Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 23 Maggio 2021

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Una sparizione che non abbandona

L’unicità e l’unità dell’evento pasquale, del mistero della morte e resurrezione di Cristo sono offerte pedagogicamente dalla liturgia alla nostra contemplazione e meditazione attraverso feste e celebrazioni differenziate. Così l’Ascensione sottolinea il momento del distacco di Gesù dai suoi, il suo staccarsi da loro con la tristezza dunque e il dolore che questo comporta per i discepoli, ma anche con la dimensione salvifica di questo andarsene. La storia di salvezza prosegue grazie all’andarsene di Gesù: “È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado io lo manderò a voi” (Gv 16,7). La Pentecoste invece sottolinea il momento della comunione rinnovata, ritrovata, ma comunione altra, grazie al dono dello Spirito. Lo Spirito, che era rimasto su Gesù e in Gesù nella sua vita, nel suo cammino storico, ora abita il credente che si trova a essere responsabile della presenza del Signore tra gli uomini.

La Presenza di Gesù si compie nell’invisibilità dello Spirito. La Parola di Gesù si compie nel silenzio dello Spirito. Questo significano le due promesse del Paraclito presenti nella pagina del IV vangelo: “è bene per voi che io me ne vada perché se non me ne vado non verrà a voi il Paraclito” (Gv 16,7); e ancora: “Molte altre cose ho da dirvi, ma per il momento non siete in grado di portarne il peso; ma quando verrà lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà alla verità intera” (Gv 16,12-13). Colui che è stato alla scuola di Giovanni il Battista mostra di averne appreso la lezione. Come Giovanni ha saputo con serenità affermare: “Bisogna che io diminuisca e che lui cresca” (Gv 3,30), così ora Gesù dice ai discepoli: “è bene per voi che io me ne vada”. Nessun protagonismo in queste parole, nessuna recriminazione o cinismo o ripicca, e neppure la stanchezza e la rabbia che potevano trasparire dalle parole di Gesù stesso che, secondo i sinottici, aveva gridato: “Generazione incredula, fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?” (Mc 9,41). No, solo l’amore, solo la considerazione di ciò che è bene per gli altri: “è bene per voi”. Non dice: “è bene per me”. Quel “è bene per voi” pronunciato da Gesù mostra la libertà profonda di chi non ritiene sua nemmeno la propria vita e può condensare in poche battute l’esito di una vita e il senso di una morte: “Non io, ma lo Spirito, per voi, in obbedienza al Padre”. Il compiersi della salvezza implica la sparizione del Salvatore (“non mi vedrete più”: Gv 16,10); il dispiegarsi della potenza della sua parola implica il suo entrare nel silenzio. E silenzio e invisibilità del Signore sono il luogo del compiersi in noi, nel nostro cuore, nel nostro corpo, grazie alla fede, della vita trinitaria. Ecco il compiersi della parabola dell’inviato del Padre, del Maestro e guida dei discepoli: la sparizione, l’allontanarsi, l’andarsene è ciò che dà compimento alla sua vita e vi infonde il marchio salvifico. Altrimenti Gesù stesso non avrebbe fatto il bene dei discepoli, che devono invece, attraverso il dono dello Spirito assumere la piena responsabilità della loro fede e del loro impegno storico. L’allontanarsi di Gesù, il suo andarsene definitivo è il segno della generatività di Gesù stesso: egli continua a dare vita ai suoi. Non è preoccupato di se stesso, di “salvare se stesso”, ma di fare il bene ai suoi.

Il compimento pasquale che noi contempliamo nella Pentecoste, dunque il compimento della salvezza di Dio per gli uomini, diviene per Gesù, il compiersi del suo amore e della sua libertà in questo atto di sparizione che non abbandona. Questo ci è narrato dal compimento pasquale della vicenda umana e divina di Gesù: l’inevitabile andarsene non è un abbandono. “Non vi lascerò orfani” (Gv 14,18), dice Gesù realizzando la promessa del Dio d’Israele riportata da Isaia: “Io non li abbandonerò” (Is 41,17). Ecco, la manifestazione ultima della nostra salvezza, umana e spirituale: salvati dal terrore primordiale e perenne dell’abbandono. L’assenza di Gesù è la sua presenza non visibile e silenziosa. Lo Spirito rende abitata questa invisibilità e eloquente questo silenzio.

L’insostenibile tristezza dell’andarsene di chi si ama (“poiché vi ho detto che me ne vado la tristezza ha riempito il vostro cuore”: Gv 16,6)) e il peso insostenibile delle parole che dicono la necessità del suo andarsene (“per ora non siete in grado di portarne il peso”: Gv 16,12) diventano sopportabili, sostenibili grazie allo Spirito che abita la nostra solitudine e parla nel silenzio. Qui la dimensione teologica profonda del nostro testo diviene spirituale. L’invisibilità e il silenzio del Signore sono la nostra condizione di credenti. E sono il luogo dello Spirito. Luogo che non è dunque l’eclatante o l’apparizionistico o il prodigioso e il gridato, ma appunto, la solitudine e il silenzio. Siamo rinviati alla voce del silenzio sottile che parlò ad Elia nella sua solitudine al monte Horeb e quando quella voce silenziosa vinse la sua convinzione di essere abbandonato e la sua tentazione di morte: “Dopo il fuoco, ci fu la voce di un silenzio sottile” (1Re 19,12; secondo il testo ebraico). Lo straordinario della nostra salvezza si compie nel nascondimento silenzioso e invisibile dell’ascolto di una presenza interiore e nell’amore per colui che non vediamo.

E lo Spirito viene presentato anche come ermeneuta del silenzio di Gesù, del suo non detto, come appare da ciò che Gesù afferma: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma ora non potete portarne il peso. Ma quando verrà lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità” (Gv 16,13). Lo Spirito condurrà i cristiani e le chiese nella storia verso tutta la verità, che certamente ha pienezza escatologica ed è sempre a-venire, ma anche, come è possibile tradurre l’espressione greca, in tutta la verità: en tê aletheía páse. Cioè, vi farà percorrere i passi Gesù nel vostro oggi, vi guiderà a seguire nel vostro hic et nunc le tracce di Gesù, di Gesù che è la verità (cf. Gv 14,6), vi farà parlare e agire come lui, cioè in modo evangelico, di fronte alle situazioni che vi troverete a vivere (e che lui non ha mai vissuto, perché in Gesù non vi è solo un non-detto, ma anche un non-agito, un non-vissuto), vi farà camminare come lui ha camminato. Vi farà pronunciare parole ispirate al suo vivere, vi farà compiere azioni e gesti compatibili con il suo sentire e pensare, vi farà vivere come lui ha vissuto. Vi farà avere “il sentire che fu in Cristo Gesù” (Fil 2,5), come dice Paolo; vi farà avere “i modi del Signore”, come dice la Didaché (11,8). Ora, se Gesù dice ai discepoli che essi non hanno la capacità e la forza di portare il peso di tante parole che Gesù potrebbe ancora dire, in realtà se guardiamo e ascoltiamo le parole pronunciate dai cristiani e dalle chiese nella storia dopo la Pentecoste, noi sentiamo tante parole che mai e poi mai Gesù ha portato e pronunciato. Se un antico testo cristiano come l’A Diogneto ha potuto pronunciare una parola che traduce meravigliosamente lo spirito dell’evangelo e che è certamente sgorgata dall’azione dello Spirito della verità, ovvero l’espressione che “A Dio non si addice la violenza” (A Diogneto VIII,5), non possiamo certo dire che i cristiani e le chiese abbiamo seguito sempre questa via, e camminato per questo sentiero, in questa verità che è la narrazione di Dio operata da Gesù e attestata dai vangeli. Come del resto non lo facciamo neppure noi con le nostre violenze piccole, mediocri, quotidiane, domestiche, famigliari e comunitarie. Con l’organizzazione della violenza, che si nutre di menzogna e di storpiamento della verità. La verità che è sempre, basilarmente, elementarmente, adesione delle parole che si dicono ai fatti avvenuti. Ecco allora che lo Spirito della verità è per noi, per i cristiani, per le chiese, anche Spirito di giudizio che spinge a pentimento noi che spesso siamo causa di sofferenza per altri. Lo Spirito della verità è dunque anche Spirito di giudizio, di supplica e di conversione. Come sta scritto: “In quel giorno io riverserò su di loro uno spirito di grazia e di supplica: guarderanno a me che hanno trafitto” (Zc 12,10). E guardando il Crocifisso vediamo la verità che genera in noi compassione e pentimento.

Ermeneuta del silenzio di Cristo, lo Spirito si manifesta anche come Spirito di infinita compassione per tutte le creature e le vite, per chi soffre e patisce ingiustizia, per chi è oppresso e muore. Lo Spirito, e dunque l’autentica azione spirituale, assume il tragico della vita e i drammi di tante esistenze. Lo Spirito di Dio è anche la compassione di Dio per “ogni carne”, per la creazione e le creature che gemono sotto il peso della morte, della sofferenza, del dolore, dell’ingiustizia, del non-senso. Il soffio che il Signore effonde su ogni carne raggiunge anche chi rifiuta il soffio vitale, anche chi si toglie la vita, chi si perde nei meandri del non-senso, chi vaga nei sentieri della disperazione. E il soffio del Signore donato a Pentecoste crea la speranza autentica, quella cioè che tocca e attraversa la disperazione degli umani e ne assume la sfida e ne porta il peso. E infine, il soffio del Signore che chiede ai nostri cuori di divenire cuori di carne, vuole dilatare la nostra compassione a tutte le creature, anche agli animali, agli alberi, ai fiori e all’erba, alla creazione tutta segnata da caducità e sofferenza. La venuta dello Spirito diviene cammino dell’uomo e tale cammino è segnato da una compassione senza confini.

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose