Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 30 Gennaio 2022

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La Scrittura, oggi, per voi

Il brano evangelico di questa domenica comprende l’omelia che Gesù tiene nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,21) e la reazione degli ascoltatori (Lc 4,22-30). L’“omelia”, in realtà, si condensa qui in una frase con cui Gesù commenta il testo di Isaia proclamato liturgicamente (cf. Lc 4,18-19; Is 61,1-2), frase che esprime bene lo schema elementare e perenne di ogni omelia: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura nei vostri orecchi” (Lc 4,21, traduzione letterale). La Scrittura, oggi, per voi: questi i tre elementi di ogni omelia. L’omelia verte su una pericope della Scrittura presentata dalla liturgia, preferibilmente il testo evangelico (non dunque su altre tematiche che, per quanto significative dal punto di vista pastorale – la “giornata” missionaria, vocazionale, ecc. –, risultano essere peregrine, indeboliscono l’efficacia dell’omelia e vengono meno al compito centrale di testimoniare la fede trasmettendo la conoscenza del Signore Gesù), traduce il suo messaggio nell’oggi e si rivolge a un uditorio preciso, alla comunità radunata.

L’omelia è sempre una parola rivolta a, una parola indirizzata a un destinatario. Un’omelia poi, che è compito profetico che traduce nell’oggi storico la Parola eterna di Dio contenuta nella Scrittura, cerca sempre di porre la comunità di fronte alla presenza di Cristo: infatti, “Cristo è presente nella sua Parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura” (Sacrosantum concilium 7). Guidare la comunità a compiere il passaggio dalla pagina biblica alla presenza di Cristo è l’opera di ogni buona omelia. Occorre qui ricordare che l’aspetto parenetico dell’omelia discende da quello rivelativo e kerygmatico: l’omileta deve “predicare Cristo, non se stesso” (2Cor 4,5), affinché l’omelia sia realmente una manifestatio veritatis, ovvero, epifania di Cristo che è via, verità e vita.

Nell’omelia a Nazaret Gesù, dopo aver proclamato la Scrittura, fa di sé un testimone della Scrittura stessa (e ogni omileta è chiamato a divenire testimone della Parola): dopo aver letto nel rotolo la vocazione del profeta veterotestamentario, presenta se stesso come profeta, ben sapendo che un profeta non trova accoglienza tra i suoi e nella propria patria. Ma se questo è vero del profeta, è vero anche di ogni cristiano: chi non conosce opposizioni e contraddizioni a causa della propria fede, in verità non è ancora entrato nella vita cristiana in profondità. Colui la cui parola è lodata e accettata da tutti e non incontra opposizioni o contestazioni, probabilmente è ancora lontano dalla parresia evangelica. Servire la Parola di Dio rende stranieri in rapporto alla patria e crea un’appartenenza altra. Il profeta parla la parola altra che è la Parola del Dio a cui egli appartiene e il destino della Parola diviene il suo stesso destino: “La Parola venne tra i suoi e i suoi non la accolsero” (Gv 1,11).

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La sottolineatura dell’oggi, presente nell’omelia di Gesù, fa emergere il fatto che per Luca, con Gesù il tempo e la storia ricevono il loro senso definitivo. Gesù inaugura un oggi (categoria più teologica che cronologica) che è il tempo della salvezza, il centro del tempo. Tempo che si situa ormai fra l’evento-Cristo e la venuta nella gloria del Figlio dell’uomo. L’oggi è il tempo dell’offerta della salvezza da parte di Dio, in Gesù, a ogni uomo. Si può pensare all’evento di grazia che investe il cosiddetto “buon ladrone” (in realtà, per Luca, si tratta dell’“altro” malfattore: Lc 23,40) quando Gesù gli dice: “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43), ma è anche il tempo della scelta, il tempo che richiede una responsabilità e un’opzione da rinnovarsi ogni giorno. La redazione lucana delle parole di Gesù in Lc 9,23 sottolinea (rispetto ai paralleli di Mc 8,34 e Mt 16,24) la dimensione della quotidianità, del ricominciamento quotidiano della sequela, della scelta che, fatta una volta, va rinnovata ogni giorno: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”.

Quanto poi all’annotazione circa il compimento della Scrittura negli orecchi degli ascoltatori (“in auribus vestris”: Lc 4,21), abbiamo qui il preannuncio di uno dei temi spirituali salienti del terzo vangelo: l’ascolto della parola di Dio udita dalla voce di Gesù e contenuta nelle Scritture. Un ascolto che impegna ed è estremamente esigente mettendo in crisi gli ascoltatori e portandoli a lasciarsi attraversare dalla lama della parola. In effetti, il prosieguo del testo lucano mostra che la parola di Gesù è portatrice di un giudizio e chiede agli ascoltatori di prendere posizione. La parola che Gesù pronuncia è parola non accomodata, non adattata, non ha come fine di compiacere gli uditori, ma è parola che scomoda gli ascoltatori e mette in pericolo chi la pronuncia. La parola profetica può essere pronunciata solamente a caro prezzo. Essa ha la forza della verità che fa emergere ciò che abita nel cuore dei destinatari: meraviglia e ammirazione finché viene percepita come innocua e addomesticabile (cf. Lc 4,22a), odio e rigetto non appena mette in discussione le sicurezze acquisite e i privilegi di cui si gode (cf. Lc 4,22b-30). Essa è intollerabile perché costringe l’ascoltatore a fare i conti con le tenebre del proprio cuore: pur di evitare questa dolorosa presa di coscienza si rigetta l’intollerabilità su colui che tale parola ha pronunciato.

Dietro la Parola che giudica vi è la presenza stessa di Gesù che suscita una presa di posizione: “Gesù è segno che sarà contraddetto affinché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35). Sempre, di fronte a Gesù, si verifica una divisione tra chi lo accoglie e chi lo rifiuta, chi lo ascolta e chi lo bestemmia, perfino sulla croce (cf. Lc 23,39-43). Gesù obbliga a un’opzione, a una scelta. Incontrare Gesù significa essere condotti a fare verità nella propria vita accettando di riconoscere realisticamente il male che attraversa o che occupa il nostro cuore: gelosia, invidia, odio. Il riconoscimento delle tenebre è la condizione per accedere alla luce.

L’odierno brano liturgico fa parte di quel passo di Lc 4,16-30 che nell’intenzione di Luca ha valore programmatico. Si tratta di un testo solamente lucano anche se si può considerare che Mc 6,1-6a costituisca un suo parallelo. Tuttavia non solo Luca ha molto sviluppato la narrazione fino a farne una sorta di sintesi dell’intero vangelo, ma ha anche anticipato la scena ponendola intenzionalmente all’inizio del ministero pubblico di Gesù. L’“anticipazione” del nostro testo (che secondo la sequenza di Marco dovrebbe trovarsi dopo Lc 8,56) è visibile dalla strana menzione di Cafarnao in 4,23: “Certamente voi mi citerete questo proverbio: ‘Medico cura te stesso Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui nella tua patria”. In realtà, è solo a partire da Lc 4,31 che nel terzo vangelo si narra di insegnamenti e guarigioni operati da Gesù a Cafarnao: “Poi scese a Cafarnao …” (Lc 4,31), e il racconto di ciò che Gesù disse e fece a Cafarnao si estende fino a Lc 4,41.

Dopo dunque la sua breve e densa “omelia”, Luca registra la contraddittoria reazione degli astanti: prima lo stupore ammirato, quindi il rigetto e il furore omicida nei confronti di Gesù. Ma Gesù legge la reazione di rigetto come conferma del suo ministero profetico e si colloca nella scia dei profeti Elia e Eliseo. Il rigetto dei suoi concittadini diviene l’occasione grazie a cui Gesù apre il suo ministero e l’annuncio della salvezza di Dio ai pagani, alle genti: si adombra così l’universalismo della missione e dell’annuncio della salvezza così caro al terzo evangelista (cf. Lc 3,6; 7,9; At 28,28).

Comprendiamo allora che le ultime scene del nostro testo (la cacciata di Gesù dalla sinagoga, il tentativo di ucciderlo e il tranquillo andarsene di Gesù di mezzo alla folla inferocita contro di lui) non sono un resoconto cronachistico di quanto successo, ma profezia di ciò che accadrà in seguito: il testo è prolettico e allude alla morte e alla resurrezione di Gesù, all’evento pasquale. In effetti, la città costruita sul monte è Gerusalemme piuttosto che Nazaret, e l’andarsene (in greco poreúomai) di Gesù fa riferimento al cammino di Gesù verso Gerusalemme, che traversa tutto l’evangelo, e anche all’ascensione di Gesù al cielo (At 1,10-11).

Così il nostro brano lucano presenta già l’enigma del rifiuto che Israele ha opposto a colui che Dio inviato quale Messia, il mistero della morte e resurrezione di Gesù e la buona novella dell’estensione alle genti dell’annuncio della salvezza. E proprio questa è la nota su cui si conclude l’intera opera lucana: “Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio fu inviata alle genti ed esse ascolteranno” (At 28,28). L’ultima parola del testo: “si mise in cammino” (eporeúeto: lett. “se ne andava”, “camminava”) in realtà è un’apertura non solo sulla successiva vicenda terrena di Gesù, ma anche sull’evento pasquale e sulla vicenda della chiesa. La salvezza annunciata e costituita da Gesù in persona che l’ha resa presente con il suo camminare tra gli uomini e le donne del suo tempo sulle contrade della Galilea, diventa il cammino che, suscitato dallo Spirito sceso a Pentecoste, spingerà gli apostoli, gli evangelizzatori e i missionari fino ai confini della terra.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose