Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 27 Marzo 2022

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Il lungo respiro dell’amore

L’annuncio dell’amore fedele di Dio che diviene perdono è al cuore del messaggio del vangelo di questa domenica. Amore fedele di Dio significato dall’agire del padre protagonista della parabola che costituisce la pericope evangelica odierna (Lc 15,1-32). Un agire, o forse, un non-agire, che appare scandaloso e che non può non interpellarci. Il padre, di fronte al figlio che pretende di avere la parte di patrimonio che gli spetta, non si oppone, ma obbedisce. E quando il figlio, “dopo non molti giorni” (Lc 15,13) decide di andarsene, non gli si oppone e non gli dice nulla. Il padre appare senza parola e senza iniziativa: è un padre che non impone la legge del padre. Non fa un solo gesto per impedire quella spartizione anticipata dei beni che era sconsigliata dal Siracide: “Al figlio […] non dare potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze perché poi non ti penta e debba richiederle. […]

È meglio che i figli chiedano a te piuttosto che tu debba volgere lo sguardo alle loro mani. In tutte le tue opere mantieni la tua autorità e quando finiranno i tuoi giorni al momento della morte assegna la tua eredità” (Sir 33,20-24). Questo padre sembra rinunciare alla sua autorità. Da lui nemmeno una parola per indurre il figlio a cambiare idea o per consigliarlo una volta che ha deciso di andarsene. Segno di debolezza? Di incapacità di comunicazione con i figli? Il non detto del testo consente diverse interpretazioni, ma il senso delle parabole che Gesù sta narrando, che evocano l’atteggiamento di Dio verso l’uomo, suggeriscono che questo silenzio e questa inazione siano voluti e facciano parte dell’agire di amore di questo padre che rinvia al Dio Padre esplicitamente richiamato al termine delle due prime parabole in Lc 15,7 e 10. Questo padre ha il coraggio e la forza di non fare niente.

Anche una volta che il figlio minore se n’è andato, non lo va a cercare come il pastore che si mette in cerca della pecora smarrita, ma resta a casa, facendo un atto di fiducia radicale e restando in attesa. E che il suo restare a casa non sia segno di rassegnazione o di disinteresse, lo mostra il fatto che quando il figlio intraprenderà la via del ritorno, lo intravvederà ancora lontano e gli correrà incontro. A dire di un’attesa sempre vigile, di un desiderio mai scemato, di un amore mai venuto meno. A dire di un padre che ha avuto la forza di lasciare che la soggettività del giovane si manifestasse, anche in un modo che certamente gli provocava angoscia e dolore. Il silenzio del padre non è dunque segno di debolezza ma di forza nei confronti di se stesso. Ha saputo non cedere alla tentazione di incatenare il figlio alla casa per non dover soffrire lui stesso. Il padre ha accettato che l’allontanamento fosse la via per il figlio di nascere a se stesso, di incontrare se stesso. Non a caso il momento di svolta dell’itinerario del giovane sarà il “rientrare in se stesso” (Lc 15,17).

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Dunque, di questo aveva bisogno il figlio: di trovare lo spazio e le condizioni per prendere contatto con se stesso, per fare di se stesso la casa in cui entrare prima di poter rientrare nella casa paterna. Con sofferta intelligenza dunque, il padre non ha compiuto gesti autoritari per fermarlo, pur sapendo i rischi che il giovane avrebbe corso andando in un paese lontano. Ha accettato di vedersi sconfessato come padre e ha deciso di non attivare le funzioni di autorità e di parola, di legge e di interdetto proprie della figura paterna. Ha capito che il problema non era quello di proteggere se stesso dalla angoscia che gli avrebbe provocato l’allontanamento del figlio, ma di dare spazio al figlio, anche al suo errare e al suo errore.

Ha avuto la forza di non pensarsi onnipotente e infallibile, di non ritenere di sapere lui quale fosse il bene del figlio e di imporglielo. La compassione del padre inizia già qui, nel sentire l’unicità del figlio e nel percepire la sofferenza del figlio stesso dietro alla decisione che aveva preso. La compassione del padre esploderà emotivamente al ritorno del figlio: allora le viscere paterne si spaccano (esplanchnísthe: Lc 15,20), ed ecco la corsa, l’abbraccio, il bacio, la veste migliore, l’anello, il vitello grasso, la festa. Ma questo momento non è che l’epifania di una sofferenza con e per il figlio, di un com-patire che egli ha assunto accettando la soggettività del figlio. Si è fatto servo del figlio. Gli ha dato spazio ritraendosi. Ha agito efficacemente scegliendo di non agire.

Il testo si apre con un’affermazione (“Un uomo aveva due figli”) che fa emergere un vuoto, una mancanza. Manca la madre in questa famiglia. Dov’è? Non lo sappiamo, ma in ogni caso, il venire al mondo ci lascia in eredità anche dei vuoti e delle lacune che segneranno il nostro futuro. Di certo, invece, la famiglia è ricca: campi, vitelli, servitù, dicono di una famiglia agiata, tanto che il minore vuole la sua parte di eredità che certamente è sostanziosa. La centralità del denaro è sottolineata dal fatto che sono questi che rendono possibile al giovane di andarsene e poi di spendere tutto e di comprare tutto, anche l’amore, riducendo tutto a oggetto (le uniche figure femminili ricordate nel testo sono le prostitute al v. 30). E comunque, il padre lascia fare. Il suo silenzio è difficilmente comprensibile anche alla luce di quanto dice la Scrittura. In Siracide 3,16 si afferma che “chi abbandona il padre è come un bestemmiatore”.

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Il padre lascia che il figlio lo metta simbolicamente a morte per avere l’eredità. Non gli ricorda nemmeno i consigli del Siracide che dicono: “Non perderti dietro alle prostitute per non dissipare il tuo patrimonio” (Sir 9,6). Lascia che faccia il suo cammino, ma non lo abbandona. Il figlio l’ha abbandonato, ma lui non lo abbandona e continua a gettare un ponte interiore verso di lui con lo sguardo che per ora vede il vuoto, ma attende una presenza. Il figlio minore è stato illuso dal tutto che lo ha inebriato: egli ha raccolto tutto (v. 13) prima di partire, ma ben presto, quando ha speso tutto (v. 14), sopravviene la carestia che lo riduce in miseria, e l’urto violento con la realtà che viene a prodursi funziona come memoria dell’essenziale e nostalgia della condizione precedente da cui si è allontanato. Dalla pretesa passa all’indigenza e alla dipendenza da ciò che altri gli danno o gli negano (“nessuno gli dava nulla”: Lc 15,16).

Lui che si era sciolto dai legami, ora si lega (v. 15) a uno straniero che non è padre, ma padrone. Allora rientra in se stesso: in se reversus. Questo rientro in sé significa: presa d’atto della realtà e coraggio di nominare la propria situazione penosa: “Io qui muoio di fame” (v. 17); memoria di ciò che viveva prima: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza” (v. 17); decisione, mossa più dal bisogno che da pentimento: “Mi alzerò e andrò da mio padre” (v. 18). Così avviene e il padre gli corre incontro e fa festa. Davvero non è il pentimento che precede il perdono, ma, come notava Max Scheler, “è solo nello scorgere con stupore l’amore paterno che erompe potentemente il pentimento”. Il pentimento nasce dalla presa di coscienza di un amore restato fedele e mai venuto meno anche quando è stato da lui misconosciuto. Dunque, “si alzò e venne da suo padre” (Lc 15,20). “Venne”, non “tornò”.

C’è un novum in quel cammino che più che un ritorno è l’inizio di qualcosa di nuovo. E il padre che prima non aveva fatto nulla, ora invece si dà un gran da fare. Accoglie, fa festa, provvede ai bisogni materiali, onora il figlio quasi fosse un principe che viene incoronato. Il vuoto non era affatto vuoto. L’inazione è ora un ricordo che si sbriciola di fronte alle tante azioni che egli compie, il silenzio si interrompe di fronte alle tante cose che egli ora dice, quasi in un inno di giubilo. Questo gioire è l’altra faccia del soffrire coperto dal silenzio e dalla pazienza nel lungo tempo dell’attesa. Ecco il lungo respiro dell’amore, la pazienza, la compassione. Il padre poi non si interessa minimamente della condotta morale del figlio o del patrimonio dissipato; c’è un’incondizionata accoglienza del figlio, senza esigere percorsi di pentimento o sottoporlo a esami di dignità e di ri-ammissione alla casa da cui se n’è andato.

Il figlio maggiore reagisce malamente. Ma anche a lui il padre va incontro rivelandogli che ciò che è del padre è anche suo. E che egli è amato così com’è. Non deve meritare o mostrare nulla, non deve pensare che solo lavorando come uno schiavo sarà amato. Non deve nascondere la propria paura dell’amore dietro a una ossessione del dovere. Ma il percorso è lui che lo deve fare. Il più giovane ha fatto un percorso tortuoso per arrivare a rendersene conto; il maggiore è chiamato a scoprire la stessa cosa, con un percorso che dovrà essere suo, non imitazione di un altro. Il percorso di ciascuno di noi per cogliere l’amore incondizionato di Dio è personale e non clonabile. È insensato voler imitare altri percorsi. “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” dice Gesù. E quale migliore narrazione dell’amore unilaterale e incondizionato di Dio, che l’amore rivolto a pubblicani e peccatori, a non-giusti e non-santi. Affinché, se pentimento e conversione di una persona avvengono, siano opera della sua libertà, del suo sentirsi amata e del suo arrendersi alla potenza dell’amore.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose