Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 29 Agosto 2021

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Il criterio dell’agape

Il testo evangelico odierno è costituito da un brano di Marco molto frammentato e questo intralcia una comprensione piena del testo che costituisce un’unità letteraria dal v. 1 fino al v. 23 e che può essere posta sotto il titolo di “Discussione circa il puro e l’impuro”. Il brano, infatti, è racchiuso in un’inclusione fra il sostantivo “impuro” (Mc 7,2: koinòs) e il verbo “rendere impuro” (Mc 7,23: koinóo). Ora, se giustamente il criterio del Lezionario liturgico è quello del taglio, tuttavia i tagli espongono inevitabilmente il testo a comprensioni parziali, certamente impoverite. Per esempio, nel nostro caso, il taglio liturgico esclude il forte ammonimento con cui Gesù rimprovera i farisei di “annullare la parola di Dio” (Mc 7,13) con la tradizione da loro tramandata. Ammonimento che, ovviamente, non si limita ai farisei ma si applica a situazioni vissute dai cristiani e dalle chiese. È dunque consigliabile che il credente legga personalmente per intero il testo di Mc 7,1-23, per una comprensione più adeguata del messaggio evangelico.

Una seconda avvertenza preliminare è opportuna prima di leggere il nostro testo. Mc 7,1-13 presenta una discussione di Gesù con i farisei e gli scribi, dunque con rappresentanti religiosi del giudaismo dell’epoca. La specificazione che gli scribi erano “venuti da Gerusalemme” (Mc 7,1; cf. Mc 3,22), sottolinea il carattere ufficiale e autorevole di una delegazione inviata dal Sinedrio. Il testo presenta una discussione in cui Gesù entra in aperto conflitto con scribi e farisei arrivando anche ad apostrofarli come “ipocriti” (Mc 7,6).

Di fronte a tutto questo, è importante non fare di questo brano evangelico l’occasione di predicazioni oannotazioni antigiudaiche o anche solo di commenti caricaturali che presentino un giudaismo legalista, esteriore e formale, a differenza di un cristianesimo spirituale e interiore. Già il testo di Marco si esprime con una certa approssimazione (si pensi alla generalizzazione “tutti i giudei” del v. 3: in realtà la prassi di lavarsi le mani prima di mangiare, all’epoca di Gesù, era solo di una parte e probabilmente minoritaria di gruppi farisaici che estendevano al quotidiano le norme di purificazione sacerdotale), e comunque, da un lato, la tradizione cristiana ha conosciuto essa stessa fenomeni analoghi a quelli qui denunciati e, dall’altro, importante è cogliere queste parole come rivolte a noi oggi e trovarne un’ermeneutica adeguata. Non ci si dimentichi mai che Gesù è ebreo e lo è per sempre.

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L’apertura del nostro brano vede il riunirsi di farisei e scribi intorno a Gesù (Mc 7,1). Il lettore “sente” un clima teso e minaccioso. Del resto i farisei erano già comparsi in Mc 3,6 quando con gli erodiani “tennero consiglio contro Gesù per farlo morire” e una delegazione gerosolimitana di scribi si era già presentata a Gesù in Mc 3,22 accusandolo di essere indemoniato e di scacciare i demoni per mezzo del capo dei demoni. In ogni caso, la presenza di farisei dice che si avrà a che fare con questioni pratiche, problemi di condotta, di halakah, e quella degli scribi che ci saranno questioni di tipo teologico. In effetti, alla questione del prender cibo con mani non lavate (Mc 7,1-5) si accompagna il ricorso alla Scrittura e il problema della sua ermeneutica (Mc 7,8-13). La domanda rivolta a Gesù riguarda in realtà non tanto lui, quanto il comportamento di “alcuni suoi discepoli” (Mc 7,2): “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?” (Mc 7,5).

Il lettore di Marco ricorda l’analoga domanda posta a Gesù nel capitolo secondo: “Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano e i tuoi discepoli non digiunano?” (Mc 2,18). Sono domande pratiche riguardanti il digiunare e il mangiare. Gesù viene ancora interpellato dai farisei sul comportamento dei suoi discepoli che fanno ciò che non è lecito in giorno di sabato strappando delle spighe (Mc 2,23-24). Il movimento dei seguaci di Gesù è caratterizzato da una certa disinvoltura nei confronti di pratiche e osservanze tradizionali, da una libertà che Gesù motiva come obbedienza all’intenzione profonda del comando di Dio e come rispetto radicale dell’essere umano che del Dio creatore è immagine e somiglianza (“Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”: Mc 2,27). Inoltre tale libertà si fonda sulla novità che Gesù stesso rappresenta ed è venuto a portare con la sua stessa persona (“Finché hanno lo sposo con loro non possono digiunare”: Mc 2,19). La novità di Gesù diventa nei suoi discepoli coscienza di percorrere una strada nuova e dunque di potersi muovere con margini di libertà nei confronti di determinate pratiche e osservanze tradizionali. Osservanze giudaiche che Marco, che scrive per destinatari ignari di simili usanze (la comunità cristiana di Roma), deve spiegare anche a costo di qualche banalizzazione (il sistema rituale ebraico di puro e impuro – che ha connotati anche etici ed è connesso all’alleanza con Dio – ridotto al lavarsi o meno le mani: Mc 7,2).

Ma l’esempio serve per introdurre il problema di fondo, che sottostà anche ad atteggiamenti ben più gravi e rilevanti sul piano etico, come quello riportato in versetti omessi dalla pericope liturgica circa il korbàn, cioè l’offerta a Dio (Mc 7,9-13), e per fondare le dure parole di Gesù in pieno stile profetico e che a un profeta – Isaia – si richiamano. Parole che denunciano l’ipocrisia di chi separa “labbra” e “cuore” (Mc 7,6), di chi vive una fede parolaia senza adesione profonda, di chi compie gesti cultuali imparati a memoria ma non vissuti nel profondo (Mc 7,8). Rischio dell’azione liturgica è di ridursi a spettacolo, a teatralità, a prestazione, a recitazione, ad azione meccanica che va da sé, a esteriorità. E Gesù sottolinea che fonte di impurità non sono i cibi che entrano nell’uomo (“Così rendeva puri tutti gli alimenti”: Mc 7,19), ma i pensieri e le azioni che sgorgano dal cuore dell’uomo e di cui viene dato un lungo elenco (Mc 7,21-23). Tuttavia il discorso di Gesù non si limita a condannare una esteriorità scissa da una interiorità. Noi siamo sia esteriorità che interiorità. Compito spirituale è quello di non separare ciò che Dio ha unito, ma di conservarlo unito: possiamo intendere interiorità ed esteriorità (anima e corpo, interiorità e sensibilità, spirito e materia, ascolto e visione) come dimensioni non opposte, ma interagenti in uno scambio in cui l’una dimensione prega l’altra di donarle ciò che non è capace di darsi da sé.

Tentando un’ermeneutica del nostro testo possiamo affermare che il suo messaggio centrale consiste nel chiedere discernimento tra l’essenziale e il periferico, tra il prioritario e il secondario. E i due cardini su cui si fonda il discernimento di Gesù sono il comandamento di Dio (cf. Mc 7,8) e il cuore dell’uomo (cf. Mc 7,6.21). Ovvero, la parola di Dio e l’umanità dell’uomo, “il vangelo eterno” (Ap 14,6) e il volto dell’uomo. La parola di Dio ha come mèta il cuore umano e tende a suscitare una risposta che sia di tutto l’essere, senza divisione tra lingua e cuore, tra dire e fare, tra esistenza e culto. L’affermazione di Gesù circa l’origine interiore, nel cuore, di ciò che rende impuro l’uomo, è importante perché lega l’impurità al peccato, che è allontanamento dalla parola di Dio e fallimento umano. Soprattutto invita il credente a ricercare in sé l’origine del male che compie e a non rifugiarsi in sistemi di autogiustificazione in base a cui si accusano gli altri per discolpare se stessi.

Le parole evangeliche riguardano usanze giudaiche, ma il meccanismo denunciato da Gesù è attivo in ogni sistema religioso e facilmente individuabile anche nel cristianesimo. Occorrerebbe sempre passare al vaglio del vangelo le priorità che noi cristiani ci assegniamo: sul piano pastorale o morale o altro ancora. E occorrerebbe sempre porsi la domanda: che cosa è davvero irrinunciabile, talmente centrale da non poter essere tralasciato nella vita e nell’annuncio cristiano? Come criterio di discernimento essenziale e minimale al tempo stesso, va ricordato ciò che diceva Isacco della Stella: “È la carità, l’agape, il criterio di ciò che nella chiesa deve essere conservato o cambiato”. Questo discernimento è importante all’interno di una riforma ecclesiale che cerca di riportare all’essenziale e all’irrinunciabile il vissuto di fede. La dialettica fra comandamento o parola di Dio e “tradizioni”, presente nelle parole di Gesù, è echeggiata dai Padri della chiesa che distinguono verità e consuetudine. “Nel Vangelo il Signore dice: Io sono la verità. Non dice: Io sono la consuetudine” (Agostino). Il rischio è che la consuetudine prevarichi sulla verità divenendo tradizione immutabile e sacralizzata quando altro non è che cattiva o pessima abitudine: “La consuetudine non deve impedire che la verità prevalga. Infatti, la consuetudine senza la verità è errore inveterato” (Cipriano). Una consuetudine, magari nata “da una certa ignoranza o da dabbenaggine, con l’andar del tempo si radica sempre più e si trasforma in prassi abituale, e così ad essa ci si appella in opposizione alla verità” (Tertulliano). E così, una pagina che affronta tematiche distanti dai nostri vissuti e dalla nostra sensibilità si svela incredibilmente attuale e capace di parlare al nostro oggi ecclesiale.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose