Intime presunzioni
Come già il vangelo di domenica scorsa, anche quello della XXX domenica del tempo Ordinario (Lc 18,9-14) contiene un insegnamento sulla preghiera. Insegnamento affidato alla parabola del fariseo e del pubblicano al tempio, un testo presente soltanto nel terzo vangelo. Se Luca aveva specificato il fine per cui Gesù aveva raccontato la parabola della vedova insistente e del giudice iniquo (la necessità della preghiera perseverante: Lc 18,1), questa viene invece narrata avendo di mira dei destinatari precisi: “Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri” (Lc 18,9). Alla luce di Lc 16,15 in cui Gesù si rivolge ai farisei qualificandoli come coloro che “si ritengono giusti davanti agli uomini”, si può pensare che il più diretto “bersaglio” della parabola siano appunto i farisei, ma l’atteggiamento preso di mira nella parabola è una stortura religiosa che si verifica ovunque e abita anche le comunità cristiane, ed è certamente a questi destinatari che pensa Luca scrivendo il suo vangelo. È importante precisare questo per evitare letture caricaturali dei farisei e anche apertamente antisemite che purtroppo non sono mancate nella spiritualità cristiana anche nella lettura di questa parabola.
Introducendo la parabola Luca condanna la combinazione tra convinzione di essere nel giusto e disprezzo degli altri. Questa coscienza di sé non ha nulla a che vedere con una giusta autostima, ma sposandosi con il disprezzo degli altri, si svela essere un’arroganza ostentata da parte di persone che forse così sicure di sé non sono proprio, tanto che non possono albergare in sé alcun dubbio. E la presenza di altri serve a corroborare la loro coscienza di superiorità. Il verbo usato da Luca e tradotto con “disprezzare” significa letteralmente “ritenere niente” (exoutheneîn) ed è l’atteggiamento che terrà Erode nei confronti di Gesù (Lc 23,11). La sicurezza nel condannare altri è necessaria per sostenere la sicurezza del proprio essere migliori e nel giusto. Un bel testo di Giovanni Crisostomo ci aiuta a comprendere l’inganno insito in una sicurezza e certezza di sé che si accompagnano al disprezzo degli altri. E ci ricorda la funzione non solo positiva, ma addirittura potenzialmente salvifica, dell’attraversamento del peccato. Scrive il Crisostomo nel trattato Sull’incomprensibilità di Dio: “‘Nell’angoscia ho gridato al Signore ed egli mi ha ascoltato’. Per cacciare la pigrizia e la negligenza niente è più adatto della sofferenza e dell’angoscia che radunano lo spirito e lo fanno rientrare in se stesso … Molti però dicono: ‘Sono insicuro, sono esitante, non ho certezze, sono confuso, sono smarrito, non riesco ad aprir la bocca e a pregare’ … Sei incerto? Sei insicuro? Sappi che è grande sicurezza e grande vantaggio, in se stessi, credere di non avere motivi di sicurezza. È salvifica questa insicurezza di sé! Al contrario è motivo di vergogna e di condanna il credere di poter avere fiducia in sé ed essere sicuri di sé. Infatti, anche se la tua coscienza è carica del peso di molti peccati, se solo e appena ti sei convinto di essere l’ultimo degli uomini, tu potrai rivolgerti a Dio con piena fiducia”.
La parabola si apre presentando due uomini che si recano al Tempio per pregare (v. 10). Identico è il loro movimento, identico il loro fine, identico il luogo in cui si recano, eppure quanta distanza tra di loro! Essi sono vicini e lontani al tempo stesso e questa loro compresenza nel luogo della preghiera ci pone la questione di cosa significhi pregare insieme, fianco a fianco, l’uno
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accanto all’altro in uno stesso luogo, in una liturgia. È possibile pregare accanto ed essere separati dal confronto, dal paragone e dal disprezzo (“non sono come questo pubblicano”: v. 11). Le differenze tra di loro, uno è fariseo, l’altro pubblicano, trovano espressione nella gestualità e nelle posture dei loro corpi e nel loro situarsi nello spazio del Tempio. Il pubblicano resta sul fondo, “si ferma a distanza” (cf. v. 13), non osa avanzare, è abitato dal timore di chi non è abituato al luogo liturgico, china il capo a terra e si batte il petto pronunciando pochissime parole. Il fariseo, invece, esprime la sua sicurezza, il suo essere un habitué del luogo sacro e prega stando in piedi, a fronte alta, pronunciando molte e ricercate parole nel suo articolato ringraziamento. Sempre noi preghiamo con il corpo, e le posture del corpo rivelano la qualità della relazione con il Signore e il senso del nostro stare alla sua presenza, del nostro “credere” la sua presenza.
Nella preghiera emerge anche quale sia la nostra immagine di Dio e la nostra immagine di noi stessi. Il fariseo prega “tra sé”, cioè “rivolto a se stesso” (pròs heautòn: Lc 18,11) e la sua preghiera sembra dominata dal suo ego. Egli formalmente compie un ringraziamento, ma in verità ringrazia non per ciò che Dio ha fatto per lui, bensì per ciò che lui fa per Dio. Il senso del ringraziamento viene così completamente sconvolto: il suo “io” si sostituisce a “Dio”. La sua preghiera è in realtà un elenco delle sue prestazioni pie e un compiacimento del suo non essere “come gli altri uomini” (v. 11). L’immagine alta di sé offusca quella di Dio e gli impedisce di vedere come un fratello colui che prega accanto a lui. La sua è la preghiera di chi si sente a posto con Dio: Dio non può che confermarlo in ciò che è e fa. È un Dio che non gli chiede alcun cambiamento e conversione perché tutto ciò che egli fa, va bene. Il fatto che il narratore onnisciente ci riveli che lo sguardo di Dio non gradisce la sua preghiera (Lc 18,14: “il pubblicano tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro”) smentisce la sua presunzione, ma afferma anche che noi possiamo pregare con ipocrisia e continuare a pregare senza pervenire ad autenticità e verità. Svelando al lettore la preghiera sommessa, nascosta, dei due personaggi della parabola, Luca compie un’incursione nella loro interiorità, nell’animo di chi prega. L’operazione dell’evangelista ci svela che vi è un sottofondo della preghiera che può fare tutt’uno con essa oppure confliggere con essa. Abbiamo, in questi testi, come uno squarcio di luce sul cuore, sul profondo di chi è in preghiera, sui pensieri che lo abitano mentre è in preghiera. Si tratta di un’operazione audace – “impudica?” – ma importante perché dietro alle parole che si pronunciano nella liturgia (ma anche nella preghiera personale) spesso vi sono immagini, pensieri, sentimenti che possono essere anche in clamorosa contraddizione con le parole che pronunciamo e con il significato dei gesti che compiamo.
E qui siamo posti di fronte al rapporto tra preghiera e autenticità. La preghiera del fariseo è certamente sincera. Che non vuol dire che sia veritiera. Veritiera è quella del pubblicano, quella del fariseo è sincera in quanto esprime ciò che quest’uomo crede e sente. E proprio in questo consiste la sua patologia radicale. Che cioè egli crede veramente a ciò che dice: ciò che lo muove nella sua preghiera è la convinzione che l’insieme di pratiche e performances che compie bastino a giustificarlo. Dio vuole quello e lui lo sta facendo. La sua convinzione è perciò granitica e incrollabile. La sua sincerità è coerente con l’immagine di Dio che lo muove. E lì si situa la criticità. In lui prevale un’immagine di Dio che si accompagna, senza che questo gli faccia alcun problema, al giudizio del peccato dell’altro e al disprezzo per l’altro. La sua immagine di Dio è quella di un essere che chiede adesione e convinzione, ma non riflessione, non partecipazione critica, non discernimento. E purtroppo la convinzione si pone spesso a servizio di cause non particolarmente nobili. La parabola vuole suggerire al lettore cristiano che l’autenticità della preghiera passa attraverso la qualità buona delle relazioni con gli altri che pregano con me e che con me formano il corpo di Cristo. E nello spazio cristiano, in cui Gesù Cristo è “l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15), la preghiera, che sempre fa ricorso a immagini di Dio (e non può essere diversamente), altro non è che un processo di continua purificazione delle immagini di Dio a partire dall’immagine rivelata di Dio in Cristo, anzi nel Cristo crocifisso (cf. 1Cor 2,2), immagine che contesta tutte le immagini manufatte di Dio. Possiamo dire che l’atteggiamento del fariseo è emblematico di un tipo religioso che sostituisce la relazione con il Signore con prestazioni quantificabili: egli digiuna due volte alla settimana e paga la decima di tutto quanto acquista, compiendo anche opere supererogatorie. Alla relazione con il Signore sotto il segno dello Spirito e della gratuità dell’amore, si sostituisce una forma di ricerca di santificazione mediante il controllo (la contabilità delle azioni meritorie) e che richiede il distacco dagli altri.
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La preghiera invece, suggerisce Luca, richiede umiltà. E umiltà è adesione alla realtà, alla povertà e piccolezza della condizione umana, all’humus di cui siamo fatti. Umiltà non è falsa modestia, non equivale a un io minimo, ma è autenticità, verità personale. Essa è coraggiosa conoscenza di sé di fronte al Dio che ha manifestato se stesso nell’umiltà e nell’abbassamento del Figlio. Dove c’è umiltà, c’è apertura alla grazia e c’è carità; dove c’è orgoglio, c’è senso di superiorità e disprezzo degli altri.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose