Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 27 Novembre 2022

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Ricominciare

La prima domenica di Avvento fa sempre risuonare l’annuncio della venuta gloriosa del Signore. E questo annuncio va colto nella sua portata globale dall’insieme delle tre letture proposte dalla liturgia eucaristica: Antico Testamento (Is 2,1-5), Epistola (Rm 13,11-14a), Vangelo (Mt 24,37-44). Diversi sono i temi che le tre letture concorrono armonicamente a presentare e che forniscono materia per una revisione di vita così come per catechesi e predicazione. Fondamentale è la presentazione dell’evento escatologico al centro di questa domenica e di tutto il tempo dell’Avvento.

L’evento decisivo della storia di salvezza profetizzato da Isaia e annunciato dal vangelo come “venuta del Figlio dell’Uomo” viene colto nella sua portata giudiziale: esso giudica le violenze e le guerre che gli uomini scatenano (I lettura); le immoralità in cui si perdono (II lettura); l’incoscienza e l’ignoranza colpevoli con cui si anestetizzano (vangelo). L’annuncio escatologico non è un messaggio spiritualistico, ma ha un impatto forte sulla storia dei popoli (I lettura), sulla quotidianità delle esistenze dei credenti (vangelo) e sul loro comportamento (II lettura).

Segnando l’inizio di un nuovo anno liturgico, la prima domenica di Avvento contiene un invito a ricominciare: si tratta di ricominciare il cammino di fede ascoltando di nuovo la Parola di Dio (I lettura); facendo memoria degli inizi della fede, dunque del battesimo (II lettura); assumendo il quotidiano come luogo di vigilanza e discernimento (vangelo). In questa prospettiva di inizio o re-inizio, è significativo che il passo di Paolo sia stato decisivo per la conversione di Agostino (Confessioni VIII,12,28-29).

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Ascoltata la voce che dice “Prendi e leggi”, Agostino, che era disteso a terra (stravi) sotto un albero di fico, si alza (surrexi), prende la Scrittura, la apre e trova il passo che dice: “Non nelle gozzoviglie e nelle ubriachezze, non nelle orge e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nella sue concupiscenze”. Afferma Agostino: “Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Infatti, appena terminata la lettura di questa frase, una luce, quasi di certezza, penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono”. Anche Agostino vive il suo ricominciamento, o meglio, il suo risveglio, la sua “resurrezione”, il suo passaggio dalle tenebre alla luce.

E proprio la polarità notte-giorno, tenebre-luce, attraversa le tre letture consegnando al lettore un messaggio che intende svegliarlo e guidarlo a conversione. È la tenebra delle genti che non conoscono il cammino da percorrere e che vengono illuminate dalla Parola di Dio (“‘Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri’. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore”: Is 2,3); è la tenebra della generazione di Noè che non capisce nulla, non discerne il tempo e i suoi segni e così non vede nulla, si smarrisce nella cecità e perisce (“non si accorsero di nulla finché venne il diluvio”: Mt 24,39); è la notte che chiede al padrone di casa di vegliare per impedire al ladro di svaligiargli la casa (“se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe”: Mt 24,43).); è la notte simbolo del peccato, da cui il credente è chiamato a risvegliarsi gettando via le opere delle tenebre e indossando le armi della luce (“è ormai ora di svegliarvi dal sonno, … La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.

Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno”: Rm 13,11.12.13). La notte, con la sua valenza simbolica che rinvia alle situazioni di notturnità che la vita presenta e ai sentimenti di paura e di angoscia che suscita, diventa invito alla vigilanza, alla presenza a se stessi, alla lucidità. Si tratta dunque di non cedere alla notte omologandosi ad essa, chiudendo gli occhi, rifugiandosi nell’incoscienza, ma di rispondervi e di reagirvi positivamente vigilando, tenendosi pronti, tenendo gli occhi ben aperti. Per dirla con un le parole di un poeta contemporaneo: “La notte apre i miei occhi” (José Tolentino Mendonça).

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Un altro tema che attraversa le letture è quello del tempo, del trascorrere dei giorni che mette alla prova il credente. In tutti i testi troviamo il lessico cronologico: giorni, momento, tempo, adesso, ora. La venuta del Signore giudica il modo in cui noi viviamo il tempo. Le parole di Gesù nel discorso escatologico denunciano l’incoscienza con cui noi possiamo vivere il tempo: rischiamo di vivere in modo inconsapevole, ignoranti del bene prezioso e inestimabile che è il tempo, come se non sapessimo che questa è l’unica vita che abbiamo a disposizione e che non avremo una seconda opportunità. A volte ci comportiamo come se la nostra vita si dovesse protrarre all’infinito, senza

avere una fine. Anche noi, come la generazione di Noè, rischiamo di assolutizzare le nostre occupazioni quotidiane e finiamo con l’annegare in esse. Perché è nella superficialità, non nella profondità, che si annega. Anche noi rischiamo di non saper leggere e decifrare i segni dei tempi (cf. Mt 16,3) e anzitutto, quel segno che il tempo stesso è. Segno della pazienza e della misericordia di Dio che attende la nostra conversione. Ma segno che ha un termine. Nel trascorrere dei giorni emergono momenti critici, decisivi, e certo il giorno della morte è il più critico e decisivo di tutti, il giorno che sconvolge tutto il resto, come il diluvio.

È l’ora della nostra morte, quella hora mortis nostrae che ci è ricordata da una popolare preghiera appresa fin dall’infanzia. Giorno di cui non conosciamo l’ora, come dice il vangelo del giorno del Signore, ma di cui siamo certi, come assicura ancora il vangelo circa il giorno del Signore. Anche se spesso rimuoviamo questa certezza illudendoci di immortalità e sciupando così i nostri giorni in banalità spacciate per occupazioni importanti e finiamo così col rendere la vita una stucchevole estranea. Nella Regola di Benedetto, l’ammonizione ad “avere ogni giorno presente davanti agli occhi la prospettiva della propria morte” (IV,47), precede e in certo modo fonda l’ammonizione a essere vigilanti ogni momento, letteralmente, ogni ora della propria giornata, “actus vitae suae omni hora custodire” (“vigilare ogni istante sulle azioni della propria vita”) nella certezza che lo sguardo del Signore ci accompagna in ogni luogo (In omni loco Deum se respicere pro certo scire; “avere la certezza che in ogni luogo lo sguardo di Dio è su di noi”).

Mentre dunque l’annuncio escatologico nutre la speranza e spinge in avanti il nostro sguardo, esso ci radica nell’oggi e nella coscienza della preziosità inestimabile del momento presente, frammento in cui possiamo vivere il tutto che dà senso alla nostra vita. E qui emerge la vigilanza come attenzione a non perdere tempo. Che non significa consegnarsi al demone della fretta, ma, come ha scritto Dietrich Bonhoeffer: “Essendo il tempo il bene più prezioso che ci sia dato, perché il meno recuperabile, l’idea del tempo eventualmente perduto provoca in noi una costante inquietudine. Perduto sarebbe il tempo in cui non avessimo vissuto da uomini, non avessimo fatto delle esperienze, non avessimo imparato, operato, goduto, sofferto. Tempo perduto è il tempo non pieno, il tempo vuoto”.

L’impatto sull’oggi della prospettiva escatologica emerge con forza drammatica nell’immagine delle due persone impegnate in un lavoro della più ordinaria quotidianità e di cui si dice che uno è preso (cioè, salvato) e l’altro lasciato (Mt 24,40-41). La venuta del Signore porta alla luce ciò che prima poteva restare nascosto: nulla distingueva esteriormente i due uomini che erano a lavorare nei campi e le due donne che stavano macinando alla mola. Eppure lo sguardo penetrante del Veniente, “Colui che ha gli occhi fiammeggianti” (Ap 2,18), svela la verità dei cuori. Infatti, “non vi è nulla di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto” (Mt 10,26). Alla luce di tutto questo, la dimensione di ignoranza che il testo evangelico riferisce al quando della venuta del Signore si estende e diviene ignoranza dell’altro: Chi è l’altro con cui lavoro, con cui vivo?

Lo conosco o ne vedo solo un’ombra, un’immagine, una maschera? Incontro veramente l’altro o lo incrocio solamente? E più in profondità: io mi conosco? O la maschera che offro agli altri è anzitutto la menzogna che dico a me stesso? Non solo dunque l’annuncio della venuta del Signore ha un impatto sull’oggi storico, ma anche sul cuore, sulla mente, sul profondo di ogni persona. Esso passa al vaglio la verità del nostro cuore. Tra le due persone che nulla sembra esteriormente distinguere, passa invece una differenza profonda che si gioca nell’invisibile interiorità. “In interiore homine habitat veritas” (Agostino); “Il cammino della conoscenza porta verso l’interiorità” (Novalis). E questa interiorità, o meglio, questo lavoro interiore, prende nome di vigilanza.

L’esortazione finale della pericope evangelica (Mt 24,42-44) verte appunto sulla vigilanza. Che non è ansia di controllo su tutto, segno di un nevrotico delirio di onnipotenza, ma umile coscienza dell’ignoto, dell’impensato, del non preventivabile che abita l’esistenza e avvolge l’azione di Dio nella storia e la venuta gloriosa del Signore. Infatti, “non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà … nell’ora che non pensate viene il Figlio dell’uomo” (Mt 24,42.44).

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose