Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 25 Settembre 2022

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Quale sguardo sull’altro?

Nella pagina evangelica la necessità di ascoltare Mosè e i Profeti, ovverosia la Scrittura, si accompagna all’istanza di vedere, ascoltare e aver cura del povero, dell’altro, di colui che ci è accanto – Lazzaro giaceva davanti alla porta della casa del ricco – e soprattutto di riconoscere in lui un fratello. Perché sia il ricco che Lazzaro sono figli di Abramo, ma il ricco, che pure si rivolge ad Abramo chiamandolo “padre” non riconosce in Lazzaro un fratello, e in vita lo ignora, mentre nell’aldilà, quando Lazzaro è nel seno di Abramo, ancora lo tratta come un servo, con disprezzo, uno che lui usa e che può trattare come una pezza da piedi: “manda Lazzaro a dissetarmi, manda Lazzaro dai miei fratelli”. Il testo ci interpella sullo sguardo che portiamo (o non portiamo) sull’altro. Il ricco non ha mai visto Lazzaro in vita, e dopo morte, nella visione che Luca presenta dell’aldilà, lo vede come un servo. Mai come un fratello.

L’ingiustizia rappresentata da uno stile di vita preoccupato del proprio benessere e totalmente insensibile alle sofferenze e ai bisogni dei poveri: questo il sottofondo della pagina evangelica. Dal vangelo emerge la domanda: chi è l’altro per me? E soprattutto, tra gli altri, il povero, l’ultimo, il reietto. Ma il povero, colui che noi chiamiamo tale, è sempre anche colui che sentiamo inferiore a noi. Non c’è bisogno che sia un mendicante, un immigrato, un rifugiato, un Rom, una persona di colore: povero è chiunque riteniamo o sentiamo inferiore a noi, chi percepiamo come più debole, anche se è un fratello, una sorella della nostra stessa comunità cristiana. Dunque: quale responsabilità accetto di assumere nei confronti di chi è debole, meno munito di me? Ma il vangelo annuncia anche il giudizio che colpirà chi, vivendo nel lusso e nell’esibizione sfacciata della propria ricchezza, finisce nell’incoscienza di chi dimentica l’umanità del fratello povero, lo giudica di fatto come meno umano di lui, meno degno di rispetto, ma così facendo obnubila la propria umanità. Questo giudizio, di cui Luca mostra la dimensione escatologica (il ricco si trovò “nell’inferno, tra i tormenti”: Lc 16,23), mostra che Dio non è indifferente al male e all’ingiustizia, ma se ne fa vindice.

Possiamo suddividere la parabola in due parti: i vv. 19-23 contengono una narrazione e i vv. 24-31 che costituiscono un dialogo. Nella prima parte abbiamo tre quadri in cui il ricco e il povero sono accostati, prima in vita, poi nella morte, poi nell’aldilà. La parte dialogica presenta tre domande del ricco rivolte ad Abramo e le risposte di Abramo. Colpisce che i due protagonisti siano uno anonimo, “uomo ricco”, la sua ricchezza è la sua identità, e l’altro, il povero, abbia un nome proprio, Lazzaro, Dio aiuta. Nel nome del povero è presente Dio, nel nome che il ricco non ha è contenuta anche l’assenza di Dio dalla sua vita. Assenza di Dio che si manifesta nella distanza e indifferenza verso l’altro, il povero, verso Lazzaro. Altre volte chi nella Bibbia non ha un nome è perché è espropriato dalla funzione che svolge, dal potere che detiene (si pensi al Faraone), è colui che non ha un se stesso, una consistenza personale, non ha nemmeno un volto, è distanziato da se stesso e dunque può compiere ogni abominio senza sentirsene responsabile. Il ricco che ogni giorno banchetta non vede Lazzaro, ma anzitutto non vede se stesso, probabilmente non sa nemmeno che c’è un se stesso da vedere. E chi non ha in sé identità la cerca fuori di sé, la pone in surrogati, qui la ricchezza, il

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banchettare, uno stile di vita eccessivo e lussuoso, oppure nel potere, nella funzione che si svolge e che espropria totalmente l’identità della persona. Il povero poi è povero non solo perché piagato, mendicante, senza cibo, ma anche perché privato e frustrato nel suo desiderio: “egli bramava sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola dei ricco”. Il verbo usato indica il desiderio intenso. E notate a Lazzaro è impedito ciò che è consentito ai cagnolini di cui parla Mt 15,27 che si sfamano delle briciole che cadono dalla tavola dei padroni. Non solo appare meno di un cane, ma addirittura i cani che fanno la guardia alla casa leccano lui e le sue piaghe. I cani si sfamano di lui che è escluso dalla tavola e relegato fuori dalla casa del ricco.

Ma ecco al versetto 22 la morte di Lazzaro e poi quella del ricco. Di fronte a uomini che non conoscono la misura e il limite, la morte resta il grande limite che non può essere aggirato e che, in certo modo, opera un livellamento di tutti, ricchi e poveri. E di fronte a vite condotte nell’ingiustizia e nell’indifferenza verso i poveri, la morte è anche misura di giustizia che dona a Lazzaro la prossimità con il padre Abramo, mentre situa il ricco fra i tormenti. Noi vediamo ora all’opera, nella visione surreale e anche un po’ grottesca di Luca, il contrappasso, il rovesciamento delle sorti. Vediamo che il ricco si trova lui ora nella situazione di Lazzaro: Lazzaro bramava sfamarsi di ciò che cadeva dalla tavola del ricco e ora il ricco bramerebbe dissetarsi di una goccia di acqua che gli venga portata da Lazzaro. Ma come intendere questo contrappasso? Luca non intende certo darci una descrizione dell’aldilà, ma invita noi a provare a metterci nei panni dell’altro. La prima parte della parabola mostra gli abiti lussuosi del ricco, descrive i vestiti di porpora e di bisso – la porpora era propria dell’abito regale, il bisso era un lino con sfumature dal bianco fino al rossiccio: quest’uomo vestiva con eleganza, aveva abiti ricercatissimi. E dice invece che il povero era vestito delle sue piaghe, della sua carne purulenta. Ora, descrivendo questa scena e questo dialogo impossibile, Luca sta invitando noi, i lettori della parabola a compiere l’opera necessaria per uscire dalla situazione di indifferenza e ingiustizia verso il povero. Mentre dice che il ricco si trova nella situazione del povero, mentre fa vestire al ricco i panni del povero, Luca sta dicendo: mettiti nei panni dell’altro, immagina come si deve trovare e cosa deve provare e come deve stare colui che non ha niente da mangiare, colui che da te è ignorato anche se vive accanto a te, davanti alla tua casa, colui che cerca comunicazione e tu gliela neghi, colui che non ha niente mentre tu hai tanto, perfino troppo, e tu gli neghi anche cose minime. Fai esercizio di empatia. Certo, non puoi prendere il posto dell’altro, ma puoi immaginare che se nessuno ti invita a mangiare in casa mentre tu, affamato sei alla porta di casa sua, questo non dev’essere piacevole, deve suonare come esclusione, come un no detto nei tuoi confronti. Un no che nega la tua umanità. Che ti nega come persona. Sì, non ti puoi – e nessuno di noi lo può – sostituire all’altro, ma certo avrai provato qualche volta che non è piacevole che nessuno ti rivolga la parola, e ora prova a immaginare come ci si sente a essere nella situazione di quel povero che era davanti a casa tua e tu non gli hai mai detto una parola. Immagina, in base a ciò che hai provato in te stesso. La responsabilità può iniziare a nascere anche a partire da un esercizio di immaginazione. Prova a immaginare come ci si deve sentire nell’udire – non direttamente certo, non a parole, ma nei fatti – un no così forte e decisivo alla propria vita. Perché quel luogo di tormenti che qui viene messo in scena non è tanto l’aldilà, ma l’aldiqua, è ciò che noi creiamo con i nostri rifiuti di comunicare, di avere relazione. Davvero, Luca sta descrivendo il vero inferno che noi creiamo con i nostri no a comunicare, con le nostre preferenze di persone che sono anche esclusione di altre, con la nostra irresponsabilità. Il grande abisso fissato tra noi e voi di cui parla Abramo è in verità un grande abisso, un fossato che noi scaviamo nei nostri rapporti qui e ora.

Invece di giudicare, proviamo a metterci nei panni degli altri, a entrare nel sentire dell’altro, ad ascoltarlo fino a sentire la sua sofferenza in noi. Questo principio è importante per entrare nella responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Dice il Siracide: “A partire da te intendi i desideri del tuo prossimo e su tutto rifletti” (Sir 31,15). Nel testo latino della Vulgata il passo recita: Intellige quae sunt proximi tui ex teipso. L’intelligenza del prossimo esige intelligenza di sé. Occorre leggersi dentro per comprendere l’altro; ascoltare la sofferenza dell’altro è possibile quando ascolto e riconosco la mia. Mettersi nei panni degli altri, in profondità non significa svestire gli altri, ma essere pienamente se stessi, abitare se stessi. Vestire i propri abiti. Questa è la responsabilità.

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Nell’irresponsabilità l’uomo sveste gli altri, perché in verità non veste nemmeno i propri abiti: scisso da sé, scisso dagli altri, scisso dalla realtà. Una seconda indicazione viene da sorella Maria di Campello. Di fronte a situazioni che esigono un giudizio, come quelle presenti nelle letture bibliche odierne, sorella Maria afferma in modo profondamente evangelico: “Crescere nella pace è l’unico modo di correggere”. Non si tratta di giudicare, men che meno di condannare, ma di fronte a una situazione in cui una correzione è necessaria, perché riscontrabile oggettivamente e non frutto di meccanismi di esclusione e pregiudizio, la via evangelica è quella di lavorare su di sé per creare pace in sé, per fare pulizia nel proprio cuore, per convertire il proprio cuore.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose