Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 29 Gennaio 2023

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Scandalo e follia delle beatitudini

Prima lettura e vangelo concordano nell’affermare che la predilezione di Dio è per i poveri e gli umili (Sof 2,3; 3,12-13), per i poveri in spirito (Mt 5,1-12). La comunità cristiana di Corinto – dice la seconda lettura (1Cor 1,26-31) che, pur proseguendo la lectio semicontinua della prima lettera ai Corinti, rientra in qualche modo nel messaggio unitario delle altre due letture – è formata da persone irrilevanti dal punto di vista sociale ed economico: Dio infatti sceglie ciò che è debole, ignobile e disprezzato per confondere le grandezze mondane. Anzi il carattere paradossale delle beatitudini trova un’efficace espressione nello sconvolgimento dei valori culturali e religiosi espresso da Paolo in quel primo capitolo della lettera ai cristiani di Corinto in cui afferma che la rivelazione di Dio nel Messia Gesù è follia (moría) e scandalo (skándalon). Paolo usa queste due categorie per indicare il carattere urtante, ossimorico, della rivelazione di Dio nel Cristo e questi crocifisso (1Cor 1,18-31). Secondo Paolo, per i giudei la croce è scandalo perché l’intervento di Dio nel suo Messia era atteso e inteso come accompagnato da segni e manifestazioni di potenza, mentre per i greci la croce è stoltezza, follia, insensatezza, perché urta la loro ragionevolezza, la loro ricerca filosofica e la loro sapienza (1Cor 1,20-25). Se l’“essere” era l’attributo fondamentale della divinità presso i greci, il Dio rivelato sulla croce è il Dio che sceglie di manifestarsi nel non-essere, in “ciò che non è” (tà mè ónta: 1Cor 1,28). La fede cristiana integra dunque scandalo e follia, senza per questo ridursi a insensatezza e irrazionalità. Ovvero, il contenuto stesso della fede, l’oggetto della fede, l’evento pasquale, mette in crisi i sistemi religiosi e di pensiero elaborati dall’uomo e li chiama a una conversione, all’apertura al novum suscitato da Dio. Accogliere nella fede la croce di Cristo significa accogliere una parola spiazzante. E cioè, che il salvatore del mondo è l’impotente appeso alla croce: lo scandalo diviene rivelazione, l’impensabile diviene verità, la sapienza si fa stoltezza. E il pensiero e la prassi cristiana non possono che colorarsi delle tinte dello scandalo e della follia evangelica. Quella follia che arriva a proclamare la beatitudine anche di chi è perseguitato e afflitto.

Infatti, entrare nello spirito delle beatitudini significa entrare nello sguardo di Dio sulla realtà umana e scoprire che, in Cristo, anche situazioni di dolore o pianto o ingiustizia subìta possono essere vissute come beatitudine: la beatitudine di chi sa di aver veramente qualcosa in comune con Gesù, il beato per eccellenza perché mite, misericordioso, povero in spirito. La beatitudine offerta è la gioia intima della comunione con il Signore sperimentata in situazioni concrete in cui anche Gesù si è trovato e, soprattutto, che ha vissuto come occasione di amore e di dedizione. È la gioia del servo che si trova là dove anche il suo Signore è stato (cf. Gv 12,26). È la gioia di chi partecipa al sentire e al volere di Cristo (cf. Fil 2,5).

Un ulteriore elemento di unità fra prima lettura e vangelo lo possiamo esprimere così. La parola profetica, che trasmette lo sguardo di Dio sull’uomo, svela che l’autentico popolo di Dio è un resto, un resto formato da chi è giusto, fedele, mite, non orgogliosamente autosufficiente, ma cosciente della sua dipendenza da Dio e del suo status di “cercatore” di Dio e della sua giustizia (I lettura); lo sguardo di Gesù sulle folle svela che il vero discepolo è designato non da un’appartenenza esteriore, ma da una realtà intima fatta di mitezza, purezza di cuore, povertà in spirito, misericordia (vangelo).

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Soffermiamoci ora su una delle beatitudini che maggiormente ne fa risaltare l’aspetto paradossale, quella rivolta ai perseguitati. L’ottava beatitudine (“Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli”: v. 10) ha un rilievo particolare perché conosce un ampliamento in cui si passa dalla terza persona, tipica del linguaggio delle beatitudini, alla seconda persona, rivolgendosi direttamente alla comunità e ai lettori/ascoltatori (vv. 11-12). La persecuzione riguarda già i primi destinatari delle parole di Gesù, non solo le future comunità cristiane: anche i primi discepoli di Gesù potranno incontrare ostilità e odio.

Nell’AT, in particolare nei Salmi, la persecuzione si presenta come avversione, inimicizia e ostilità per motivi religiosi: la giustizia è l’adesione al volere di Dio, è il rapporto giusto con Lui, che implica fedeltà e obbedienza al suo insegnamento. Il senso di quel “di essi è il Regno dei cieli” è che chi soffre persecuzioni a motivo della fedeltà al vangelo è colui che fa regnare Dio su di sé: su di lui veramente Dio regna. Egli è narrazione vivente della signoria di Dio. Questa beatitudine è il risultato di scelte fatte volontariamente e liberamente e a cui si resta fedeli. Infatti, viene perseguitato colui che, avendo scelto la sequela di Cristo, dà continuità alla propria scelta, la fa diventare una vita e si dispone a pagarne il prezzo.

I vv. 11-12 costituiscono un’espansione della beatitudine che riguarda i discepoli. Se nel v. 10 si è perseguitati “a causa della giustizia”, cioè a causa del proprio comportamento, al v. 11 la persecuzione è “a causa mia”, cioè di Gesù. La professione di fede in Gesù si manifesta in una prassi cristiana che si conforma alla vita di Gesù. Come Gesù fu perseguitato, lo stesso sarà per i suoi discepoli. Ciò che il credente cerca è la fedeltà a Gesù, non la persecuzione, e la beatitudine dipende dalla relazione con Gesù. Ma perché “beati” nell’essere perseguitati? Perché proprio quando abbracciamo sofferenze e opposizioni a motivo del vangelo sappiamo di aver veramente qualcosa a che fare con il Gesù che diciamo di seguire e di amare (cf. 1Pt 4,12-16).

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Nei vv. 11-12 emerge il vocabolario della lingua, del parlare: “insultare”, “mentire” “dire ogni sorta di male”. C’è una persecuzione che si gioca a livello della parola. La calunnia è la forma con cui una persona può venire uccisa, sia simbolicamente che realmente. L’odio nella Bibbia è espresso normalmente facendo riferimento al parlare. L’uomo responsabile è anzitutto responsabile della parola. Svilire o banalizzare o manipolare o falsificare la parola è fare violenza. Chi riconosce nel Cristo la Parola fatta carne deve anche interrogarsi sulla responsabilità del proprio quotidiano parlare. Non a caso il nostro testo fa riferimento ai profeti che subirono persecuzioni perché furono le sentinelle della parola, fino a divenirne anche i martiri. Don Giuseppe Diana può essere considerato come un contemporaneo martire della parola: egli conobbe la persecuzione della calunnia, delle accuse infamanti e false contro di lui. Riguardo a lui Roberto Saviano ha lasciato una bella testimonianza: “Pensavo alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando”. Don Peppino Diana fu ucciso il giorno del suo onomastico, il 19 marzo 1994.

La ricompensa promessa ai perseguitati (Mt 5,12) è la figliolanza divina, la comunione con il Signore, la prossimità con il Cristo. Il termine (misthós) è ripreso dal linguaggio economico degli scambi commerciali, ma ne rovescia completamente il senso. Il compenso è il vivere da figli di Dio in Gesù, con Gesù, come Gesù. Questo emerge leggendo il testo di Lc 6,35: “Voi, al contrario, amate i vostri nemici! Fate del bene e prestate senza sperare nulla in cambio! E così la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è buono verso gli ingrati e i cattivi”. Come appare da Mt 5,46 (“Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?”), la ricompensa si oppone alla logica dello scambio, della reciprocità, del do ut des, e va intesa nel senso della gratuità e del dono.

Infine possiamo ricordare che la persecuzione ha anche una dimensione invisibile che viene affrontata con l’invisibile lotta del cuore. Un detto tramandato nel Vangelo di Tommaso 69 parla di persecuzione nel cuore: “Beati coloro che sono stati perseguitati nel cuore: essi hanno veramente conosciuto il Padre”. Il perseguitato per la giustizia non è solo colui che affronta nemici esterni che si oppongono alla sua prassi di verità e giustizia sul piano storico e sociale, ma anche colui che affronta la durissima lotta interiore. Le tentazioni di Gesù (cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13) non avvengono tanto in luoghi fisici, quanto nel cuore. È nel cuore che emerge la possibilità di vivere nella logica del consumo e non della comunione, dello sfruttamento e non del dono, del protagonismo e non del servizio. Lì emerge la possibilità dell’idolatria. “La tentazione, scrive Gerolamo rende l’uomo o martire o idolatra”. Nel deserto Gesù compie la sua lotta contro il persecutore invisibile, il satana, l’avversario che insinua nel cuore umano la possibilità dell’idolatria e ne esce confermato nella sua figliolanza divina, nel suo essere spazio del regnare di Dio. Ne esce conoscendo la beatitudine che poi annuncia ai discepoli e alle folle.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose