Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 26 Febbraio 2023

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Conoscere se stessi

Le letture del ciclo quaresimale “A” sono legate al catecumenato e all’iniziazione cristiana che culmina nel battesimo impartito nella notte pasquale. Nella prima domenica, ad Adamo che soccombe alla tentazione (I lettura: Gen 2,7-9; 3,1-7) fa riscontro Gesù che vince la tentazione (vangelo: Mt 4,1-11) e offre a ogni cristiano la possibilità di fare delle proprie cadute l’occasione di conoscere la grazia di Dio (II lettura: Rm 5,12-19).

La pagina di Genesi ci consente una rilettura del binomio peccato-morte con cui Paolo interpreta la caduta primordiale. La tentazione agisce interiormente all’uomo a partire dalla parola con cui Dio gli comanda di mangiare di tutto eccetto una sola cosa (cf. Gen 2,16-17). Altrimenti, l’uomo di certo morirà. La tentazione agisce come frustrazione (“se sono privato di una cosa, sono privato di tutto”: cf. Gen 3,1). La proibizione dell’unico frutto ferisce la creatura che si vede attratta da ciò che è interdetto. E dalla potenza del desiderio essa si difende con proibizioni ulteriori che inaspriscono il divieto divino: “Non lo dovete nemmeno toccare altrimenti morirete” o “per paura che moriate” (Gen 3,3). Ovvero: la morte è già presente nel mondo e sta agendo nel cuore umano producendo paura. E proprio le parole che assicurano: “Non morirete affatto” (Gen 3,4), vincono le resistenze della creatura e la spingono alla trasgressione. Dunque: dalla morte viene il peccato, più ancora che il contrario. O meglio, dalla paura della morte: il peccato fa leva sulla paura della morte. Noi pecchiamo e cediamo alle tentazioni per illuderci di darci vita nella via del possesso, del potere, del consumo, ma l’esito di tutto questo è mortifero. Il NT afferma che “Cristo ha ridotto all’impotenza colui che della morte ha il potere, il diavolo, liberando così gli uomini che, per paura della morte, erano soggetti a schiavitù tutta la vita” (cf. Eb 2,14-15).

In Genesi abbiamo un racconto di inizio che non riguarda solo l’individuo Adamo, bensì, dietro di lui, ogni essere umano. Secondo la tradizione ebraica, se ogni uomo è diverso dall’altro, tutti però assomigliano ad Adamo e possono riconoscersi in lui. Nella narrazione dell’inizio di Adamo vi è la scoperta che Adamo è per se stesso. Il serpente è presenza che sembra naturale, ma è inspiegata, compare improvvisamente, ma parla con l’essere umano come se fosse una sua vecchia conoscenza. C’è, nel testo di Genesi, la dimensione della conoscenza di sé come scoperta: scoperta del potenziale di male e della dimensione di enigma che c’è nell’uomo. Il dialogo con il serpente è la forma con cui l‘autore biblico presenta come l’essere umano scopre un’interiorità che abita in lui ma che lo sorprende e lo vince: dubbio, diffidenza, sospetto, frustrazione, sono alcuni dei sentimenti che emergono dal suo intimo e che dicono all’uomo che egli è uno sconosciuto a se stesso. E che ha il compito di conoscersi per vivere in modo consapevole e responsabile.

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Il vangelo presenta Gesù tentato agli inizi del suo ministero. Anche Gesù, con le tentazioni, ha a che fare con possibilità che si presentano a lui e che può vincere solo conoscendole. C’è un’ignoranza di sé che in alcuni può essere superficialità, in altri rimozione, in altri rifiuto, ma che ci impedisce la profondità nel rapporto con gli altri. Se Gesù scaccerà i demoni da altre persone e le libererà dalle ossessioni che li abitavano è perché ha saputo fare questo anzitutto in sé e su di sé. Perché anche per Gesù, come per Adamo e per ogni uomo, la tentazione avviene nel cuore, in quel cuore umano che, secondo Geremia (17,9), è “ingannevole”, “tortuoso”, “difficilmente guaribile”. Gesù non rimuove ma attraversa la tentazione. Cioè, egli accetta di misurarsi con essa in se stesso: non rimuove da sé la possibilità del male, non idealizza se stesso, non ha paura della coabitazione con la possibilità del male, ma si conosce e accetta che la potenza della tentazione si dispieghi nell’intimo, nel suo cuore. Da questa consapevolezza nascerà la sua responsabilità nei confronti di altri. Non è diverso per noi: solo conoscendo e accettando ciò che abita nel nostro cuore ambiguo, possiamo anche non spaventarci di fronte alle ferite, al male e alle storture che abitano in altri e possiamo anche eventualmente lenire tali ferite.

La pericope evangelica presenta tre tentazioni di Gesù scaglionate su 40 giorni che riproducono il cammino di Israele nei 40 anni nel deserto rinviando, attraverso tre citazioni del Deuteronomio in bocca a Gesù, a tre episodi dell’esodo: la manna e le quaglie (cf. Es 16, a cui rinvia la citazione di Dt 8,3 su ciò che nutre veramente l’uomo); Massa e Meriba (cf. Es 17,1-7, a cui rimanda la seconda risposta di Gesù tratta da Dt 6,16, che vieta di mettere alla prova Dio); il vitello d’oro (cf. Es 32, a cui ci indirizza la terza citazione, Dt 6,13, sull’adorazione rivolta a Dio solo).

La prima tentazione riprende la tentazione di Israele di cercare nutrimento allontanandosi da Dio e tornando in Egitto. È la tentazione della continua reversibilità delle scelte e del cammino intrapreso. La tentazione che sgorga dal terrore della definitività, dalla paura che viene dal vedersi in una data situazione per sempre. Questa tentazione, che verte sulla fame, sul pane, sul mangiare, nell’AT ha di mira la capacità o meno di Dio di prendersi cura e di nutrire il popolo. Nel deserto Israele si è chiesto se Dio era in grado di nutrirlo. Dio ci sa nutrire? Ci vuole bene? Si prende cura di noi? Questa la contestazione dei figli d’Israele: “Saprà Dio dare del pane o procurare carne al suo popolo?” (Sal 78,20).

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La seconda tentazione riprende quella del popolo a Massa e Meriba: Gesù risponde al diavolo con le parole di Dt 6,16 che dicono: “Non tenterete il Signore come lo tentaste a Massa” (cf. Mt 4,7). Questa tentazione verte sull’acqua, sulla sete, sul bere, ma in profondità sulla presenza di Dio. Dio è presente in mezzo al suo popolo sì o no? Questa la domanda dei figli d’Israele in Es 17,7.

L’ultima tentazione di Gesù rinvia all’episodio del vitello d’oro. Gesù risponde al diavolo dicendo: “Il Signore tuo Dio adorerai, a lui solo renderai culto” (Mt 4,10). Invece, in Es 32 Israele ha raffigurato Dio in un vitello, simbolo di forza e potenza, fatto di oro, simbolo di ricchezza e l’ha adorato (Es 32,1-6). Dopo la tentazione sulla cura (Dio si prende cura di noi?), e quella sulla presenza (Dio è presente in mezzo a noi?), ecco quella sulla raffigurabilità (Dio si manifesta, è visibile?).

Riprendiamo le tentazioni una per una. La prima: anche noi viviamo non di solo pane ma anche di parole, di comunicazione, di relazioni. A tavola condividiamo il cibo e scambiamo parole, sorrisi e sguardi, ovvero ciò che dà senso alla vita sostentata dal cibo. Noi ci nutriamo di amore: l’amore ci fa vivere. Gesù sta dicendo che egli vive della parola di Dio, che egli crede al Dio che gli parla e lo ascolta. Egli ama il Dio che lo ama. Gesù non sta rifiutando il cibo, ma l’autosufficienza. Gesù sta dicendo che la Parola è fonte di vita e che il cibo lui non se lo prende, ma lo riceve e lo condivide, che la vita non se la dà da sé, ma la accoglie in una relazione. Dietro il problema del cibo c’è il problema della relazione e dell’amore. La parola di Dio è la fonte su cui Gesù fonda la propria esistenza. Pratica che conoscerà la convivialità e diventerà esercizio di condivisione del cibo. Non solo Gesù crede al Dio che si prende cura dell’uomo e lo nutre dandogli pane e parole, ma egli stesso si fa dispensatore di pane e di parole, di senso e di amore. Egli stesso si fa pane e parola, cibo e nutrimento del credente. La sua vita e la sua persona attestano la cura di Dio per l’uomo.

La seconda tentazione mostra un Gesù che crede alla presenza di Dio e si fida di Lui. Non lo sfida gettandosi dal tempio e sperando in una salvezza miracolosa. Gesù sfugge alla tentazione del protagonismo di chi si sostituisce a Dio. Egli accetta la limitatezza e mortalità del suo corpo, nella certezza che proprio in quel corpo fragile, che si spezza se cade dall’alto del tempio, può essere vissuto il miracolo incomparabile dell’amore. Gesù rivela che il corpo è il vero tempio e il luogo di santificazione di Dio perché lì si vive l’amore. Gesù crede la presenza di Dio e non si interroga se Dio sia presente o no, ma lo rende presente nella sua vita, nel suo corpo, nella sua prassi di umanità. La parola di Dio che nutre Gesù lo rende luogo su cui Dio regna in pienezza. La vita e la persona di Gesù narrano la presenza di Dio tra gli uomini.

La terza tentazione mostra un Gesù che non sostituisce Dio con le caricature umane del divino: il potere e la ricchezza. Gesù non riduce Dio a un idolo. Egli crede al volto non raffigurabile di Dio e rispetta la distanza che da Lui lo separa. Nessuna fusione con il divino in Gesù. E nessuna svendita di sé, nessuna logica di do ut des: prostrati davanti a me e io ti darò potere e regno (cf. Mt 4,9). Nessun patteggiamento compromissorio come quello che fece Aronne con il popolo che gli chiedeva di costruire un dio (Es 32,1). Gesù crede il Dio invisibile e silenzioso e lo confessa e lo ascolta con e nelle parole della Scrittura. Non lo raffigura ma lo ascolta. E ascoltandolo incarna la sua presenza in sé stesso. Gesù ne diviene la raffigurazione con il suo corpo, con la sua vita, con il suo amore fino alla croce. La vita e la persona di Gesù sono visibilizzazione di Dio tra gli uomini.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose