Lo Spirito promesso
Nell’itinerario che nel tempo pasquale conduce alla celebrazione della Pentecoste, dunque del dono dello Spirito, la VI domenica di Pasqua ha al suo centro la promessa dello Spirito santo. Dire “promessa dello Spirito santo” è quasi una tautologia perché nome dello Spirito è, secondo Lc 24,49, “la promessa del Padre mio”. Anche Ef 1,13 associa promessa e Spirito santo parlando dello “Spirito santo della promessa”, cioè dello Spirito santo che è stato promesso. Il parlare di Dio, in estrema sintesi, è parola di promessa, e la promessa è promessa dello Spirito. Come la parola cerca comunione e tende all’alleanza, così lo Spirito. Nell’esperienza di fede lo Spirito è e resta promessa, realtà posta davanti a noi (pro-mittere), mai posseduta, ma sempre attesa, invocata, ricercata, desiderata. Realtà che ci può guidare, animare, ispirare, ma che mai e poi mai può coincidere con noi o essere da noi esaurita. Realtà che può essere sperimentata, che può perfino rendersi visibile nella persona umana grazie ai frutti che essa suscita, frutti di gioia, di carità, di giustizia, di pace, ma che non sarà mai posseduta una volta per sempre.
L’inizio del testo liturgico del vangelo è costituito dalla risposta di Gesù a Giuda (“non l’Iscariota”: Gv 14,22) che gli aveva chiesto perché mai si sarebbe manifestato solo ai suoi, ai discepoli, e non al mondo. Questo discepolo è sulla stessa lunghezza d’onda dei fratelli di Gesù che lo spingevano a uscire dal nascondimento, a manifestare pubblicamente i suoi segni e prodigi, a svelarsi a tutti con i convincenti mezzi del prodigioso, dello straordinario (“Nessuno agisce di nascosto, se vuole essere riconosciuto pubblicamente. Se fai queste cose, manifestati al mondo!”: Gv 7,4). Questa lunghezza d’onda attraversa i tempi e le epoche e sempre si ripresenta nella chiesa come tentazione di cercare un consenso facile, di evitare piccolezza e umiltà per inseguire i grandi numeri, per avere pubblicità e audience, e dunque riconoscimento e consenso, in una parola, potere. Di fronte a ciò, ecco l’esigenza di verità espressa da Gesù. Senza una relazione personale autentica con il Signore, senza una vita spirituale nascosta, ma reale, tutto il resto rischia di essere scena, politica ecclesiale, mondanità, apparenza di vita più che autentica vita. Senza l’azione interiore e nascosta dello Spirito nel credente, la chiesa rischia di essere raduno di militanti, più che comunione di discepoli. Ecco dunque che Gesù ribadisce quelle verità elementari e irrinunciabili che fanno di un uomo un credente: l’amore per il Signore, l’ascolto della sua Parola (cf. v. 23), la vita interiore animata dallo Spirito (cf. v. 26).
A colui dunque che chiede segni, che persegue un’esposizione pubblica che diviene imposizione di sé al pubblico, e che comporta la sostituzione dell’istanza ultima di Dio con quella dell’opinione pubblica, del consenso e dell’appoggio di tanti, Gesù risponde ricordando la priorità assoluta del cammino nella fede. Infatti, la venuta dello Spirito e del Signore Gesù, sono conosciute solo nella fede. Anzi, la sua risposta tratteggia prima il ritratto di colui che crede (v. 23), quindi di colui che non crede (v. 24). Ovvero, Gesù sta discretamente svelando che, dietro alla richiesta di Giuda, si annida una tendenza che inclina verso l’allontanamento dalla fede, lo smarrimento della fede. La fede infatti opera un decentramento del credente a favore del suo Signore: il credente ascolta, osserva e obbedisce alla parola del Signore, converte le sue parole alla parola del Signore; il credente apre in sé uno spazio alla presenza del Signore facendolo inabitare in lui, e sulle istanze del proprio “io” cerca di far regnare la volontà del Signore. Solo così il Signore è veramente confessato quale Signore. Ma questo è ciò che nel credente opera lo Spirito santo.
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Al cuore della pericope evangelica odierna sta infatti l’annuncio della venuta dello Spirito santo (vv. 25-26), il Paraclito, colui che si farà presente nel credente nel tempo dell’assenza fisica del Signore Gesù. E qual è l’azione dello Spirito? È un’azione tutta interiore: insegnare e ricordare. La funzione dello Spirito qui enunciata – insegnare e ricordare – ha lo scopo di guidare i credenti all’intelligenza di Cristo, all’intelligenza spirituale. Lo Spirito appare come maestro interiore, guida capace di illuminare e orientare il credente nel mondo (cf. v. 26). Il che significa che ogni maestro o guida spirituale umana non deve far altro ormai che porsi a servizio del maestro interiore, dello Spirito che abita nel battezzato. Pertanto, l’opera di educazione e di approfondimento della fede deve soltanto suscitare e stimolare l’interiorità del credente, il quale ha già in sé le risorse basilari per il suo cammino di fede.
Anzi, ha in sé l’autore e motore della vita spirituale. Altrimenti si fa opera non di e-ducazione, ma di se-duzione; non si attua una liberazione, ma si instaura una dipendenza. Il messaggio è ribadito nella prima lettera di Giovanni: “Voi avete ricevuto l’unzione dal Santo e tutti avete la conoscenza … L’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi istruisca. Ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera e non mente, così voi rimanete in lui come essa vi ha istruito” (1Gv 2,20.27). Dice, a questo proposito Agostino: “Non dobbiamo considerare nessuno come nostro maestro sulla terra, poiché l’unico maestro di tutti è in cielo. Che cosa significhi poi ‘in cielo’ ce lo insegnerà quegli dal quale per mezzo degli uomini, con segni dall’esterno, siamo avvertiti a farci ammaestrare rientrando verso di lui nell’interiorità”.
Insegnare e ricordare si riferiscono a ciò che Gesù ha detto e fatto, quindi all’intera vita di Gesù. Non si tratta di memorizzare pagine o parti o parole o frasi della Scrittura per imparare da esse il discernimento e l’agire secondo l’esempio di Gesù. Questo è un aspetto basilare e imprescindibile, ma incipiente, perennemente necessario e da rinnovarsi, ma pedagogico e non può bastare: la vita interiore e il farsi dimora richiesti dall’azione dello Spirito sono molto più profondi. Si tratta infatti di accogliere in sé la presenza del Signore fino a divenirne dimora: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (v. 23).
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Il credente unifica in sé amore e obbedienza. Lo Spirito, come maestro di vita interiore, guida all’ascolto della parola del Signore, quella parola di cui Gesù stesso dice: “non è mia, ma del Padre che mi ha mandato” (v. 24). Il decentramento richiesto al credente è il decentramento vissuto da Gesù stesso che l’ha portato a essere trasparenza del Padre: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). Tale decentramento ha come scopo e frutto l’inabitazione del Signore nel credente e come strumenti l’ascolto e la memoria. L’ascolto: noi siamo ciò che ascoltiamo. Per questo è fondamentale fare spazio in noi alla parola del Signore, anzi, alla sua stessa voce, al suo stesso respiro, al soffio che lo animava e che accompagnava ogni sua parola. In realtà, interiorizzare ciò che Gesù ha detto è interiorizzare Gesù che è la parola stessa. Lo Spirito insegna a vivere ponendosi nei confronti del credente come memoria del Christus totus.
E appunto, la memoria: noi siamo ciò che ricordiamo. La nostra storia è la storia dei nostri ricordi, è costruita con la memoria. Per questo è decisivo porre al cuore della vita spirituale la memoria del Signore: per innestare la nostra storia nella storia del Signore stesso. Il ricordo delle parole del Signore, così come delle parole della Scrittura, aiuta il credente a leggere i fatti della storia e della vita illuminandoli con la luce che viene dal Signore. Così, ascolto e memoria si pongono a servizio di un rinnovamento radicale dello sguardo per consentire l’intelligenza e il discernimento di fede sulla realtà. Un esempio di questa intelligenza pneumatica e di fede della realtà lo troviamo in Gv 12,16, là dove l’evangelista, dopo aver annotato che Gesù, attorniato da una folla che lo osannava agitando rami di palme, era salito su un asino “come sta scritto: ‘Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene, seduto su un puledro d’asina’” (Gv 1214-15), aggiunge: “I suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano scritte queste cose e che a lui le avevano fatte”.
Preparandosi a prendere congedo dai suoi, Gesù – dopo aver lasciato ai discepoli il comando di amarsi reciprocamente e dopo aver promesso loro il dono dello Spirito – dona loro la pace: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (v. 27). Non si tratta di un augurio, ma di un dono, dello stabilirsi nei discepoli del grande segno della benedizione del Signore. E la pace che prende dimora nel cuore del credente ne scaccia la paura e il turbamento. Essa infatti si accompagna alla promessa del suo ritorno: “Vado e tornerò da voi” (v. 28) e dovrebbe sbocciare in gioia.
E la gioia potrà esplodere, una volta avvenuta la glorificazione, perché i discepoli potranno ricordare nello Spirito le parole che Gesù ora dice loro e potranno nella fede cogliere che la sua dipartita non è la fine di una storia, ma il rilancio della promessa, non è l’imporsi di un’assenza, ma il rinnovarsi di una presenza.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose