Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 26 Settembre 2021

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Nel modo che Dio conosce

Il brano evangelico di questa domenica si apre in modo improvviso presentando in primo piano sulla scena Giovanni che si rivolge a Gesù parlando alla prima persona plurale, dunque a nome del gruppo dei discepoli. Gesù ha appena tenuto il discorso sul farsi ultimo di tutti e servo di tutti da parte di chi volesse essere il primo nella comunità, ha appena parlato di accoglienza (Mc 9,35-37), e Giovanni, dando prova di quella che un esegeta ha chiamato “una sordità assordante”, esibisce come un vanto davanti a Gesù l’impresa di aver tentato con insistenza e ripetutamente di impedire a uno sconosciuto di cacciare dei demoni perché lo faceva nel nome di Gesù, ma non facendo parte del gruppo dei Dodici (Mc 9,38). I discepoli hanno appena ascoltato parole sull’accogliere e compiono gesti di esclusione e rifiuto. Giustificati, nelle parole di Giovanni, dal fatto che quest’uomo usurperebbe il nome di Gesù.

Ma dalle parole di Giovanni emerge anche un’altra motivazione. Giovanni dice che quest’uomo “non ci seguiva” (Mc 9,38). Dove la sequela è intesa non solo in rapporto a Gesù, ma ai discepoli stessi. I quali mostrano così la pretesa di impadronirsi della comunità, di farla loro, di rendersene signori, di renderla una loro personale impresa. Rischio sempre presente nelle vite comunitarie da parte di chi sente di poter avanzare titoli di qualche tipo. Ma io penso che dietro alle parole di Giovanni ci sia anche un’altra motivazione. Non detta, anzi, indicibile, nascosta. I discepoli si sono appena rivelati incapaci di scacciare un demonio da un ragazzo posseduto da uno spirito muto e sordo (Mc 9,14-29; soprattutto la dichiarazione di impotenza del v. 28: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”). E questo è avvenuto a loro che seguono Gesù e costituiscono la sua comunità. Ebbene, costoro adesso vedono che uno sconosciuto riesce là dove loro hanno fallito.

Emerge la dinamica invidiosa, anch’essa una piaga tipica delle vite comunitarie e in genere delle vite associate. L’invidia è una passione sociale perché abbisogna sempre di altri o almeno di un altro. L’invidia si chiede: perché lui sì e io no? E vedendo l’impossibilità per sé di essere o di fare come l’altro, ecco che essa cerca di proibire all’altro di essere ciò che è o di fare ciò che fa. Se noi non siamo stati capaci di scacciare un demonio e costui, che nessuno sa chi sia, ci riesce, noi possiamo abbassare lui al nostro livello, possiamo impedirlo, possiamo dirgli che non può fare ciò che fa. L’invidia nasce sempre da un’impotenza. L’invidioso dice: restando me stesso, io voglio ciò che tu hai e che tu sei, e che hai e sei in virtù del fatto che tu sei tu e non me. Così, l’impotenza da cui scaturisce l’invidia diventa l’impossibile del suo scopo. All’origine dell’invidia vi è l’impotenza, come fine vi è un impossibile; il percorso non può che essere una sofferenza indicibile. L’invidioso, in verità, non accetta di essere ciò che è, rifiutando di accogliere i propri limiti. L’invidia vede nella riuscita dell’altro una diminuzione di sé; ciò che l’altro ha o è viene sentito come sottrazione a sé e come impossibilità di raggiungere lo stato in cui l’altro è installato. L’invidia poi si nutre anche di attrazione quasi irresistibile nei confronti dell’oggetto invidiato e verso cui si prova anche avversione e odio. Sì, in Giovanni sembrano emergere elementi significativi di un vissuto interiore di frustrazione e di invidia.

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Ma Gesù stronca sul nascere questi sentimenti che nelle parole di Giovanni si rivestono di sentimenti pii verso Gesù, di difesa del suo santo nome, e di zelo e di rigore verso chi è fuori dal giro della comunità. In verità, dietro sembra esserci anche la pretesa di essere gli unici detentori di quel nome, di averne l’esclusiva e usarlo come un potere e un diritto. Del resto, è strano anche il modo in cui Giovanni si presenta a Gesù a dirgli ciò che lui e i discepoli facevano. Non gli chiede nulla, ma solo gli racconta un episodio: perché? Con quale scopo? La risposta di Gesù che proibisce di proibire, mostra che Gesù non si sente minimamente minacciato dalla presenza di un uomo che fa riferimento al suo nome per compiere il bene. Con la sua risposta, Gesù chiede ai discepoli di aver fiducia, di non aver paura. Per lui non è decisivo il criterio dell’appartenenza al gruppo dei Dodici per l’abilitazione a compiere il bene nel suo nome. È talmente aperta la sua concezione della comunità che arriva a dire che chi non è contro è per (Mc 9,40). La non opposizione è già vista da Gesù come aperto favore. Criterio posto da Gesù è il parlare bene o male di lui: “Chi nel mio nome compie il bene non può subito dopo parlare male di me” (cf. Mc 9,39). Dunque, questi non sarà un detrattore della via percorsa da Gesù, del cammino cristiano, un bestemmiatore del nome. Gesù mostra fiducia nella potenza del nome come forza benefica che agisce ben oltre i confini comunitari.

Il nome ha una forza benedicente che influenza chi lo pronuncia, il quale non potrà, almeno subito, parlar male di Gesù. Così, con poche parole, Gesù capovolge la logica e lo sguardo dei discepoli, di Giovanni in specie: dal noi contro gli altri, si passa agli altri che, non essendo contro di noi, sono per noi. Di più. Gesù mostra i discepoli come beneficiari della bontà e dei gesti di carità degli altri (“Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome …”: Mc 9,41). Insegnando così a cambiare sguardo: a vedere se stessi non come centro del mondo a cui gli altri si devono piegare, ma come destinatari del bene che altri fanno loro. Ecco dunque che Gesù presenta gli altri non come persone da cui guardarsi, ma come coloro che possono testimoniare l’amore e la gratuità di Cristo ai seguaci di Cristo stesso. Ciò che viene chiesto da Gesù è un mutamento dello sguardo. Passare dallo sguardo invidioso allo sguardo capace di gratuità e amore. Invidiare (in-videre) significa proprio guardare torvo, guardare di traverso, ma significa in profondità non vedere più correttamente né la realtà né gli altri né se stessi. Significa avere una visione alterata della realtà, dunque anche della comunità e della vita. Dal nostro testo emerge con forza una dimensione diappartenenza e identità del gruppo dei discepoli giocate in maniera esclusiva ed escludente. E affiora immediatamente, infatti, anche la dimensione dell’inimicizia: i discepoli, di fatto, vedono nell’esorcista sconosciuto, un nemico. Da punto di vista ermeneutico possiamo affermare che il rapporto chiesa-nemico si situa all’interno di una fondamentale polarità. Da un lato, se la chiesa vive la radicalità evangelica e lo spirito delle beatitudini, non può non conoscere persecuzioni e inimicizie a causa del Nome di Cristo; dall’altro, la stessa radicalità evangelica impedisce alla chiesa di fabbricarsi dei nemici, di entrare in regime di inimicizia con gli uomini non credenti o di dar nome di nemico ad “altri”, a categorie di persone o a gruppi umani che semplicemente sono segnati da diversità o estraneità. Sul problema dell’inimicizia la chiesa gioca la sua capacità di assumere e gestire, positivamente o meno, il problema dell’alterità e della differenza al proprio interno e di fronte a sé.

Il discorso sullo scandalo (Mc 9,42-48), che segue il dialogo di Gesù con Giovanni e i discepoli, di fatto indica il rischio per il gruppo dei discepoli, quindi per la chiesa stessa, di divenire scandalo e inciampo per altri. In particolare per “i piccoli che credono in me” (Mc 9,42) e che non sono i bambini, ma i credenti dalla fede debole, dalla fede semplice. Per evitare lo scandalo il cristiano ricordi che la Potenza e la Presenza del Signore non sono suo monopolio, ma sono suscitate dallo Spirito e noi, afferma il Vaticano II, “dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (GS 22). L’espressione “nel modo che Dio conosce” dice che nemmeno la chiesa può pretendere questa conoscenza, pena il ridurre Dio a idolo e il divenire occasione di scandalo, cioè inciampo e ostacolo al cammino dell’uomo verso Dio. Certamente la prima accezione delle parole di Gesù sullo scandalo è comunitaria, e intravede la possibilità che un corpo comunitario si opacizzi al punto da non essere più trasparenza della presenza di Cristo. Ma tali parole hanno anche una valenza personale: occorre vigilare sul proprio agire (mani: Mc 9,43), sul proprio comportamento (piedi: Mc 9,45) e sulle proprie relazioni (occhi: Mc 9,47) per non divenire un ostacolo alla vocazione e al cammino di fede dell’altro.

Il discorso di Gesù, che si svolge sul registro del paradosso, afferma che occorre il coraggio della rinuncia a ciò che può ostacolare l’ingresso nel Regno, ingresso che avviene non a partire da un di più o da un pieno, ma da un vuoto, da una mancanza, da una povertà. Abbiamo qui l’esigenza di un’ascesi, di una lotta, di un duro combattimento contro le tendenze che portano l’uomo a un comportamento e una relazionalità antievangelici. Tagliare e cavare (lett. “gettare”) non sono disumane direttive da applicarsi letteralmente, ma indicazioni realistiche di una lotta da combattere ogni giorno per purificare il proprio cuore e vivere il vangelo con maggiore libertà. C’è un perdere la vita che è essenziale per trovarla in Cristo (cf. Mc 8,35).


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose