Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 24 Settembre 2023

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Giustizia e bontà

Nella prima lettura di questa domenica (Is 55,6-9), la dichiarazione divina trasmessa dal profeta “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie” (55,8) trova un’esposizione narrativa nella parabola evangelica (Mt 20,1-16) secondo la quale gli operai che hanno lavorato un’ora sola nella vigna del padrone ricevono una paga identica a quella di coloro che hanno lavorato tutto il giorno. Nello scandalo patito dagli operai della prima ora vi è tutta la distanza tra il pensare e l’agire di Dio e il pensare e l’agire degli uomini. Ma quella distanza costituisce anche lo spazio per la conversione. E di conversione parla il brano di Isaia.

L’anonimo profeta che annuncia la fine dell’esilio babilonese, autore dei capitoli 40-55 contenuti nella raccolta posta sotto il nome di Isaia, ha ormai annunciato la vicinanza di Dio, la prossimità della sua venuta (Is 40,10): imminente è la fine della deportazione, occorre disporsi a partire per il rientro in terra d’Israele (Is 55,12-13). Ma questo cammino geografico trova tutto il suo valore come cammino di fede, ovvero, come ritorno a Dio, come conversione: e il ritorno al Signore comporta da parte dell’uomo l’abbandono delle proprie vie (Is 55,7), delle strade usuali che l’uomo batte nell’inerzia dell’abitudine, così come l’abbandono dei propri pensieri (Is 55,7), i pensieri e i progetti che nella pigrizia del suo mondo interiore egli coltiva, per accedere a quelle vie e a quei pensieri che Dio prepara con la sua parola (cf. Is 55,10-11).

Solo così l’uomo può far spazio in sé all’accoglienza del novum che Dio crea nell’oggi storico. Ma cosa comporta questo movimento di conversione? Certamente esso richiede la preghiera: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino” (Is 55,6). Infatti, “il Signore è vicino a quanti lo invocano” (Sal 145,18). E richiede l’ascolto obbediente della sua parola: “Ascoltatemi … Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete” (Is 55,2-3). La preghiera scava nel cuore umano lo spazio alla parola di Dio che è la via da seguire, la strada da percorrere. Fin dai primi versetti il Salmo 119 afferma che la parola del Signore è la via in cui l’uomo deve camminare, ovvero, è la luce che egli deve assumere come direttrice della sua vita, è la lampada ai suoi passi, è il pensiero che orienta la direzione del suo vivere. La conversione richiede dunque un incontro trasformativo tra pensieri dell’uomo e pensiero di Dio, tra vie dell’uomo e via di Dio.

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E per questo è necessaria la conoscenza di sé e di Dio, dei propri pensieri e dei pensieri di Dio. Lo esprime bene un passo del libro di Giuditta: “Se non siete capaci di scrutare il profondo del cuore dell’uomo né di afferrare i pensieri della sua mente, come potrete scrutare il Signore che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri e comprendere i suoi disegni?” (Gdt 8,14). Ecco che la ricerca di Dio comprende anche il faticoso lavoro di scavo del cuore umano, di conoscenza di sé da parte dell’uomo. Se infatti la ricerca che arriva a trovare Dio è quella fatta “con tutto il cuore” (Dt 4,29: “Cercherai il Signore, tuo Dio, e lo troverai, se lo cercherai con tutto il cuore”; Ger 29,13-14: “Mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; mi lascerò trovare da voi”), questa ricerca, per non esaurirsi in uno spiritualismo disincarnato, deve accompagnarsi a quella conoscenza di sé che sola permette di porsi davanti a Dio con spietata sincerità al fine di sperimentare l’opera trasformatrice della sua parola.

La pagina evangelica esplicita la distanza che si viene a creare tra i pensieri e il cuore di Dio, la cui presenza va colta in filigrana dietro al “padrone della vigna” (Mt 20,8), e quelli dei lavoratori della prima ora (“i primi”: 20,10), ma in verità essa evidenzia tale distanza anche, e forse soprattutto, con i pensieri e il cuore dei lettori della parabola. Dunque: con noi. La strategia narrativa della parabola è tutta volta a suscitare aspettative nei primi chiamati come nel lettore per poi deluderle in modo inatteso, sorprendente, anzi, sconcertante, quasi brutale. Il padrone esce all’alba, alle sei del mattino, per ingaggiare operai per la sua vigna, presumibilmente per la vendemmia, e li manda a lavorare dopo essersi accordato con loro per un denaro al giorno. Uscito alle nove “arruola” altri operai promettendo di dare loro il “giusto” (20,4).

Altrettanto fa a mezzogiorno e alle tre del pomeriggio (20,5). La distanza di tre ore che separa le varie assunzioni l’una dall’altra si spiega con la divisione del giorno in quattro parti. Colpisce la chiamata e l’assunzione di operai anche alle cinque del pomeriggio, quando ormai la giornata lavorativa sta per finire (20,6-7). Questa azione di per sé poco verisimile e poco sensata è funzionale al messaggio che la parabola intende trasmettere. Il lettore è dunque informato circa lavoratori che hanno iniziato a lavorare al mattino presto e con i quali è stata pattuita la cifra di un denaro come pagamento; quindi di altri che sono stati assunti a ore successive e a cui è stato promesso un pagamento giusto. E ovviamente, il lettore immagina che la “giustizia” del pagamento di chi ha lavorato meno andrà valutata a partire dalla somma promessa ai primi chiamati.

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“Giunta la sera” (20,8), la giornata lavorativa volge al termine e viene il momento di corrispondere la paga agli operai. Sta scritto: “Darai all’operaio il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole” (Dt 24,15; cf. Lv 19,13). E qui il lettore incontra la prima sorpresa: il padrone incarica il fattore di effettuare il pagamento cominciando dagli ultimi. Questa strategia narrativa è volta a consentire ai primi chiamati di vedere quanto viene dato a coloro che sono stati chiamati dopo di loro e hanno lavorato meno. E vediamo che l’interesse si focalizza sui primi e sugli ultimi (20,8) tralasciando le fasce intermedie dei chiamati. La dialettica primi-ultimi, anzi ultimi-primi, al cuore della parabola è funzionale alla frase che incornicia la parabola all’interno di un’inclusione: “Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi” (19,30); “Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi” (20,16).

Ovviamente, nel cuore dei primi chiamati si fa strada l’aspettativa di un pagamento più alto rispetto a quello ricevuto dagli altri che hanno lavorato meno di loro. Non è forse questa la giustizia? Non consiste forse nella corrispondenza tra lavoro effettuato e retribuzione? Nella proporzionalità tra prestazione e salario? E non è forse questo che pensa anche il lettore? E non sale anche alle sue labbra la protesta: “Non è giusto!” di fronte al fatto che anche chi ha lavorato un’ora sola riceva quanto chi ha faticato tutto il giorno? Vi è qui qualcosa di inaccettabile.

Ecco dunque che dall’aspettativa coltivata nel segreto, dai pensieri nutriti nel cuore (“pensarono che avrebbero ricevuto di più”: 20,10), i primi chiamati passano alla delusione che diviene contestazione del padrone: essi mormorano contro di lui (20,11-12) il quale ribatte affermando di aver agito con giustizia onorando il patto stabilito con loro e di aver agito con bontà verso gli ultimi (20,14-15). Che sia questo agire buono e generoso che ha infastidito i primi? In fondo, ai primi non è stato sottratto nulla. Perché ciò che inizialmente era ritenuto giusto ora appare come un’ingiustizia?

Ricordiamo anzitutto che una parabola ha un insegnamento teologico e se anche parla di pastori o pescatori o contadini non intende insegnare il mestiere del pastore o del pescatore o del contadino: questa parabola non intende affrontare temi di etica sociale o di diritto del lavoro o il rapporto padrone – dipendente o il problema della disoccupazione (cf. 20,3.6-7). Ma intende affermare che la logica di gratuità di Dio scardina le leggi ferree di corrispondenza tra lavoro e salario e lascia intravedere un mondo segnato non più da queste pur razionali e imprescindibili misure umane di equità, ma dalla sovrabbondante bontà di Dio, dalla sua sconcertante gratuità. “Il Regno dei cieli è simile a un padrone di casa …” (20,1).

Chiediamoci inoltre da dove nasca il conflitto. In realtà, tutto parte da un accordo: padrone e lavoratore si sono accordati (vb. symphonéo: 20,2.13) per la paga di un denaro. Il problema inizia con l’entrata in gioco del terzo – i lavoratori assunti più tardi, in particolare quelli dell’undicesima ora –, o meglio, con la constatazione che essi sono stati equiparati nel trattamento ai primi. “Li hai fatti pari a noi”, dice letteralmente il testo (20,12). Il paragone con questi ingenera nell’immaginazione e nella dinamica del desiderio dei primi l’attesa di un di più, e questa attesa viene smascherata dalle parole del padrone come invidia: “Sei invidioso perché io sono buono?” (20,15). Letteralmente: “Il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?”. L’invidia è la mancanza di libertà di chi pensa e valuta se stesso a partire da un altro: da ciò che un altro ha o è: vedendo la paga degli ultimi arrivati, i primi si sentono in diritto di pretendere più di quanto avevano liberamente pattuito. L’invidia si sposa con una certa naturalezza con l’avidità. E in verità arriva a non vedere (in-videre) più l’altro in verità ma neppure se stessi. E neppure la realtà: l’invidia è una forma di idolatria.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose