Il cammino del mite
Con la domenica delle Palme entriamo nella settimana santa in cui seguiremo il cammino di Gesù passo dopo passo e giorno dopo giorno. Seguiremo il cammino che condurrà Gesù alla passione, morte e resurrezione. E l’invito che viene a tutti noi e a tutta la chiesa è a volgere lo sguardo, la mente, il cuore a Gesù e al suo cammino. Un detto rabbinico afferma che “un uomo impara in base alle vie che percorre”. Il discepolato cristiano esige che si impari dalle vie che percorre Gesù, ed esige che si sappiano misurare le proprie vie sulle vie percorse da Gesù. La settimana santa è questo cammino che può orientare nuovamente i nostri cammini personali ed ecclesiali. Così questa santa settimana, proponendoci il cammino di verità e di sofferenza di Gesù, può aiutarci a fare anche noi un cammino di verità, quella verità fuori della quale vi è solo inganno, e anche un cammino di sofferenza, perché la verità emerge in noi solo con sofferenza, come in un parto.
In particolare, la pagina evangelica odierna ci presenta il cammino di Gesù verso Gerusalemme. Un aspetto di tale cammino è che si tratta di un cammino non solo povero, ma disarmato. Dietro alle notazioni evangeliche sulla cavalcatura povera e mite scelta da Gesù si profila l’immagine del messia descritto da Zaccaria come mite e umile (Zc 9,9-10), messia disarmato che, in virtù di tale inermità, potrà anche disarmare il suo popolo. Certo, un re disarmato, è un paradosso, è un re che si è disarmato, da armato e dotato di esercito quale era. Ovvero, può convincere altri dell’efficacia dell’inermità solo chi vive l’inermità sulla sua pelle. Sappiamo come le nostre relazioni siano attraversate da violenza multiforme e plurima. Le forme della violenza possono essere rozze e grossolane, ma più spesso sono sottili, dissimulate. Ma chiediamoci: quando c’è violenza? È violenta ogni azione in cui si agisce come se si fosse soli ad agire: come se gli altri, il resto dell’universo, o semplicemente, il resto della famiglia, il resto della comunità fosse là soltanto per ricevere l’azione. Se questa è la violenza capiamo che non occorre alzare le mani o la voce per essere violenti. La violenza, in radice, è una assolutizzazione dell’io. Seguire il cammino di Cristo significa imparare il cammino della mitezza, ovvero dell’essere più forti della propria forza, accettando di mettere limiti a se stessi per accogliere e fare spazio ad altri, agendo avendo di mira, responsabilmente, le conseguenze che la propria azione può avere su altri. E sapendo dunque dirsi anche dei no.
Nella pagina evangelica il cammino di Gesù è espresso solo nella seconda parte, mentre la prima è occupata dall’indugiare del narratore su ciò che Gesù ha detto ai discepoli circa il loro entrare in un villaggio, il prendere una cavalcatura e poi l’effettivo svolgersi delle cose. Sette degli undici versetti del testo sono occupati dalla descrizione di questi dettagli che ci possono apparire poco significativi. E non basta dire che qui appare la capacità profetica di Gesù, la sua autorità, quasi la sua chiaroveggenza. Si tratta di azioni e situazioni molto normali che non esigono nulla di straordinario. Ma forse ci dicono altro. Gesù sente e sa vicina la sua fine, la sua morte. Il suo cammino va verso la morte. E quando il futuro si assottiglia o svanisce, il dettaglio acquista importanza. Quando non si può più guardare troppo avanti si comincia a guardare meglio ciò che è vicino, prossimo, immediato. Così l’atteggiamento di Gesù ci insegna ad accordare importanza alle piccole cose, sapendo che è esattamente in queste piccole cose che viviamo i nostri grandi valori,
viviamo il vangelo, viviamo l’amore. Certo, quando non si guarda che il piccolo, il dettaglio, e lo si rende enorme, allora la vita diviene una prigione e la si rende tale per coloro che vivono con noi; quando si accorda peso spropositato a dettagli insignificanti normalmente per lamentarsene, allora si sta semplicemente dichiarando la propria piccola qualità umana, la propria totale estraneità alla makrothymía; ma quando si guardano i dettagli perché si ha cura degli altri, perché si prevede ciò che gli altri possono incontrare sul loro cammino, quando cioè è l’amore che presiede a questo sguardo e lo guida, allora questo sguardo è vitale. In realtà, in questo testo noi possiamo vedere il cammino di chi prevede ciò che avverrà non perché è un indovino, ma semplicemente perché è responsabile. Vi è uno sguardo che vede le cose piccole perché è piccolo esso stesso, perché è sguardo di persone piccole, meschine; vi è uno sguardo che vede le cose piccole perché nella logica dell’amore nulla è piccolo ma tutto è importante.
L’atteggiamento di Gesù in questo cammino emblematico verso Gerusalemme è un cammino di mitezza e non di arroganza, di dolcezza e non di pretesa. Gesù promette di restituire subito la cavalcatura su cui intende entrare in Gerusalemme, non se ne appropria, non la requisisce. Il testo sottolinea la povertà di Gesù, il suo essere un paradossale signore: signore che ha bisogno di un asino, se lo fa portare, ma promette di restituirlo subito. Gesù dispone gli eventi perché alla luce delle Scritture emerga la qualità messianica del cammino verso Gerusalemme: l’asino è la cavalcatura del Messia povero e mite di Zc 9,9; è l’asino “legato” di cui aveva parlato Giacobbe morente a suo figlio Giuda benedicendolo nella profezia messianica di Gen 49,10-11; il corteo che accompagnerà questo ingresso mostra tratti regali, come appare dai mantelli stesi sulla strada e dalle parole di ovazione (cf. 2Re 9,13). E tuttavia la concezione messianica che Gesù vive è molto distante da quella che viene intesa dalla folla, come appare dalle parole del salmo 118 utilizzate dai presenti per acclamare re Gesù (cf. Sal 118,25-26 in Mc 11,9-10) e da quelle, tratte dallo stesso salmo, che Gesù userà per rivelare il rigetto del Figlio da parte dei vignaioli, cioè il rigetto dell’inviato di Dio da parte dei capi d’Israele, insomma, per annunciare l’evento pasquale:
La pietra che i costruttori hanno scartata
è diventata testata d’angolo;
dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri (Sal 118,22-23 in Mc 12,10-11).
Dunque, Gesù, insieme ai discepoli, giunge in prossimità di Gerusalemme (è solo con il v. 11, non compreso nella pericope liturgica, che Gesù entra in Gerusalemme e nel Tempio). Gesù sa ciò che questo significa. L’ha appena detto ai discepoli: “Noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo uccideranno” (10,33). Giunto a questa soglia, che non è solo il limitare di una città, ma anche il confine di una vita, Gesù dà responsabilità ai suoi discepoli e ne manda avanti due, di cui non si riporta il nome. E dà loro istruzioni. Gesù prevede, ha cura e sollecitudine per coloro che invia davanti a sé e di cui sente la responsabilità. La prospettiva della morte verso cui sta avanzando non lo distoglie dal pensiero di coloro che camminano con lui. Gesù non è distolto da sue preoccupazioni, non cade preda di situazioni in cui non è più il padrone di se stesso, ma resta responsabile, attento e preoccupato delle persone che il Signore gli ha affidato. Nemmeno una situazione così critica come questo avvicinamento a Gerusalemme lo porta allo smarrimento, alla perdita del controllo, e soprattutto alla perdita della responsabilità. Gesù si conserva responsabile e vicino ai suoi discepoli non mancando di dare loro parole, insegnamenti, indirizzo, esempio.
Ed ecco che, salito sulla cavalcatura, Gesù compie il suo percorso in mezzo a una folla numerosa che lo acclama. “Osanna”. Questa invocazione, che letteralmente significa “Signore, salva!”, diviene formula stereotipa che non invoca ma celebra, non supplica ma manifesta una certezza, non chiede ma presume. Mentre invochiamo salvezza già presumiamo salvezza. Mentre dichiariamo di attendere il Signore, ne addomestichiamo la figura perché ci confermi nelle nostre attese. E così il testo vaglia il possibile traviamento delle nostre ermeneutiche esistenziali, ecclesiali
e storiche di Gesù e del suo cammino. Il cammino di Gesù non è solo sottoposto al rischio dell’incomprensione, ma anche della cattiva comprensione, dell’interpretazione interessata, che non scomoda, non mette in crisi, ma conferma. Certamente la folla non percepisce il senso profondo di ciò che dice, grida e acclama. Vi è come una schizofrenia, una scissione tra ciò che viene proclamato e ciò che viene compreso. La schizofrenia si rende manifesta nel fatto che le folle che qui osannano Gesù, saranno le stesse che ne invocheranno la crocifissione. Ma ancora: la folla grida davanti a Gesù, “Benedetto il Regno che viene, del nostro padre David”. Gesù ha sempre annunciato il Regno di Dio, non di David. Viene proiettato su Gesù ciò che queste persone hanno in se stesse: l’immagine politico-nazionalista del regno messianico. L’altro resta un oggetto, lo schermo su cui viene proiettato ciò che un altro crede, sente o pensa. E anche questo è uno dei tanti meccanismi di violenza che accompagnano il quotidiano di tante relazioni: l’incapacità o la non-volontà di comprendere l’altro. E allora lo si riduce alle proprie misure. Siamo sempre a quella radice della violenza che è l’assolutizzazione del proprio “io”.
A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose