Gesù nei poveri
L’ultima domenica dell’anno liturgico ci consegna un messaggio escatologico centrato su un intervento di Dio che è di giudizio. Nella prima lettura (Ez 34,11-12.15-17) Dio annuncia che egli in persona opererà un giudizio sul suo popolo, non solo nei confronti dei capi (montoni e capri), ma di ciascun membro del popolo (pecore). Il vangelo (Mt 25,31-46) presenta Gesù quale re e giudice escatologico che separa pecore e capre, che opera il giudizio su ogni uomo basandolo sulla concreta prassi di carità.
La grandiosa pagina visionaria di Matteo annuncia l’autorità escatologica dei poveri e il valore incommensurabile del gesto di carità e di giustizia compiuto verso il povero. Tuttavia, mi pare che si possa cogliere un’altra dimensione, meno immediata e più profonda, del testo evangelico. Del resto ogni pagina evangelica è rivelazione di Gesù e rivelazione di noi stessi. Di Gesù, anzitutto. Questa pagina ci svela, paradossalmente, la conseguenza più radicale dell’incarnazione. Colui che si è fatto carne, concretamente lo si incontra nei poveri. “Quanto avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me” (Mt 25,40). E così ci viene rivelato fin dove giunge il decentramento che Gesù ha vissuto già in terra nel suo ministero storico quando si è fatto servo dei bisognosi prendendosene cura e ha lasciato spazio al regnare di Dio sulla sua persona e sulle sue relazioni. Qui, nella pagina di Matteo, Gesù afferma: non io, ma i poveri, i piccoli, i miei fratelli più piccoli. Come se Gesù si celasse nel volto dei poveri e dei piccoli e si nascondesse negli invisibili della storia. E dunque, come se fosse presente in essi e rivelato da loro.
I poveri sono la carne di Cristo e i portatori, inconsapevoli, del giudizio escatologico. Portatori inconsapevoli, ma di beata e salvifica inconsapevolezza, dell’inconsapevolezza che è libertà dall’egocentrismo e dal protagonismo, libertà dal detestabile ego. E il Gesù di questa visione escatologica, il Re e il Giudice, è pienamente agape nel suo essere totalmente libero dal dispotismo dell’ego. Ecco dunque in cosa risplende in modo sommo e si può comprendere l’affermazione neotestamentaria circa il suo essere senza peccato (cf. Eb 4,15) e il senso della sua resurrezione dalla morte: nel suo essere trasparenza del Padre e decentramento nei poveri vincendo la potenza mortifera dell’ego che continua invece a tiranneggiare e a ridicolizzare le nostre esistenze. E questa agape come libertà dall’ego la vediamo anche nei benedetti (Mt 25,34), in coloro che sono sorpresi dalle parole di Gesù “avevo fame e mi avete dato da mangiare”.
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La sorpresa, lo stupore meravigliato dice la loro libertà, il loro aver agito in semplicità, senza secondi fini, il loro essere stati completamente nell’azione che hanno compiuto: mai e poi mai essi hanno pensato di servire Cristo quando hanno compiuto umanissimi gesti di bene verso i loro compagni in umanità. La loro ignoranza è libertà, la loro inconsapevolezza è beatitudine. Mai e poi mai essi hanno servito le persone perché in esse vedevano Cristo, ma solo perché erano persone che, nel loro bisogno, li interpellavano.
Essi restano stupiti e attoniti di fronte alla rivelazione del Giudice, ridiventano cioè infanti, senza parola, entrano in quella condizione di bambini a cui è spalancato l’accesso al Regno di Dio: “Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei cieli. Perciò chi si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel Regno dei cieli” (Mt 18,3-4). Non così i maledetti (Mt 25,41), coloro che in verità non sono vittime di chissà quale castigo o condanna, ma sono ancora prigionieri del loro ego. Essi presumono e pretendono: “Quando mai ti abbiamo visto nel bisogno e non ti abbiamo servito?” (Mt 25,44). Difesa di sé, autogiustificazione, menzogna, battaglia ingaggiata con il Giudice per difendere ed esibire se stessi nel loro aver fatto sempre il bene.
Difesa strenua, ossessiva, disperata, quasi patologica, del loro ego, del loro essere nel giusto, del loro essere inattaccabili. Impenetrabili a ogni osservazione, immuni a ogni rimprovero, essi sono anche chiusi a ogni rivelazione: per loro non c’è rivelazione, perché essi già sanno la verità, già sono nel giusto. E così si chiudono alla possibilità di quella salvezza che passa attraverso l’incrinarsi della corazza dell’ego e l’apertura all’altro. E così vediamo che la pagina del giudizio escatologico, attraverso l’improbabile dialogo tra Giudice e giudicati, parla di noi e del nostro oggi. Parla del nostro qui e ora. Parla della battaglia che sempre ci resta da fare ogni giorno, tra agape e philautía.
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Centrale in questa pagina così profonda e inesauribile è l’affermazione: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (v. 40). Le parole del Figlio dell’uomo non ci interrogano sulle intenzioni che hanno presieduto a quel fare: basta rilevare se tali azioni sono state fatte o no. Il Figlio dell’uomo non chiede di provare sentimenti particolari per chi era nudo o affamato, non chiede di vedere Cristo in lui per darsi il permesso di amarlo, ma chiede di fare, semplicemente fare all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno.
“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, voi fatelo a loro” (Mt 7,12). Se il Signore ci chiede di “fare” questo, di amare, significa che lo possiamo, anche se non lo pensiamo o non lo crediamo. Noi iniziamo ad amare e impariamo ad amare facendo gesti di amore. Il gesto istruisce l’anima ed educa il cuore e la mente. Dice Giovanni nella sua prima lettera: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e con la verità” (1Gv 3,18). Troppo spesso pensiamo, diciamo, immaginiamo, sogniamo, parliamo di amare, ma poi non lo facciamo. Ne abbiamo paura; abbiamo paura di questo fare che ci mette in contatto non con un astratto “altro”, come amiamo ripetere, ma con un corpo, un corpo preciso. Un corpo da ascoltare, da vestire, a cui stare accanto, da dissetare, da sfamare, da visitare. Ne abbiamo paura perché entriamo in contatto anche con il nostro corpo: toccare è sempre anche essere toccati. Tutti e cinque i sensi si alleano nell’azione di cura e insieme ci dirigono verso ciò che ha veramente senso nella vita.
Possiamo esprimere questo con le parole di Albert Sabin: “Se non ti occupi di te stesso, chi lo farà al tuo posto? Ma se tu non ti occupi degli altri, chi sei?”. Prendersi cura: si tratta di toccare, ascoltare, vedere, accudire chi è nel bisogno e questo significa assumere qualcosa della sua sofferenza, sentirla, condividerla, spartirla, come il mantello che Martino di Tours divise con un povero mendicante alle porte di Amiens, in un rigido inverno. Narrando questo episodio, dice Venanzio Fortunato: “Fra entrambi è diviso il calore e il freddo, il freddo e il caldo diventano oggetto di scambio, l’uno riceve una parte del tepore, l’altro prende una parte del freddo: una stessa povertà è condivisa da due persone”.
Come amare l’altro senza prendersi cura del corpo che l’altro è? L’amore si esprime con gesti del corpo, e solo quando l’amore diviene corporeo, fosse ben attraverso un sorriso, un ascolto, uno sguardo, una carezza, un abbraccio, un silenzio, una parola, esso si comunica. Senza questa apertura anche il nostro corpo si ripiega su di sé, si incurva, si isola, sta in mezzo agli altri senza essere con loro, si disinteressa di loro, diviene freddo e trasmette freddezza. E questo proprio per non aver condiviso il freddo, il bisogno, la carenza dell’altro. Come amare l’altro senza condividere un po’ la sofferenza che egli sta vivendo? Scrive Agostino: “Io non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l’alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri” (Epist. 99,2). E la carità che consola gli altri dà riposo a colui che ama, a colui che la esercita, che la fa. Anzi, gli dà beatitudine. Dice infatti Gesù: “Sapendo queste cose sarete beati se le farete” (Gv 13,17). Beati, o benedetti, come si esprime la nostra pagina evangelica.
Il testo di Matteo ci rivela che l’essere umano è colui che risponde di un altro. E assumendo, per quanto gli è possibile, la responsabilità di un altro, se ne prende cura. E l’esperienza ci fa scoprire che fare il bene a un altro è sempre fare del bene a noi stessi. Il linguaggio della cura è universale e lo troviamo espresso in altre tradizioni culturali e religiose. Il Buddha, nel discorso di Sedaka, afferma: “Chi si prende cura di se stesso si prende cura degli altri. E chi si prende cura degli altri si prende cura di se stesso. E in che modo chi si prende cura degli altri si prende cura di se stesso? Con la pazienza, con il non nuocere, con l’amore, con la solidarietà”.
Un testo di Confucio dice: “È sufficiente che due esseri umani si trovino faccia a faccia, perché tra essi si instauri un patto vincolante per la loro relazione. È in questo che consiste l’‘umanità’ o, in altre parole, il ‘prendersi cura dell’altro’”. La grandiosità del nostro testo è pari alla sua estrema semplicità: il suo messaggio è praticabile da tutti, in ogni tempo e in ogni luogo e, mentre parla del raduno universale di tutte le genti davanti al Re e Giudice universale, ci raggiunge nella nostra quotidianità e parla alle nostre piccole – eppure anch’esse grandiose – vicende.
Per gentile concessione del Monastero di Bose