L’amore secondo l’intenzione di Dio
L’odierno brano evangelico è costituito da un primo episodio in cui a Gesù si avvicinano dei farisei e lo interrogano (Mc 10,2-12) e da un secondo in cui a Gesù vengono portati dei bambini per ricevere da lui la benedizione (Mc 10,13-16). Il tutto avviene mentre Gesù, in cammino verso Gerusalemme, continua a insegnare (Mc 10,1). Ma ecco che gli si avvicinano dei farisei al fine, dice il narratore onnisciente, di “metterlo alla prova” (Mc 10,2). Lo interrogano, ma non sono interessati a imparare, bensì a tendere un tranello. E lo interrogano su una questione halakika, cioè inerente l’etica. Si tratta di una questione di liceità o meno del ripudio.
Gesù non sottostà alla domanda, ma controinterroga i suoi interroganti. Questo metodo dice che l’interesse di Gesù non è tanto la questione di halakah, ma la verità delle persone che incontra. Emerge il differente approccio dei farisei e di Gesù al delicato problema del matrimonio, dell’amore dell’uomo e della donna che diviene storia. I farisei interrogano Gesù su una questione di liceità: “È lecito?” (Mc 10,2). La mentalità scrupolosa rischia di ridurre la relazione dell’uomo con Dio e con gli altri a una questione di liceità o meno. Se le leggi sante, se le leggi della chiesa lo consentono, allora “sono a posto con Dio” e con la coscienza. Gesù pone invece il problema sul piano della relazione con Dio e con l’altra persona.
Diverso tra Gesù e i farisei è anche il modo di leggere le Scritture per trovarvi luce per la questione sollevata. Gesù chiede che cosa abbia loro comandato Mosè. Ed essi rispondono che Mosè ha permesso di scrivere un libello di divorzio e di ripudiare la moglie. Ma Mosè, nel Deuteronomio, si riferisce al ripudio come a un fatto, non come a un diritto, e la lettera di ripudio è un documento che difende i diritti della donna ripudiata consentendole di risposarsi e di non essere costretta alla prostituzione o all’accattonaggio per vivere. Era una sorta di misura di protezione della donna ripudiata. Certo, in un contesto patriarcale, tale precedente mosaico poteva fondare una prassi ingiusta e oppressiva. La menzione del libretto di ripudio in Deuteronomio diviene per i farisei fondamento di un diritto: unico problema sarà quello di discutere su quali siano i motivi per cui un marito può ripudiare sua moglie: “È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per un qualsiasi motivo?” (Mt 19,3). Gesù invece si oppone alla strumentalizzazione della disposizione mosaica, svelandone il carattere provvisorio, di concessione, e si pone in ascolto della volontà del Dio creatore riprendendo Gen 1,27 (in Mc 10,6) e Gen 2,24 (in Mc 10,7-8).
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L’atteggiamento di Gesù si oppone al letteralismo e suppone un’ermeneutica del testo biblico. Ermeneutica che cerca di cogliere l’intenzione di Dio nel documento scritto: questo consente di valutare ciò che è fondamentale e ciò che è secondario. Gesù risale alla volontà del legislatore, ma prende sul serio anche la coscienza dell’uomo ed eleva il discorso al piano della relazione e della responsabilità personali. Se i farisei fanno proprio il punto di vista dell’uomo che vuole ripudiare la moglie, Gesù risale all’origine dell’unione dell’uomo e della donna, al momento in cui i due si uniscono decidendo di fare una storia insieme (cf. Mc 10,7-8). Ciò che è essenziale allora è imparare l’amore come fatica, come lavoro, come storia. È importante passare dall’innamoramento al vivere insieme con un’altra persona. L’amore che ha scelto i due deve divenire l’amore che i due scelgono facendo divenire storia il loro incontro: allora l’amore diventerà pazienza, ascolto, perdono, attesa dei tempi dell’altro, sacrificio, attenzione, sopportazione, riconciliazione…
Diventerà un amore più intelligente e fedele. Fedele perché intelligente. La fedeltà è infatti costitutiva del matrimonio cristiano che si fonda sulla fedeltà del Dio dell’alleanza e narra tale fedeltà. Ma questa unione fedele è permessa da un distacco. L’unione dell’uomo e della donna comporta il lasciare padre e madre. Non si pone sufficientemente l’accento su questa separazione che pure nel testo biblico è ben sottolineata. C’è una separazione concreta e profonda da attuare nei confronti dei propri genitori per acquisire libertà nei loro confronti, per assumere autonomia di giudizio, per un rapporto non di dipendenza ma di libertà, gratuità e gratitudine. E tale distacco non solo non inficia il comando di amare e onorare padre e madre, ma anzi dona libertà per obbedirlo.
Nelle parole e nell’atteggiamento dei farisei sul libello del ripudio noi vediamo la storia distorta di usanze, leggi e norme che nascono con un fine buono, ma che con il passare del tempo vedono pervertito e stravolto il loro senso. L’abitudine e la ripetitività le distolgono dal loro senso originario. Gesù però non abdica alla propria intelligenza e alla propria creatività, non si adagia sul già detto, sul già noto, ma spiazza gli interlocutori e, al richiamo a Mosè e a ciò che ha scritto oppone il richiamo a Dio e a ciò che Dio ha fatto, all’ordine della Torah oppone l’ordine della creazione. E dopo pone in tensione l’uomo e Dio dicendo che l’uomo non separi ciò che Dio ha unito, ha posto sotto uno stesso giogo (Mc 10,9).
Gesù sa cogliere che la logica della legge è anche una logica di condiscendenza, che mitiga la volontà originaria di Dio a causa della durezza del cuore umano. E durezza di cuore altro non è, biblicamente, che la non volontà di ascoltare la parola di Dio. La durezza di cuore è di chi non ascolta. Ancora una volta Gesù è interessato non a una questione teorica, ma alla verità delle persone che ha davanti. E la posizione di Gesù è un’ermeneutica del testo biblico che pretende di risalire alla volontà di Dio stesso. Dalle domande dei suoi interlocutori Gesù risale alla verità dell’interlocutore stesso, quasi come se le domande che gli vengono poste siano sempre anche una rivelazione della persona che ha davanti.
In sintesi, di fronte alla spinosa questione del ripudio, Gesù non emette sentenze né legifera, ma compie un annuncio, l’annuncio rigoroso ed esigente che emerge dalla volontà di Dio contenuta nelle Scritture. Un annuncio che la chiesa è chiamata a ripetere ma guardandosi dal cadere nella logica dei farisei del nostro testo. Logica che rischia di condurre a ergersi a giudice del mistero grande della situazione matrimoniale di due persone e di fare delle parole di Gesù un’occasione di condanna per chi ha fallito. Perché tante sono le declinazioni della biblica “durezza di cuore” (Mc 10,5).
Ma ecco che vengono portati a Gesù dei bambini perché lui li benedica (Mc 10,13-16). I discepoli reagiscono rimproverando – presumibilmente – coloro che hanno portato i bambini. I discepoli si sentono contrariati e credono di dover difendere Gesù da questa iniziativa che loro giudicano un’invasione indebita. Intervengono contrariati e pensando di interpretare il pensiero di Gesù. In realtà essi proiettano il loro sentire su Gesù. Errore di prospettiva che nasce dalla vicinanza e dalla presunzione di conoscere chi si ha vicino. Gesù invece si arrabbia con i discepoli ordinando loro di non ostacolare i bambini e di lasciare che vadano a lui. E ne aggiunge la motivazione: “Perché a chi è come loro appartiene il Regno di Dio” (Mc 10,14). Gesù poi abbraccia i bambini, li benedice e pone le mani sul loro capo (Mc 10,16). Prende in braccio attirando a sé, pronuncia parole di benedizione, poi impone le mani prolungandosi verso i bambini. Il secondo gesto assicura che l’atto benedicente non è un accaparrarsi l’altro, come sarebbe se ci fosse solo un attirare a sé. Gesù attira a sé e si protende verso l’altro, riceve e dona. E con i gesti e le parole Gesù benedice, fa cioè spazio a un terzo, all’Altro benedicente. Gesù poi non dice che il Regno appartiene ai bambini, ma a chi è come loro.
C’è una relazione visibile tra Gesù e i bambini e una, invisibile, tra chi è come i bambini e il Regno di Dio. Qual è la qualità presente nei bambini che fa sì che a chi è come loro appartenga il Regno di Dio? Qual è questa qualità che si trova anche in adulti? Gesù nel v. 15 parla di accogliere il Regno e poi di entrarvi. Le due immagini concordano nell’escludere un atteggiamento di possesso e di pretesa. Non si tratta di prendere il bambino come modello per l’adulto, ma di cogliere che la figura del bambino è legata all’accoglienza. La qualità dell’infanzia e dell’accoglienza non sono dell’ordine dell’avere, ma della mancanza e dell’apertura all’altro. È come se Gesù dicesse che c’è del bambino anche nell’adulto e che il Regno di Dio va incontro a questa qualità d’infanzia che rimane anche nell’adulto. Il Regno di Dio si offre all’uomo facendosi strada a partire dalla mancanza che definisce l’uomo stesso e che accende il suo desiderio. E poiché per Marco il Regno di Dio si è fatto vicinissimo a noi in Gesù, potremmo interpretare così il testo: “Lasciate venire a me il bambino che è in voi, perché il Regno di Dio gli appartiene”. Siamo ancora di fronte a quel movimento di ricerca della verità delle persone che Gesù incontra. C’è una dimensione di infanzia non spenta in ogni adulto che, riconosciuta e resa attiva, si fa capace di accoglienza. E dunque non mette alla prova, non inganna, non pone ostacoli, ma è terra vergine su cui Dio può regnare.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose