Il posto a tavola
Il vangelo di questa domenica ci pone di fronte a un contesto conviviale. In giorno di sabato, Gesù accetta l’invito di un fariseo autorevole (“uno dei capi dei farisei”: v.1) e si reca a casa sua per pranzare (lett.: “per mangiare pane”). Lì rivolgerà alcune parole prima agli invitati (vv. 7-11), quindi a colui che lo aveva invitato (vv. 12-14). Ai primi parlerà della scelta dei posti al banchetto e al secondo di chi invitare. Ponendo le parole di Gesù sotto il segno della “parabola” (“Diceva agli invitati una parabola”: v. 7), quando esse a prima vista non sono che lezioni di tipo sapienziale, Luca ne orienta la comprensione in senso rivelativo, dunque cristologico, escatologico ed ecclesiologico, mostrando che esse non riguardano semplicemente una questione di galateo conviviale e men che meno si riducono a una sorta di predica morale, il che stupirebbe alquanto in bocca a Gesù. È interessante anche l’annotazione che i commensali – che, pur non essendo specificato, sono con tutta probabilità dei farisei – “stavano ad osservarlo” (v. 1).
Potremmo tradurre più brutalmente “lo spiavano”. Il verbo qui utilizzato (parateréo) lo troviamo in Lc 6,7 dove designa l’atteggiamento di scribi e farisei che, nella sinagoga, in giorno di sabato, osservavano attentamente Gesù per vedere se compisse una guarigione per poterlo poi accusare. La situazione è simile a quella di Lc 14,1-6 in cui Gesù effettivamente guarisce in giorno di sabato un idropico (14,2-6), mentre nella sinagoga guarisce un uomo dalla mano paralizzata (6,6-11). Analogo atteggiamento nei confronti di Gesù è registrato in Lc 20,20 da parte di scribi e capi dei sacerdoti. Gesù dunque accetta l’invito a pranzo di un fariseo, ma si viene a trovare in un contesto che nutre prevenzioni, sospetti e diffidenze nei suoi confronti. La cosa, del resto, era già avvenuta quando era stato invitato a mangiare a casa del fariseo Simone (Lc 7,36-50).
Pur essendo “sotto osservazione”, è Gesù stesso che fa attenzione e nota “come” gli invitati sceglievano i primi posti (v. 7). Le sue successive parole nascono da questo sguardo, dunque, dall’osservazione della realtà. E questo rapporto con l’esperienza, con il dato di realtà, spiega il carattere sapienziale delle parole di Gesù. Le sue indicazioni infatti sembrano ricalcare la tonalità di consigli analoghi che troviamo nella letteratura sapienziale, sempre molto attenta a regolare il comportamento di chi è ammesso a banchetti e a pranzi con persone autorevoli (Pr 23,1; Sir 31,12): “Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: ‘Sali quassù’, piuttosto che essere umiliato davanti a uno più importante” (Pr 25,6-7).
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Quali che fossero i “primi posti”, i “posti d’onore” in un banchetto (accanto al padrone di casa? Al centro della tavolata? In testa ad essa?), Gesù esprime un’osservazione di buon senso per evitare brutte figure. Meglio scegliere un posto defilato e vedersi magari chiamati dal padrone di casa a venire in un posto più in vista, piuttosto che piazzarsi in un posto di primo piano ed essere poi costretti a cederlo a un invitato più ragguardevole e dover occupare un posto marginale. Nel primo caso uno “riceve onore davanti a tutti i commensali” (v. 10), nel secondo invece viene svergognato (“dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto”: v. 9). La dialettica onore (dóxa) – vergogna (aischýne) è di importanza vitale nella società dell’epoca di Gesù. L’onore è la rivendicazione personale di valore associata al riconoscimento pubblico di tale valore. Esso contiene una dimensione personale e una sociale e questa seconda è fondamentale. Il posto a tavola nei ricevimenti è uno dei luoghi che indicano l’onorabilità di una persona, certificano cioè la sua autorità e il suo status sociale (ed economico). Un uomo che ha onore, è una persona rispettabile. La vergogna si manifesta quando l’aspirazione individuale a una posizione di onore viene smentita o misconosciuta socialmente. Come nel caso di chi, postosi in posizione di onore in un banchetto, ne viene retrocesso dal padrone di casa. Ecco allora il disonore, l’umiliazione.
Tuttavia il senso del nostro testo non si ferma certo a questo livello. Il riferimento ai primi posti (protoklisía: vv. 7.8) contiene un’allusione al vizio e al vezzo degli scribi che “ambiscono i primi posti nei banchetti” (Lc 20,46). Sia scribi che farisei amano i primi seggi (protokathedría) nelle sinagoghe (Lc 11,43; 20,46). E questo vizio di primeggiare, di essere visti occupare posti che dicono autorevolezza e onore, è male che abita la comunità cristiana stessa, sicché il testo acquista valenza ecclesiologica ricordando a tutti i cristiani che la tavola imbandita del banchetto eucaristico è memoria del Servo del Signore e plasma una chiesa serva, chiede ai credenti di farsi servi gli uni degli altri, di cercare l’ultimo posto, sull’esempio di colui che è venuto non per farsi servire ma per servire, non per dare esibizione di sé, ma per occupare il posto vergognoso e infamante del servo di tutti.
Le parole di Gesù che Luca colloca durante l’ultima cena hanno esattamente questo tenore: “Chi tra voi è più grande diventi come il più giovane e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,26-27). Le parole di Gesù agli invitati, che potrebbero dunque rientrare nell’etichetta conviviale o addirittura sembrare una strategia un po’ furbesca per “ricevere gloria” dagli uomini (v. 10), vanno invece colte alla luce del paradosso formulato nel discorso della pianura (Lc 6,20-28) e diventano una critica alla volontà di protagonismo, alla brama di primeggiare, all’ansia di essere ammirati e riveriti che da sempre connotano l’atteggiamento clericale.
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Le parole di Gesù, mostrando un ribaltamento radicale della situazione, per cui chi aveva scelto il primo posto si ritrova all’ultimo e chi si era messo all’ultimo viene fatto avanzare, aprono il testo alla dimensione escatologica, come appare dal v. 11: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. Il rovesciamento della sorte intravisto è quello di cui ha già parlato Gesù in Lc 13-28-30 intravedendo la prospettiva escatologica del Regno di Dio: “Vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel Regno di Dio e voi cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e sederanno a mensa nel Regno di Dio. Ed ecco vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi”. Il testo acquisisce anche una valenza etica ponendo a contrasto orgoglio e umiltà. Essendo chiaro che umiltà ha il senso di autenticità, di adesione all’humus da cui l’uomo è tratto e a cui ritornerà e che, mentre ricorda all’uomo la sua dimensione creaturale e lo colloca come creatura davanti al Creatore, lo coglie anche come uomo (homo) che trova nell’umanità (humanitas) di Cristo la misura autentica della propria maturità (cf. Ef 4,13).
A questo punto, Gesù rivolge “a colui che l’aveva invitato” (v. 12) parole sorprendenti e scandalose che gli suggeriscono di invitare a pranzo o a cena non amici e conoscenti ma “poveri, storpi, zoppi, ciechi” (v. 13): questo gesto infatti sarebbe totalmente gratuito perché i poveri non possono ricambiare, a differenza dei primi che se ne sentirebbero perfino obbligati. Dunque, anche parlando di un banchetto, Gesù riesce a parlare dell’agire sorprendente di Dio: nel banchetto del Regno sono i poveri ad avere i posti privilegiati e gli ultimi a essere i primi (cf. Lc 14,11). Per noi uomini è prassi usuale e sensata invitare a cena a casa nostra le persone amiche, quelle a cui siamo legati da vincoli di affetto e simpatia, quelle che ci inviteranno a loro volta. Oppure invitare persone potenti e autorevoli che interverranno in nostro favore nel momento del nostro bisogno obbedendo a una logica tacita e consolidata di contraccambio, di scambio di favori. Gesù dunque mette in guardia da logiche di do ut des che corrompono i rapporti facendoli uscire dalla gratuità rendendoli meri rapporti di potere e complicità. Con queste parole Gesù sta pertanto obbedendo alla logica “strana”, “folle”, di Dio e del Regno. Il suo discorso è mosso da una “logica illogica”, se considerata a partire dal nostro buon senso che persegue reciprocità e si adagia in essa. Per Gesù tale reciprocità è estranea all’agire di Dio.
E rivela che, per l’uomo, questa logica illogica diviene fonte di beatitudine: “sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14). La beatitudine consiste nella partecipazione alla sorte di Gesù che ha amato unilateralmente gli uomini nel loro peccato e nella loro inimicizia (cf. Rm 5,6 ss.), che non ha cercato ricompense terrene e non ha preteso di essere riamato in cambio del suo amore. La beatitudine è la gioia di amare in pura perdita, nella coscienza che l’amore basta all’amore e che è ricompensa per chi ama. È la beatitudine di chi è libero dalla paura di perdere qualcosa amando; è la beatitudine di chi spera e attende come unica ricompensa la comunione escatologica con Dio nel Regno (cf. Lc 14,14b); è la beatitudine di chi trova nel dono la propria gioia; è la beatitudine di chi non agisce in vista di un contraccambio, ma donandosi interamente in ciò che vive e che compie.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose