Volontà di Dio e libertà
Dopo la confessione messianica di Pietro a Cesarea di Filippo, inizia una nuova tappa del ministero di Gesù e una fase decisiva della sua vita. Matteo lo sottolinea scrivendo: “Da allora Gesù cominciò a spiegare (lett. mostrare) …” (Mt 16,21). Lo stretto parallelismo con la formula di Mt 4,17 (“Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire”) che apre il ministero di Gesù dopo l’arresto del Battista, segna letterariamente questo nuovo inizio i cui tratti caratterizzanti sono disegnati dal primo annuncio della sua passione, morte e resurrezione (Mt 16,21). Colpisce l’uso del verbo “mostrare” (deíknymi) là dove Marco utilizza più normalmente “insegnare” (Mc 8,31). Matteo crea così un gioco di rimando al verbo “mostrare” (epideíknymi: Mt 16,1) messo in bocca a farisei e sadducei che chiedono a Gesù un segno dal cielo per corroborare la sua autorità. Ciò che Gesù mostra e che è l’unico segno della sua identità messianica è la sua passione, morte e resurrezione, ovvero, il segno di Giona: “Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Mt 12,39-40).
Gesù, che è appena stato confessato Messia da Pietro, ora specifica in che cosa consista la sua identità messianica, la vocazione personalissima che ha ricevuto da Dio. Anche la “giusta” conoscenza di Gesù mostrata da Pietro, che ha incontrato l’approvazione di Gesù stesso, deve essere corretta, e da chi, se non da Gesù stesso? Gesù sta svelando il proprio mistero, il segreto della sua identità profonda, intima, personalissima, identità ricevuta dalla volontà di Dio contenuta nelle Scritture. La necessità (“doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto”: Mt 16,21) della sua passione è inscritta nella sua obbedienza alle Scritture e al suo ministero profetico (“Gerusalemme. Gerusalemme, che uccidi i profeti”: Mt 23,37) e lo porta alla sua personalissima ridefinizione della vocazione messianica. La vocazione è sempre l’incontro tra la parola e la volontà di Dio contenute nella Scrittura e la libertà di un uomo che si sente raggiunto in prima persona da tale parola e da tale volontà. In quell’incontro si manifesta l’azione dello Spirito e si esprime l’obbedienza creativa della persona.
Ma le parole di Gesù suscitano la reazione indignata di Pietro. Reazione verbale ma anche fisica. Pietro “prende con sé” Gesù, lo “trae a sé”, e accompagna questo gesto con le parole scandalizzate e di rimprovero: “(Dio) ti preservi, Signore, questo non ti accadrà mai!” (Mt 16,22). Per Pietro, ciò che Gesù ha detto è semplicemente irricevibile. L’idea di Messia che Pietro ha in mente è assolutamente inconciliabile con il destino di sofferenza e di morte. Ma Pietro sta proiettando su Gesù i propri desiderata, la propria immagine del Messia. Già il profeta Isaia avvertiva che i pensieri degli uomini non sono i pensieri di Dio: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie” (Is 55,8), ora Gesù rivolge lui questo rimprovero a Pietro: “Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”, o forse anche: “Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma di quelle degli uomini” (Mt 16,23). E Gesù reagisce anche con un gesto: Gesù “si sottrae”, “si volta” e rispedisce Pietro dietro a sé, nella posizione del discepolo che segue il maestro. E Gesù non lesina le parole dure a Pietro: il beneficiario della rivelazione del Padre ora è apostrofato come “satana”, il destinatario della beatitudine è ora motivo di scandalo, la roccia è ora pietra d’inciampo. In Pietro queste dimensioni contraddittorie convivono, come convivono in ogni credente possibilità di fede e di non-fede, di comprensione e di ignoranza, di fedeltà e di abbandono, di umiltà e di supponenza. In particolare, di fede e di sufficienza, di adesione al Signore e di presunzione di sé.
E perché sia chiaro che cosa comporta la sequela, dunque la fede, ecco che Gesù pronuncia alcune parole forti e perfino urtanti. Ovvero: dopo aver annunciato la sua passione, Gesù annuncia la passione del discepolo. Particolarmente dura è l’espressione di Mt 16,24: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Rinnegare se stessi e prendere la croce sono comandi che indicano azioni puntuali, poste una volta per tutte e considerate globalmente anche se poi abbracciano tutto il tempo della sequela. Il terzo imperativo “mi segua” indica un’azione che si prolunga nel tempo. Rinnegare è verbo del linguaggio forense che indica il rifiuto di difendere qualcuno. Il “rinnegamento” di Pietro (Mt 26,69-75) comprende il suo rifiuto di difendere Gesù. Il prendere la croce designa il momento in cui il condannato nel processo deve caricarsi sulle spalle il palo che servirà a costruire il patibolo della sua esecuzione capitale. Rinnegare se stessi e prendere la propria croce significa dunque, stando al contesto forense in cui queste immagini si radicano, rinunciare a difendersi e a giustificarsi e assumere e portare lo strumento della propria condanna a morte. “L’espressione ‘prendere la propria croce’ mira a un avvenimento del tutto concreto, e cioè al momento in cui il condannato alla crocifissione si carica sulle spalle la trave trasversale (patibulum), per compiere uno spaventoso itinerario tra la moltitudine urlante e ruggente, che lo accoglie con dileggi e imprecazioni. L’amarezza di questo cammino sta nella sensazione di essere scacciato senza pietà dalla società e consegnato senza difesa all’oltraggio e al disprezzo. Chiunque mi segue, dice Gesù, deve rischiare una vita altrettanto difficile quanto la via crucis di un condannato in cammino verso il patibolo” (Joachim Jeremias). Per il discepolo si tratta di rinunciare all’idolatria di sé, di uscire dai meccanismi di autogiustificazione e di abbandonarsi totalmente al Signore in una follia in cui risiede il segreto della libertà del discepolo del Signore. Segreto che comporta la coscienza che la sequela si spinge fino alla morte e che contempla la possibilità della perdita della vita. Anzi, la follia evangelica fa sì che il perdere la vita per il Signore e per il vangelo sia, in verità, trovarla, esservi immerso pienamente. Seguire Cristo significa porre la propria vita nella sua vita per amore. Ciò che per amore si perde, in realtà non è perso, ma donato. E ciò che è donato per amore, è ritrovato nella relazione. Per cui, argomenta Gesù: “Che gioverà se un uomo guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?” (Mt 16,26). Il testo intravede la situazione di uomini tutti tesi a possedere, a estendere il proprio agire e il proprio accumulare al di fuori di sé, di fatto fallendo la propria vita, perdendo se stessi. Forse, tutti estroversi proprio per non incontrare se stessi, per non entrare nel doloroso faccia a faccia con se stessi.
Se Pietro aveva manifestato la sua opposizione alla prospettiva della passione e morte di Gesù, è evidente che anche l’assunzione della croce per il discepolo è altrettanto irricevibile. Qui occorre dire che nella vita cristiana la croce non la si sceglie ma la si riceve, e sempre si tratta di un indesiderabile, anzi di un irricevibile, di qualcosa che sentiamo come assolutamente da rigettare, perché insensato, disumano, ingiusto, ripugnante, e ad essa ci ribelliamo con tutte le nostre forze. Salvo poi doverci rendere conto che forse proprio lì, in quell’indesiderabile che è avvenuto, in quell’impensabile che ci è piombato addosso si cela la forma della nostra croce: “prenda la sua croce”. Come ha scritto Dietrich Bonhoeffer: “attraverso ogni evento, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio”. Questo è ciò che ha vissuto Gesù assumendo la sua croce. Possiamo chiederci: come Gesù ha vissuto il rinnegamento di sé, la perdita di sé, il prendere la croce? E possiamo rispondere che non la croce ha reso grande Gesù, ma la vita di Gesù ha dato senso anche alla croce quando vi è stato appeso. È la vita di Gesù spesa nell’amare, nel riconoscere e venire incontro all’altro nel suo bisogno; è la vita di Gesù segnata da fraternità, affetti, contemplazione del creato, incontri gratuiti; è la vita di Gesù sostenuta dalla fede semplice e radicale in Dio, attraversata dalla preghiera all’“Abbà” e dall’ascolto filiale della sua parola, che ha connotato la croce (simbolo di una morte ingiusta e crudele, segno del peccato dell’uomo) con il timbro della fedeltà e della solidarietà radicale di Gesù. Fedeltà a Dio e solidarietà con gli uomini sintetizzate in un unico amore a Dio e al prossimo. Gesù non ha mai avuto come fine l’autoannichilimento, il perdere la propria vita, ma il viverla pienamente e gioiosamente perseguendo la libertà e l’amore. E amando liberamente fino alla fine, fino all’estremo, fino al punto di non ritorno. Gesù ha vissuto donando vita: a malati, a peccatori, ad emarginati, a disprezzati, Gesù ha saputo, cioè ha scelto e voluto, dare vita. Il suo perdere la propria vita, è stato un donare tempo, forze fisiche e spirituali, energie psichiche e affettive: Gesù ha donato la sua vita dando vita agli altri. Non è stato un mero perdere, ma un donare, un generare, un trasmettere.
A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose