di lui al battesimo nel Giordano (Mc 1,9-11). Sapienza e gesti di potenza, profezia e capacità di cura e guarigione vengono a Gesù dallo Spirito di Dio. Il v. 3 esprime il fondamento dello scetticismo dei concittadini di Gesù: di Gesù sanno che è il falegname, di lui conoscono la famiglia, la madre, i fratelli e le sorelle, la parentela. La conoscenza che essi vantano di Gesù è autentica, anzi, diretta: di lui sanno e conoscono ciò che tanti altri non possono conoscere. Ma una persona è ben più del mestiere che svolge e dei suoi stessi famigliari. Questa conoscenza, che i Nazaretani usano in modo svalutativo, svolge per loro una funzione liberatoria: il loro distanziarsi da Gesù e non farsene interpellare è fondato su dati inequivocabili e che nessuno al mondo può mettere in dubbio. Ecco dunque che essi “si scandalizzavano di lui” (Mc 6,3). Se Gesù può affascinare e spingere alcuni a lasciare tutto (lavoro, possedimenti e famiglia: Mc 1,16-20; 2,13-14; 10,29) per seguirlo, davanti a lui si può anche restare scandalizzati, alzare le spalle e andarsene. La domanda che emerge con forza dal nostro brano è dunque: chi è Gesù? Che cosa vuol dire conoscerlo? C’è una conoscenza di Gesù che è ostacolo, trappola (“scandalo”, appunto), e non aiuto per incontrarlo. Il rischio, del singolo credente, della chiesa nel suo insieme, di un gruppo o di una comunità cristiana, è di fare di Gesù la proiezione dei propri sogni, il vuoto contenitore dei propri desiderata, di imprigionarlo all’interno delle proprie immagini. Un Gesù che mi riflette e mi conferma, invece di inquietarmi e di spingermi a conversione, a un cambiamento; un Gesù-specchio che inevitabilmente deforma l’unicità e l’irriducibilità di Gesù stesso. Un Gesù a mia misura, che io avvicino (rendo simile) a me, invece di cercare io di avvicinarmi (assomigliare) a lui. Un Gesù a mia immagine e a mia somiglianza. Un Gesù idolo, non il Gesù rivelato. Un Gesù asservito a me, non più il Signore. Un Gesù che io riduco alle mie misure e che non mi chiama più a conversione. Per incontrare Gesù, o lasciarsene incontrare, occorre il salto della fede, il rischio della fede. Solo così si può accedere allo straordinario che Dio ha compiuto in lui. Paradossalmente dunque, la conoscenza che i Nazaretani hanno di Gesù, non aiuta per nulla l’unica cosa importante e salvifica: l’adesione a Gesù e la sua sequela. Si tratta di una conoscenza alla maniera umana, “secondo la carne” (2Cor 5,16).

Gesù trae le conseguenze di tale reazione e si comprende come profeta disprezzato (Mc 6,4) e medico ridotto all’impotenza (Mc 6,5). Il profeta rischia di non trovare accoglienza “nella sua patria”, “tra i suoi parenti” e “in casa sua”. Il profeta viene assimilato a uno straniero: egli parla una lingua altra, parla la parola di Dio, ed è mandato da Dio, viene da Dio. Il IV vangelo direbbe che Gesù viene dall’alto, da Dio, dal cielo. Le due domande che si pongono di fronte a uno straniero: “Da dove vieni? Che lingua parli?”, sono le domande che si pongono di fronte a un profeta. Il profeta vive una dimensione di stranierità. Non è forse questa l’esperienza dei profeti veterotestamentari, inviati a un popolo, il loro popolo, che spesso li misconosceva e li respingeva?

Se poi altrove Gesù ha affermato la potenza della fede (Mc 11,23) e che “tutto è possibile per chi crede” (Mc 9,23), qui Gesù afferma anche la potenza dell’incredulità: “Non poteva compiere alcun prodigio (“gesto di potenza”, dýnamin) … E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,5-6). Nei vangeli la struttura delle guarigioni è sempre dialogica. Essa richiede una sorta di alleanza tra medico e paziente, tra Gesù e malato e avviene nella sinergia tra la potenza di Gesù e la fede del malato. Qui a Nazaret, invece, Gesù viene ridotto all’impotenza. La persona di Gesù trascende la conoscenza troppo materiale che ne hanno i suoi concittadini, la quale diviene ostacolo alla loro fede. Ma anche i credenti nella storia sono sottomessi al rischio di una conoscenza inadeguata e insufficiente di Gesù, una conoscenza che si rivela essere di ostacolo e non di aiuto alla fede. Come i concittadini di Gesù, anche noi credenti abbiamo già una certa conoscenza di Gesù, ma restiamo sempre esposti alla tentazione di ridurre il mistero del Signore alla parzialità della nostra conoscenza. Rischiamo di rimpicciolirlo alle nostre dimensioni, di omologarlo al nostro sentire, di asservirlo al nostro pensare, di conculcarne la libertà nei limiti angusti delle nostre idee, di renderlo equivalente simbolico dei nostri valori. Vanificando così l’evangelo, dissolvendo la potenza della parola evangelica. O, se vogliamo, costringendo Gesù all’impotenza: “E non poté (ouk edýnato) fare là alcun gesto di potenza (dýnamin)” (Mc 6,5). Ridotto all’impotenza, Gesù non è più il Signore.

A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del: Monastero di Bose