Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 25 Luglio 2021

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La fame e il cibo

L’odierno brano evangelico presenta Gesù che, insieme ai discepoli, si sposta nella zona montuosa non lontana da Tiberiade (Gv 6,1.3). Giovanni annota che una “grande folla” lo seguiva. Questa espressione, che qui indica le persone che lo seguivano perché avevano visto i segni che egli faceva sugli infermi, la ritroviamo, nel IV vangelo, solo nell’episodio dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, quando si afferma che “la grande folla … accorse non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva risuscitato dai morti” (Gv 12,9; cf. anche 12,12). C’è un vedere i segni compiuti da Gesù o i loro esiti (Lazzaro risuscitato da morte) che per Gesù equivale a non fede. E Giovanni l’ha annotato: “Molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome.

Ma lui, Gesù, non si fidava di loro” (Gv 2,23-24). Gesù non pone fiducia nella fede di chi crede in lui a partire dalla constatazione dei prodigi compiuti. Salito sul monte e postosi a sedere, nella posizione da cui solitamente impartiva il suo insegnamento (cf. Mt 5,1-2; Lc 5,3; Gv 8,2), in realtà Gesù non pronuncia alcun insegnamento. L’evangelista annota però la prossimità della Pasqua (Gv 6,4) e poi lo sguardo di Gesù sulla numerosa folla (Gv 6,5). La prossimità della Pasqua, alla luce del racconto successivo, cioè il dono sovrabbondante del pane per le folle, è indicazione discreta del senso ultimo del dono del pane che sfama le folle. Ovvero, è segno e profezia del dono della vita che Gesù fa alle moltitudini consegnando la propria vita alla morte. Quella morte che sarà vivificata nell’evento pasquale.

Giovanni riferisce lo sguardo di Gesù sulle folle che vengono a lui. Che cosa vede Gesù? Che cosa suscita in Gesù il vedere quelle folle numerose che lo cercano? Gesù si mostra preoccupato di dare loro da mangiare, di nutrirle. E pone una domanda a Filippo, una domanda che ha intento pedagogico, che vuole testare l’intelligenza di fede del discepolo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Gv 6,5). L’iniziativa di sfamare le folle non viene dai discepoli (come nei Sinottici), ma direttamente da Gesù. Non è motivata neppure dalla compassione nei confronti di folle stanche o smarrite o bisognose (come in Mc 6,34; 8,2; Mt 15,32). Il gesto di Gesù è sovranamente gratuito: è un’azione, non una reazione. Nasce solo dal suo sguardo sulla folla in quel tempo prossimo alla Pasqua (cf. Gv 6,4). E così il gesto appare rivelativo: sia in rapporto al Dio che nella Pasqua compirà il suo amore sovrabbondante per l’uomo donando il suo stesso Figlio per la vita del mondo, sia in rapporto all’uomo e alla sua fame non dovuta a particolari circostanze, ma fondamentale, costitutiva.

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Questa fame non è una disgrazia, ma la verità umana ordinata alla verità di Dio che la precede e la fonda e che è il desiderio di Dio di consegnarsi all’uomo per aver comunione con lui e perché l’uomo abbia la vita in abbondanza. Potremmo dire che Gesù vede nelle folle una fame che lui solo può saziare. E questa è la fame che lui stesso desta e che porta tanti uomini e tante donne a seguirlo, a desiderare la sua parola, a nutrirsi dei suoi insegnamenti. Egli è colui che desta la fame e che la sazia: è la fame e il cibo: “Chi viene a me non avrà più fame” (Gv 6,35). Gesù, che a Cana aveva donato il vino migliore (Gv 2,1-12), che alla Samaritana aveva annunciato il dono dell’acqua che estingue la sete in eterno (Gv 4,14), ora dona il pane in abbondanza (Gv 6,12-13). Lui stesso è questo pane, rivelerà Gesù nel discorso nella sinagoga di Cafarnao: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!” (Gv 6,34). E come il vino di Cana (Gv 2,9) e l’acqua della Samaritana (Gv 4,11) sono accompagnati dalla domanda sulla loro origine con l’avverbio pòthen, “da dove?”, così ora Gesù stesso chiede a Filippo “da dove (pòthen) potremo comprare il pane …?” (Gv 6,5). E in Giovanni questo avverbio non indica tanto un luogo quanto la sorgente di ogni dono, l’origine di ogni dono: Dio, il Padre: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre” (Gc 1,17).

Filippo non coglie l’intenzionalità profonda della domanda di Gesù e si arresta al piano materiale della monetizzazione del pane da acquistare rilevando l’assoluta inadeguatezza anche di una cifra significativa come duecento denari: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo” (Gv 6,7). E in fondo, anche Andrea, altro discepolo che segnala a Gesù la presenza di un ragazzo che ha quel po’ di cibo a partire dal quale Gesù sfamerà le folle, è nella stessa logica: “C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?” (Gv 6,9). Gesù, allora, prende l’iniziativa e lui stesso, in prima persona, prende quel cibo e lo distribuisce rendendo grazie. Tutti si cibano a sazietà e avanza ancora parecchio cibo (Gv 6,10-13).

La folla coglie correttamente il gesto di Gesù come segno che rivela qualcosa della sua identità profonda (cf. Gv 6,14), ma ne trae conseguenze che Gesù rigetta. Sapendo che volevano farlo re, Gesù si ritira in solitudine sulla montagna (cf. Gv 6,15). La sua regalità è altra e apparirà nella paradossale gloria del Crocifisso. Gesù si ritira, “fa anacoresi”, persino “fugge”, secondo alcuni testimoni della tradizione manoscritta (Gv 6,15). Fugge coloro che di un profeta vogliono fare un re, coloro che da un gesto di amore e di rivelazione vogliono trarre un’istituzione politica. Fugge chi lo applaude e lo acclama, fugge persino i propri discepoli, mostrando che a volte l’arte della fuga è l’unica possibilità di salvaguardare la qualità e la dignità della propria vita e il carattere evangelico della propria fede. Notorietà e successo possono disumanizzare. Perché dunque questa fuga? Gesù legge come tentazione l’intenzione delle folle, che potrebbe apparire un riconoscimento della sua potenza, perfino qualcosa di conforme al volere divino e che rende più efficace la sua missione. Ma Gesù sa che la traduzione in potere politico di un gesto profetico è uccisione della profezia. Soprattutto, Gesù sa che la tentazione avviene in situazioni quotidiane, mediante ministri umani e attraverso vie che a molti potrebbero apparire non tentazione satanica, ma volontà divina. Come discernere?

L’intento delle folle di fare re Gesù è stravolgimento del suo gesto di donazione sovrabbondante in un do ut des in cui esse accordano potere su di loro a chi dona loro cibo e sussistenza. Accettare di essere re significherebbe entrare in un gioco perverso di potere in cui non vige il servire gli altri, ma il servirsi degli altri. E servirsene inducendo gli altri a dare il loro consenso grato allo sfruttatore. E questo si chiama abuso.

Il rifiuto di essere fatto re rivela che Gesù non vuole che gli uomini si asserviscano, pagando con l’obbedienza e la sottomissione il pane che potrebbero ricevere. Gesù chiama alla libertà e fa della sua vita un insegnamento di libertà. Egli rifiuta la logica del grande Inquisitore di Dostoevskij che afferma che, poiché l’uomo non è all’altezza della libertà, l’istituzione ecclesiastica ha dovuto rivestire gli abiti regali per andare incontro all’ansia umana di inchinarsi davanti a qualcuno e per porre rimedio al dono insopportabile della libertà che Gesù fece all’umanità. “L’uomo non cerca Dio, ma miracoli”, afferma il grande Inquisitore. Per questo, egli prosegue, “dal Tentatore noi accettammo … la spada di Cesare e ci proclamammo re della terra, gli unici re … Chi mai infatti deve dominare gli uomini, se non quelli che dominano la loro coscienza e nelle cui mani è il loro pane?”. Rifiutando la regalità, Gesù rifiuta di servirsi del miracolo e del potere come strumenti di asservimento dell’uomo; rifiuta il dominio sulla coscienza dell’altro. Per Gesù non esistono sudditi, ma fratelli.

Gesù si rifiuta di piegare la fame, il bisogno ontologico dell’uomo, a un personale disegno di potere. E così interdice anche alla chiesa e agli uomini di chiesa di sfruttare la debolezza e il bisogno umano, la sofferenza, la paura, la malattia, il peccato, la mediocrità degli uomini per indurli a consegnare la propria coscienza nelle mani di chi potrà assicurare loro comprensione, perdono e consolazione. Al contrario di quanto afferma il grande Inquisitore: “Essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: ‘Riduceteci in schiavitù, ma sfamateci’. Comprenderanno essi stessi che libertà e pane terreno sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro!”. Stando al linguaggio di Dostoevskij, Gesù si rifiuta di servirsi di “miracolo, autorità e mistero” per manipolare il consenso di una persona, per ergersi a padrone della sua coscienza. Se a Gesù, secondo il grande Inquisitore, “la libertà della fede era più cara di tutto”, l’Inquisitore, come ogni manipolatore e abusatore che si muove nello spazio ecclesiale, si erge a benefattore dell’umanità portandola a rinunciare “al grave fastidio e al terribile tormento di dovere personalmente e liberamente decidere”. Dice il grande Inquisitore: “tu non volesti privar l’uomo della libertà e respingesti l’invito a mutare le pietre in pane, perché, così ragionasti, quale libertà può mai esserci, se l’ubbidienza è comprata con pani?”. Purtroppo, la logica e il dinamismo psichico perverso del grande Inquisitore non è faccenda del passato, ma si ripresenta in ogni caso di abuso e manipolazione nella chiesa.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del: Monastero di Bose