Oggi la Parola
Il brano evangelico odierno è costituito di due parti, di cui la prima è il prologo del terzo vangelo (Lc 1,1-4). Questo prologo sottolinea il fatto che l’opera che Luca si accinge a scrivere è un racconto (diéghesis: Lc 1,1). È bene ricordare che il vangelo è un racconto, una narrazione. Non un trattato teologico, ma una storia. Il proprio del racconto è di prenderci per mano e di introdurci al suo interno rendendoci in certo modo contemporanei dei fatti raccontati. Il modo biblico di esprimere la fede è la narrazione e se l’evangelista è un narratore, egli non fa che proseguire ciò che ha fatto Gesù, anch’egli grande narratore che ha “detto” Dio raccontando parabole, forgiando immagini capaci di parlare a tutto l’uomo: corpo, anima e spirito. Il genere letterario “vangelo” è dunque uno scritto che postula un rapporto particolare con il lettore chiedendone il coinvolgimento, sollecitandone la decisione di fede, conducendolo a conformare il proprio cammino esistenziale a quello di Gesù. Leggere il vangelo è immettersi all’interno di una storia, la storia di Gesù, per proseguirne la narrazione con la propria vita.
Ora, noi siamo abituati a leggere il vangelo. Ma il testo odierno ci parla di un uomo che ha deciso di scriverlo. O, meglio, di scrivere ciò che solo più tardi (nel II secolo) sarà chiamato “vangelo”. Noi, per impregnarci maggiormente della parola evangelica che con la sua potenza arriva a muovere il nostro braccio e a guidare la nostra mano, possiamo tutt’al più ri-scriverlo, copiarlo, ma qui siamo di fronte a un uomo che ha deciso di scrivere un vangelo ex novo. Come procede? Anzitutto, impegna se stesso (“anch’io ho deciso”: Lc 1,3), ma resta nell’anonimato, lascia che emerga la storia narrata mentre lui sparisce dietro la propria opera. Quindi riconosce di non essere né l’unico né il primo che si è deciso a tale impresa e si accoda a quanti lo hanno preceduto nell’opera di scrivere un racconto degli eventi “che si sono compiuti in mezzo a noi” (Lc 1,1). Dichiara poi di aver condotto il suo lavoro con rigore informandosi accuratamente dei fatti, consultando le fonti disponibili, insomma mettendosi a servizio della verità con una vera e propria fatica ascetica (Lc 1,3).
Infine, esprime la finalità del suo lavoro: è un lavoro non fine a se stesso o a dar gloria all’autore, ma relazionale, che ha un destinatario, quel Teofilo dietro cui si intravede ogni cristiano “amante di Dio” (Lc 1,3), e che ha il fine di conferire saldezza all’annuncio già ricevuto (Lc 1,4). La parola scritta manifesta così la sua duplice ancillarità: nei confronti degli eventi storici e nei confronti dell’annuncio che di essi viene fatto dagli evangelizzatori. I vangeli scritti sono a servizio della parola orale uscita dalla bocca di Gesù di cui sono divenuti testimonianza, e sono a servizio dell’annuncio orale fatto dagli evangelizzatori di cui costituiscono l’imprescindibile fondamento. L’evangelista è dunque “ministro della Parola” ponendosi a servizio della parola tanto nella sua forma scritta quanto orale.
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E in definitiva il suo servizio è a Gesù stesso, colui dalla cui bocca uscivano “parole di grazia” (Lc 4,22), colui che è la parola di Dio fatta persona. Il vangelo come “libro” conferisce solidità all’annuncio cristiano anzitutto con la stessa forma scritta che strappa la parola alla sua volatilità donandole visibilità, consistenza e durata, quindi interpellando il lettore di ogni epoca e chiedendogli di colmare il silenzio di cui la scrittura è portatrice e di riempirlo con la sua parola, con il suo annuncio, con la sua testimonianza. Perché avvenga il passaggio, attraverso la parola scritta del vangelo, da “ciò che Gesù fece e insegnò” (At 1,1) a ciò che fanno e dicono i suoi discepoli, i cristiani. Affinché ogni cristiano possa scrivere il vangelo con la propria vita.
La seconda parte della pericope evangelica (Lc 4,14-21) presenta Gesù che, nella sinagoga di Nazaret, durante la liturgia del sabato, legge e commenta un testo di Isaia. Gesù appare nella sua perenne ebraicità: il riferimento al luogo dove era stato allevato (v. 16) rinvia all’ambito famigliare della sua prima educazione e formazione; l’annotazione “secondo il suo solito” (v. 16), che caratterizza il suo entrare nella sinagoga in giorno di sabato, rinvia al mondo religioso, soprattutto alla liturgia, che ha nutrito la sua crescita spirituale e la sua relazione con Dio. Dunque, Gesù, che ormai ha iniziato la sua vita di insegnamento e di itineranza, torna a Nazaret, a casa sua, “nella sua patria” (Mc 6,1). Gesù torna dove è stato allevato, nutrito, dove è cresciuto. E nell’ambiente noto, famigliare, domestico, rifà gesti noti, soliti, abituali, che la memoria ha ormai impresso nel suo corpo, nella sua gestualità.
Gesù entra di sabato in Sinagoga e legge la Scrittura. Non si parla di incontri con amici, parenti e famigliari, di visite ai luoghi dell’infanzia, ma del rapporto con la Scrittura letta nella liturgia dello shabbat. Ed è nel rapporto con quel libro che Gesù mostra intensa familiarità: riceve il libro, lo apre, cerca e trova il passo di Isaia, lo proclama, lo richiude, lo consegna all’inserviente e lo commenta con semplicità e autorevolezza. Tale è la familiarità con le Scritture che leggendo Isaia, Gesù parla di sé: “Lo Spirito del Signore è su di me, mi ha mandato a portare l’evangelo ai poveri” (Lc 4,18). “Di me sta scritto nel rotolo del libro” dice Gesù secondo la lettera agli Ebrei (Eb 10,7). In realtà, tra i suoi, a casa sua, tra conoscenti e parenti Gesù troverà diffidenza e sospetto (cf. Mc 6,1-6), e lui stesso riconoscerà e sigillerà un altro criterio di familiarità e appartenenza: chi ascolta la parola di Dio questi è suo fratello, sorella, madre. La parola di Dio ascoltata e obbedita è criterio di autentica familiarità: “Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21). Il nostro testo ci suggerisce che la vera casa di Gesù è la Scrittura. Le stanze abitate “fin dall’infanzia” (2Tm 3,15) sono le pagine della Scrittura. La parola del Signore contenuta nella Scrittura lo ha nutrito, allevato e fatto crescere (cf. Sap 16,26: “Non le diverse specie di frutti nutrono l’uomo, ma la tua parola tiene in vita coloro che credono in te”).
Gesù abita la Scrittura, dimora nelle pagine della Scrittura, tanto che potrà dire, stando al IV vangelo, che la sua vita è un dimorare nella parola di Dio, un rimanere nella sua parola. Il libro come patria, la Scrittura come dimora. Tanto che il rapporto tra libro e vita è espresso da una parola sola: “compimento”. Il tempo passato e antico di cui parla il libro scritturistico diviene per Gesù l’oggi dei suoi giorni, del suo vivere, di lui che in quel momento aveva circa trent’anni, ha ricordato Luca poco prima (cf. Lc 3,23). I destinatari antichi, i poveri e i ciechi, i prigionieri e gli oppressi di cui parlava Isaia sono in realtà i destinatari a cui Gesù ora, in quell’oggi, sta parlando: appunto, sta leggendo, o sta parlando Gesù? Mentre legge, parla, la parola scritta diventa la sua parola, parola che intesse relazioni secondo modalità che il libro ha ispirato. E Gesù può far appello agli orecchi degli ascoltatori: “Oggi si è compiuta questa Scrittura nei vostri orecchi” (Lc 4,21). Attraverso l’arte di leggere, parlare, ascoltare avviene il miracolo di ridare vita alla parola del libro, di rendere realtà la pagina, di creare relazioni a partire non da sé e dal proprio volere, ma dalla parola e dal volere di colui che ultimamente parla nel libro della Scrittura. A casa sua, tra i suoi, Gesù sarà uno straniero, un estraneo (cf. Mc 3,21). Ma la pagina della Scrittura è la sua dimora e la parola di Dio è la sua casa. Possiamo arrivare a scrivere il vangelo con la vita se riusciamo a vivere il vangelo come dimora, se la lettura del vangelo diventa l’ingresso in casa propria.
La consuetudine della partecipazione liturgica di Gesù è anche la ripetitività dei gesti liturgici che Gesù compie e che sono puntualmente elencati nel testo. Ripetitivi sono anche il giorno (il sabato), il luogo (la sinagoga), il libro (il rotolo della Scrittura). Solo lo Spirito santo vivifica ciò che rischierebbe di divenire stanca abitudine: esso rende il ripetere un fare memoria e un rendere attuale. In particolare, solo lo Spirito vivifica la parola della Scrittura (che rischia di essere parola morta), risuscitandola a parola vivente oggi per una precisa comunità. Proclamare la Scrittura significa dare il proprio corpo alla Parola: mano, occhi, bocca, voce del lettore sono impegnati nell’atto di annunciare oggi ad altri le antiche parole della Scrittura. Così, la Parola di Dio divenuta scrittura nel passato, oggi nella proclamazione liturgica e nell’omelia ridiventa parola vivente.
Gesù commenta la parola della Scrittura compiendola. E compierla significa darle attuazione con tutto il proprio essere. La pagina di Isaia diviene così il programma del ministero e della missione di Gesù. E cuore del messaggio e dell’annuncio di Gesù è la misericordia di Dio. L’anno che egli inaugura è l’anno giubilare: Gesù narra Dio perdonando, liberando, guarendo, annunciando il Vangelo. Lui stesso è il perdono, la liberazione, la guarigione, il Vangelo, e questo è ciò che in ogni oggi liturgico deve risuonare nelle omelie agli orecchi degli uditori. Questo è l’annuncio di cui sempre tutti abbiamo bisogno.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose