Abbiate fiducia, non paura
✝️ Commento al brano del Vangelo di: ✝ Mt 10,26-33
I testi biblici della dodicesima domenica dell’Ordinario dell’annata A ci ricordano una verità elementare. Ovvero, che un credente si deve sempre misurare con la paura: la fede, infatti, si intreccia sempre con la paura, seppure con modalità e in forme differenti. Nel passo evangelico odierno (Mt 10,26-33), tratto dal discorso missionario, Gesù ripete più volte, rivolgendolo ai suoi discepoli, l’imperativo “non abbiate paura”.
La stessa triplice ripetizione del comando (Mt 10,26.28.31) dice come la paura sia realtà potente e onnipresente. Nella prima lettura (Ger 20,10-13), ci viene presentata la testimonianza di Geremia, che vive il suo ministero circondato da nemici e derisori e che deve ricordarsi delle parole che gli furono rivolte al momento della vocazione: “Tu, stringi la veste ai fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti davanti a loro altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro” (Ger 1,17). Tutto questo ci dice come la paura sia una presenza assidua con cui il credente deve fare i conti. Certo, nei nostri testi biblici si tratta della paura suscitata dalla presenza di nemici, di persecutori, di presenze esterne ostili e minacciose.
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Sono coloro che vorrebbero zittire Geremia e che lo avversano, lo osteggiano, lo deridono, lo calunniano: sono coloro che vogliono impedirne il ministero, che ne desiderano e cercano la morte e che arriveranno a imprigionarlo. Così come nel brano evangelico sono gli avversari che i discepoli incontreranno nella loro missione. Del resto, come Gesù ha conosciuto opposizioni, accuse, ostilità, odio, così sarà anche per i suoi discepoli: “un discepolo non è da più del suo maestro … Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia” (Mt 10,24.25).
Nel testo profetico Geremia, in uno dei brani normalmente denominati “confessioni”, evoca la situazione infernale in cui ormai viveva il suo ministero: calunnie, minacce, ostilità anche degli amici (Ger 20,10), e questo perché il suo stesso ministero gli imponeva di denunciare il male che vedeva nel popolo di Dio (“Quando parlo devo gridare, devo urlare: ‘Violenza! Oppressione!’”: Ger 20,8). Così il profeta si viene a trovare tra due fuochi: Dio che l’ha inviato e il popolo a cui è inviato. Geremia è stretto in una morsa da cui è tentato di fuggire. Ecco allora che egli, nel pieno della crisi, di fronte alla violenza umana che si scatena contro di lui, rilegge il suo ministero come frutto della violenza di Dio stesso: tu mi hai fatto violenza e io mi sono lasciato violentare (Ger 20,7).
Tra rabbia e senso di colpa, tra ribellione e paura, Geremia pensa di abbandonare il ministero che lo obbliga a dare un annuncio che gli procura avversità: i suoi amici si fanno nemici, aspettano la sua caduta, non vedono l’ora di poter prevalere su di lui e annientarlo. Infatti, il suo messaggio non è rassicurante, ma critico: pronuncia parole di fuoco contro il Tempio, contro i governanti, contro i sacerdoti, La sua sola presenza è ormai invisa ai più che sperano di farlo cadere e dunque lo calunniano, lo perseguitano con le parole. Il suo stesso ministero, che nell’ora della vocazione gli parve dolce e desiderabile (Ger 15,16: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la delizia del mio cuore”), ora gli procura solo isolamento e sofferenza (Ger 20,8: “La parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno”). Si fa strada con prepotenza il desiderio di lasciar perdere e di abbandonare il ministero profetico: “Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome” (Ger 20,9).
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La paura genera scoraggiamento e volontà di de-vocazione. Ma ecco che la crisi della sua vocazione e del suo ministero diventa l’occasione di superare la paura in un rinnovato abbandono fiducioso al Signore e alla sua parola. Geremia non riesce a spegnere il fuoco che arde nel suo cuore: la forza della parola di Dio lo abita e lo mantiene nella fedeltà (Ger 20,9: “Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa, mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”). Ecco dunque che il più profondo momento di crisi diviene l’occasione per lui per esercitarsi alla fiducia nel Signore. Potrebbe sottrarsi, fuggire, abdicare al ministero, smettere di profetare, ma il fascino e la potenza della parola di Dio e il senso di appartenenza al Signore alla cui causa ha votato la sua esistenza, hanno la meglio. Così, la paura viene vinta dalla fiducia e dall’abbandono nel Signore (Ger 20,11: “Il Signore è al mio fianco”). La crisi appare come l’azione di Dio che scava nel fondo del cuore di Geremia per purificarlo, condurlo all’essenziale, renderlo più nudo e più saldo.
Il testo evangelico mostra la piena coscienza di Gesù del fatto che la missione che i discepoli affronteranno è rischiosa e può certamente spaventare. Mi pare che Gesù voglia indicare ai discepoli, e dunque ai lettori del vangelo, come elaborare la paura, come mutare la paura in fiducia.
Anzitutto, l’evangelizzatore può aver timore delle parole che pronuncia, che deve pronunciare, proprio come il profeta Geremia. Le parole provocano reazioni e l’annunciatore può esserne intimorito. Gesù spiega che anche i suoi insegnamenti consegnati nel segreto, nel nascondimento devono essere annunciati pubblicamente (Mt 10,26-27). Che cosa può sostenere il discepolo nel suo annunciare coraggiosamente la parola? La coscienza della verità, anche se queste parole gli procureranno ostilità, incomprensioni, opposizioni. Non è detto se la verità della proclamazione si manifesterà storicamente o solo escatologicamente, al momento del giudizio finale, ma ciò che dà forza alla testimonianza dell’inviato è la coscienza del mandato ricevuto dal Signore e della verità del proprio dire, costi quel che costi, quand’anche fosse contro tutti e contro tutto. E paradossalmente, proprio le inimicizie suscitate indicano che il discepolo si trova sulla strada che è stata percorsa anche dal suo maestro (cf. Mt 10,24-25).
Quindi, il missionario può aver paura della propria incolumità fisica, della violenza che può subire e che può giungere fino all’uccisione (Mt 10,28). Qui Gesù invita il missionario a discernere dove risiede la vera vita e ad accogliere il fatto che vi sono beni più profondi per salvaguardare i quali anche la perdita della vita può acquisire un senso. E di nuovo ricorda che l’unico da temere veramente è colui che è signore non solo del corpo ma anche dell’anima.
Infine (Mt 10,29-31) Gesù ricorda che colui che è destinatario del timore reverenziale del discepolo è il “Padre vostro”, colui che si preoccupa perfino della vita di creature come i passeri. Più che un’esortazione psicologizzante alla stima di sé, abbiamo l’invito alla fede in colui a cui occhi l’uomo è prezioso: “Voi valete più di molti passeri” (Mt 10,31). Le esortazioni a non temere evolvono sempre più verso l’invito alla fiducia. Dio infatti è presentato come Dio della cura, Dio di tenerezza, Dio che si occupa e preoccupa dell’uomo. Custodire nel profondo di sé questa convinzione è motivo di fiducia, e dunque anche di forza e di coraggio, per l’evangelizzatore.
Quindi Gesù, con il detto sul riconoscimento pubblico di lui da parte del credente, la confessione di lui fatta coraggiosamente “davanti agli uomini” e invece il rinnegamento, afferma che il comportamento del credente nella storia ha delle conseguenze nel giudizio escatologico (Mt 10,32-33). E il credente non può vantare alcuna certezza di salvezza rispetto ad altri. La fiducia comporta anche un non sapere, un’incognita, anche quando è fiducia nel Dio di tenerezza e di cura. La certezza della fiducia comporta sempre un’incertezza, non si colloca cioè sulla stessa lunghezza d’onda della certezza comune. Il sapere proprio della fede è il sapere dell’affidamento e non ha nulla a che vedere con una polizza assicurativa o con un sistema di prevenzione per evitare le alee del futuro. Vi è la possibilità di incorrere nel giudizio “Non vi ho mai conosciuti” (Mt 7,23) o “Non vi conosco” (Mt 25,12) anche per i credenti e i praticanti. Ecco dunque che il timore del Signore entra a pieno diritto a far parte della fisionomia della fede nel Signore stesso.
Se cogliamo la fede come superamento della paura, dobbiamo tuttavia riconoscere che la paura, nelle sue svariate sfaccettature, è importante perché “prende le misure” dell’atto di fede, rende cosciente il credente di cosa comporti il fatto di credere. E questo in due sensi: da un lato, mostrando l’esigenza temibile che il vangelo richiede, la radicalità di dono di sé a cui chiama e le possibilità di perdita di sé che può comportare, e, dall’altro, evidenziando i limiti e le carenze, le miserie e le povertà del credente stesso, che lo conducono a porsi il dubbio sulla propria adeguatezza. La paura può impadronirsi della persona e impedirle la relazione e la fiducia, ma la paura è essenziale al realismo della fede. La paura è un indicatore di realtà che, assunto, elaborato e superato nel timore di Dio insito nell’atto di fede, consente a quest’ultimo di essere un atto cosciente e perfino liberante, capace cioè di dispiegare le potenzialità umane della persona ponendole a servizio di una vita sotto il segno dell’obbedienza alla volontà del Signore.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose