Dramma e speranza
La prima domenica di Avvento ci fa entrare in un nuovo anno liturgico (l’annata liturgica C) in cui la pericope evangelica domenicale è tratta dal vangelo secondo Luca. Vangelo che, a differenza di tutti gli altri, costituisce la prima parte di un’unica opera la cui seconda parte è consiste negli Atti degli Apostoli, che potremmo definire “la prima storia del cristianesimo”. Costruendo questo complesso Luca ha voluto mostrare che la vita della Chiesa (di cui gli Atti narrano la nascita con la Pentecoste e poi i primi passi soprattutto attraverso le figure di Pietro e Paolo) è radicata in Cristo e trova in lui il suo centro di gravità. Non a caso, gli Atti iniziano riassumendo così il terzo vangelo: “Nel primo racconto, o Teofilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito santo” (At 1,1-2). Il vangelo lucano contiene dunque “ciò che Gesù fece e insegnò”. E tra gli insegnamenti di Gesù vi è il discorso escatologico, il discorso sulle cose ultime, da cui è tratta la pericope della I domenica di Avvento (Lc 21,25-28.34-36).
Nel suo discorso escatologico, Gesù spiega che la distruzione del tempio non è segno della fine del mondo (Lc 21,5-9), ma inizio dei “tempi delle genti” (Lc 21,24), che sono i tempi della storia, tempi che avranno fine con la venuta del Figlio dell’uomo. Luca accenna appena alla parusia (“Allora vedranno il Figlio dell’Uomo venire su una nube con grande potenza e gloria”: Lc 21,27), mentre mostra piuttosto le reazioni degli uomini a questo evento escatologico. L’accento è sulla storia che è il luogo in cui il credente è chiamato a sperare vigilando e pregando in mezzo a tribolazioni. La venuta gloriosa del Signore è vista da Luca nelle reazioni che produce sugli uomini: il dramma escatologico è un dramma umano, storico, esistenziale. Eventi catastrofici nella natura e nella storia, in cielo e in terra, che saranno motivo di angoscia e smarrimento, di attesa ansiosa, di paura e morte per tanti uomini, per i credenti potranno essere il segno dell’avvicinarsi della salvezza. “Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,28). Alzare il capo significa anche “alzare gli occhi” e vedere ciò che a molti resta invisibile: la salvezza che avanza tra le tribolazioni storiche, il Regno che emerge da dietro le macerie della storia, la promessa del Signore che resta salda anche nell’accumularsi delle rovine “sulla terra” (Lc 21,25). Nessun pessimismo, nessun far coincidere le catastrofi naturali e storiche, per quanto devastanti, le guerre, le pandemie, le crisi ecologiche con la fine del mondo, ma anche nessun cinismo, nessuna fuga dai dolori e dalle assurdità del reale per rifugiarsi in una visione spiritualistica o ingenuamente ottimista.
Del resto, per Luca non solo gli “uomini”, cioè “i non-credenti”, sono sottomessi al rischio di essere soverchiati, schiacciati dagli eventi che devono succedere, ma anche i credenti se non veglieranno e non pregheranno (cf. Lc 21,34). Luca evoca discretamente ma efficacemente le paure collettive, le angosce planetarie che schiavizzano uomini e collettività rendendoli preda di ciò che potrà accadere: “gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra” (Lc 21,26). Per Luca il dramma escatologico è dramma storico globale, che investe l’intera terra abitata, l’ecumene (oikouméne: Lc 21,26), “la faccia di tutta la terra” (Lc 21,35). In particolare sembra che Luca, parlando della paura di ciò che in futuro accadrà, parla dell’immaginazione del futuro che produce paure e angosce in tanti uomini, parla di rappresentazioni mentali che ingenerano ansia nelle persone fino a schiavizzarle e paralizzarle, quasi inducendole a gettarsi da sé nel baratro. Per questo l’esortazione alla vigilanza che seguirà subito dopo (Lc 21,34.36) è anzitutto appello alla lucidità, alla sobrietà, a non cercare vie di stordimento e immunizzazione dal peso e dal dolore della realtà, a non lasciarsi ottundere dal “rumore” degli eventi. Dietro agli eventi che non sono ancora accaduti ma che hanno tale potere di accasciare gli uomini occorre riconoscere in realtà le narrazioni, le rappresentazioni, le immagini, le proiezioni di tali eventi, non gli eventi stessi.
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Non sarebbe troppo azzardato tentare un’ermeneutica di questi testi intravedendo il potere del sistema comunicativo che crea narrazioni parallele alla realtà ma distanziate da essa fino a sostituirla e a spacciarsi per vera realtà. Ciò che è particolarmente interessante è infatti che questi eventi catastrofici che saranno colti come segno di “fine” da tanti, saranno motivo di smarrimento, angoscia, paura e morte per molti uomini, per i credenti potranno essere segno di inizio e di vita, segno dell’avvicinarsi della salvezza, della vita: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,28). I credenti potranno proprio allora vedere che quella fine è l’inizio della salvezza e potranno stare in piedi nell’atteggiamento di chi ha una speranza, una direzione di marcia, un senso. Ecco che il cristiano, colui che crede la resurrezione di Cristo dai morti, mostra questa sua qualità sapendo scorgere speranza e luce là dove non c’è che buio e distruzione. E qui va detto che questa distinzione fra “gli uomini” e “voi” non è una distinzione rigida fra non-credenti e credenti, ma in realtà anche il credente conosce la synoché (Lc 21,25: CEI traduce “angoscia”), cioè la strettezza di cuore, l’angoscia, l’essere in balia di paure e fantasmi o credenze che lo agiscono; conosce l’aporía (Lc 21,25: CEI traduce “ansia”), cioè il perdere il cammino, lo smarrimento, l’essere disorientato, spiazzato e reso fuori luogo dagli eventi che accadono; conosce la paura, phòbos (Lc 21,26) la paura che arriva a paralizzare e dominare; conosce la prosdokía (Lc 21,26), cioè l’attesa ansiosa, piena di insicurezza e di incertezza. Alla luce di queste parole si può dare un contenuto più preciso alla vigilanza. Vigilare significa lottare positivamente contro l’angoscia, non perdere la bussola e proseguire il cammino intrapreso, ritrovare forza e coraggio che impediscono alla paura di condurre alla morte (v. 26: “moriranno di paura”), nutrire la speranza cristiana e non cadere nella disperazione.
In particolare, la vigilanza tende a impedire “l’appesantimento del cuore” (v. 34), il suo ispessirsi che lo conduce a perdere lucidità, il suo rivestirsi di una corazza che lo difenda dalle sofferenze della vita. La vigilanza è lotta contro l’abitudine e la sua influenza anestetica. In particolare, l’ammonizione mette in guardia dall’ottundimento dei sensi e dell’intelligenza che può venire da un’angoscia che si sfoga negli eccessi del mangiare e del bere, da una paura della morte che viene esorcizzata nelle sfrenatezze sessuali, da un non-senso che si manifesta nelle preoccupazioni ossessive per se stessi. È così che l’attesa del Signore veniente può divenire realtà quotidiana, vissuta “in ogni momento” (v. 36). Attendere il Signore nella vigilanza e nella preghiera significa farlo regnare sul nostro oggi e conoscerne dunque la venuta già qui e ora. E significa essere irrobustiti, ricevere forza così da perseverare nelle tribolazioni e nelle prove e discernere in esse l’avvicinarsi della salvezza.
Esortando a “stare attenti a voi stessi” Gesù dà un’indicazione spirituale e, con il prosieguo del suo parlare, indica che lo squilibrio spirituale (non vigilare, non pregare, non stare attenti a se stessi) si manifesta in squilibri del corpo e della psiche, in eccessi che impediscono di avere una visione equilibrata delle cose e della realtà. Dietro alle “dissipazioni e ubriachezze” (in crapula et ebrietate: Lc 21,34) vanno riconosciute le dissolutezze che si accompagnano alle ubriacature, la vertigine, l’estasi artificiale che allontana dalla realtà e non consente più di dare il giusto peso alle cose. Questi eccessi conducono a un’uscita da sé non nella via della relazione con l’altro, ma nella via della deresponsabilizzazione, dell’incoscienza. Essi spingono anche a quelle sfrenatezze sessuali che, in stato di sobrietà, ci si inibisce dal fare. Ma poi si parla di “affanni della vita”. Potremmo anche tradurre con “angosce esistenziali”. Si tratta della preoccupazione smodata per il proprio io, sia la propria salute o la propria riuscita, il proprio corpo o il proprio successo, la propria immagine. Anche qui la visione della realtà non è più oggettiva, ma offuscata da un io troppo ingombrante e invadente, che occupa tutto lo spazio.
Di fronte a questi pericoli ecco dunque l’esortazione: “Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire (lett. “stare in piedi”) davanti al Figlio dell’Uomo” (Lc 21,36). Preghiera e vigilanza, che pongono il credente alla presenza di Dio, mostrano una valenza escatologica: vivendo alla presenza del Signore nell’oggi, il credente si prepara a incontrarlo e a stare in piedi davanti a lui, con atteggiamento di franchezza, fiducia e libertà, alla sua venuta.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose