Il cammino che plasma il volto
Il vangelo di questa domenica ci pone di fronte all’inizio della seconda parte del vangelo secondo Luca. Finora Gesù ha predicato e operato guarigioni in Galilea, ma ora compare una novità: Gesù intraprende risolutamente il cammino verso Gerusalemme. E il primo episodio narrato è una sorta di sintesi che anticipa tutto ciò che avverrà fino al compiersi del destino tragico del figlio dell’uomo. La non accoglienza dei Samaritani e l’incomprensione dei discepoli (Lc 9,51-56) preannunciano il rifiuto dei capi del popolo e l’incapacità dei discepoli di reggere il peso di un cammino che si configura diverso da come se lo erano immaginati. Gesù invece ha introiettato e assunto il cammino che dovrà percorrere ed è pronto. Gli annunci della passione (9,22.44-45) mostrano che Gesù ha compreso dove lo può condurre il suo cammino e ne parla apertamente con i suoi discepoli. Ecco dunque che il narratore inizia la pericope dicendo: “Mentre si stavano compiendo i giorni della sua assunzione” (9,51), espressione che indica sì l’innalzamento in cielo con il compiersi dell’evento pasquale e l’ascensione, ma indica anche la salita a Gerusalemme, l’andare in alto nel senso di salire verso Gerusalemme, e l’essere tolto di mezzo, l’essere levato via.
E Gesù matura la decisione di imprimere una direzione precisa e irreversibile al suo cammino: “Egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme” (9,51). Così la traduzione della CEI. L’espressione greca potrebbe essere tradotta letteralmente con “rese duro il suo volto”, cioè “rese fermo e risoluto il suo volto”. Per tre volte in tre versetti compare il termine “volto”. Rese duro il suo volto (v. 51), mandò messaggeri davanti al suo volto (v. 52), i samaritani non lo accolsero perché il suo volto era in cammino verso Gerusalemme (v. 53). È il cammino che compiamo che plasma il nostro volto, che scolpisce la nostra faccia.
La decisione di andare fino in fondo al suo cammino si traduce nei lineamenti del volto, nella contrazione dei muscoli facciali, nel serrarsi della mascella, nel raccogliere le proprie energie e concentrarsi sul fine da perseguire e da cui non lasciarsi distogliere. Gesù diviene il suo cammino; il suo volto, cioè la sua unicità, si manifesta nella scelta fatta e nella decisione presa. Luca sta dicendo al suo lettore che la vita cristiana esige determinazione e risolutezza. Gesù stesso, sottolinea l’evangelista, ne ha avuto bisogno. Ora, nello sfondo veterotestamentario dell’espressione “rendere dura la faccia”, vi sono almeno tre rimandi.
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Innanzitutto vi è un’espressione idiomatica ebraica che indica il “dirigersi verso”, il “prendere una direzione di cammino” (Gen 31,21; Ger 42,15.17): l’uomo risoluto ha una direzione di marcia, sa dove va, ha una meta da raggiungere e un fine da perseguire e verso questo scopo raccoglie e mobilita le sue energie. La persona risoluta indirizza la sua volontà al fine da perseguire. L’irresoluto, invece, non ha una direzione da seguire, manca di una bussola interiore, e facilmente si smarrirà lungo la strada o non persevererà nel cammino. Il coraggio dell’oggi è sostenuto dalla meta cui giungere domani: “È necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme” dice Gesù (Lc 13,33).
Il secondo riferimento veterotestamentario ci rimanda all’esperienza del Servo del Signore che “rese la sua faccia dura come pietra” (Is 50,7) per resistere alle violenze e alle offese e custodire la fiducia nel Signore: la risolutezza consente al Servo di custodire la fede, di non restare confuso, di restare saldo anche nel momento dello scatenarsi della violenza contro di lui. Gli permette di non cedere nemmeno di fronte alle percosse e alle violenze. Il Servo abita il nucleo interiore della propria verità e convinzione, che non viene smossa né abbattuta neppure da percosse fisiche e offese morali. La passione che muove Gesù gli conferisce il coraggio di ciò che devee vuole fare. Qui la risolutezza è il saper sopportare le sofferenze e le ingiurie senza lasciarsene destrutturare, senza accordare loro troppo potere, ma accogliendole come occasione di vangelo.
In terzo luogo, vi è l’esperienza del profeta che “volge la faccia verso” e profetizza contro determinate persone o realtà (Ez 6,2; 13,17; 15,7): qui la risolutezza è necessaria per affrontare una situazione conflittuale; è ciò che rende possibile portare a termine la missione profetica che implica scontri e ostilità e richiede il coraggio dell’ammonizione e del rimprovero, della parresía, della parola forte che scomoda e suscita inimicizie e odio.
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Gesù poi manda dei messaggeri davanti a sé per preparargli la strada. I discepoli, gli inviati, devono svolgere la funzione che fu anche di Giovanni Battista: “preparare la strada al Signore”. Il ministero del Battista si prolunga nella chiesa: l’inviato deve diminuire perché Cristo cresca, perché Cristo trovi spazio e accoglienza. Ma questa missione comporta la possibilità della non accoglienza degli inviati. Gesù ha conosciuto la non accoglienza, ci dice Lc 9,53: i Samaritani “non vollero accoglierlo perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme” (9,53). Anzi, non accolto dai Samaritani perché diretto verso Gerusalemme, Gesù sarà rigettato anche da Gerusalemme, dalla città “che uccide i profeti e lapida coloro che le sono inviati” (Lc 13,34).
L’accoglienza e il riconoscimento non sono un diritto per Gesù. Ma questo, Gesù deve insegnarlo ai suoi discepoli, tentati di reagire con zelo cattivo allo sgarbo ricevuto (Lc 9,54-55). La radicalità che Gesù e il vangelo richiedono al discepolo viene a volte distorta da questi in pretesa, arroganza, violenza. Da parte di Gesù non c’è una sola parola di rimprovero per i Samaritani, che vengono accolti nella loro non accoglienza, e invece c’è un aspro rimprovero per i discepoli: “Si voltò e li rimproverò” (Lc 9,55). Per difendere il loro maestro questi discepoli zelanti sono pronti a distruggere: “Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?” (9,54). Pretendono di essere gli interpreti del loro maestro e invece non ne hanno capito nulla: il riferimento al loro maestro serve loro per darsi una forza che mai da sé avrebbero, ma in verità tradiscono l’agire, il volere, il pensare di Gesù.
Nel prosieguo poi del cammino di Gesù con i discepoli assistiamo a tre incontri con tre persone anonime (9,57-62). Una persona, che nel testo parallelo di Matteo è specificato essere “uno scriba” (Mt 8,19), si presenta a Gesù e proclama che lo seguirà ovunque lui vada. Gesù gli risponde con un detto che cerca di svegliarlo alla dimensione di precarietà, di rinuncia, di povertà, di mancanza e dunque perdita di sicurezze che la sequela comporta. Chi segue il Figlio dell’uomo non può nemmeno contare su quelle precarie e relative sicurezze che sono una tana, un nido, un rifugio su cui anche gli animali possono contare. C’è una perdita sul piano affettivo che si verifica con la sequela radicale, c’è un distacco da un grembo materno rassicurante, c’è il rischio di non accoglienza, come si è appena verificato nel caso dei samaritani. Questo – dice Gesù all’uomo che si era offerto per la sequela – va messo in conto. “Non pensiate di essere sempre accolti, sempre riconosciuti, sempre avvolti da un grembo affettivo rassicurante, no, non sarà così”.
Un secondo viene chiamato da Gesù stesso: “Seguimi” (v. 59). Se nel primo incontro Gesù pone l’esigenza di un distacco netto da un grembo materno, da un alveo affettivo securizzante, qui egli chiede un distacco netto dalla figura paterna, facendo balenare una radicalità davvero implacabile e scandalosa: chiede adesione immediata, senza indugi, ma anche una rottura con l’ordine del dovere, dovere famigliare anzitutto, ma anche religioso e sociale, come seppellire il padre. Per vivere il radicalismo cristiano occorre abbandonare padre e madre, e abbandonarli in profondità, altrimenti si resta dei morti viventi, persone incapaci di liberarsi di coloro che ci hanno dato la vita e che, restando legati a loro, rischiano di immettersi in una situazione di morti viventi. C’è un restare fedele a ordini famigliari, sociali e religiosi che diventano un tenere compagnia ai morti (“morti che seppelliscono i loro morti” (cf. 9,60).
Infine, un’ultima persona si propone di seguire Gesù, ma anteponendo una condizione: “Ti seguirò, ma prima permetti che mi congedi da quelli di casa mia” (9,61). Si tratta del difetto grave di chi pone condizioni alla radicalità cristiana. Qui ciò che viene preposto è il saluto, il congedo da quelli della famiglia: dopo il richiamo a madre e padre, ecco il più ampio gruppo parentale. Ci sono legami con il passato che occorre recidere altrimenti non inizierà mai una vita nuova e si resterà sempre nella vecchia vita. Si resterà nella morte. Gesù risponde: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto al Regno di Dio” (9,62). C’è un volgersi nostalgicamente indietro, un guardare a ciò che è alle spalle, che immobilizza e impedisce il cammino, come ben sa la moglie di Lot, che, per quanto avvisata di non farlo, durante la sua fuga da Sodoma guardò indietro e restò paralizzata (Gen 19,17.26).
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose