Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 22 Agosto 2021

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All’altezza della libertà

L’odierna pagina evangelica presenta la reazione di “molti discepoli” (cf. Gv 6,60) al discorso che Gesù ha appena concluso nella sinagoga di Cafarnao. Si tratta del discorso in cui Gesù si è rivelato pane di vita disceso dal cielo che deve essere mangiato perché i credenti abbiano in se stessi la vita. Questa rivelazione provoca una reazione di paura e di sgomento che induce molti che seguivano Gesù a non andare più con lui (Gv 6,66). Al cuore di questa pericope vi è il tema della fede, espresso con il verbo “credere” (vv. 64.69), ma evocato anche con i verbi “ascoltare” (v. 60), “vedere” (v. 62), “venire a me” (v. 65), “conoscere” (v. 69). I discepoli reagiscono all’intero discorso di Gesù giudicandolo “duro”, ovvero, non semplicemente ostico e difficile da comprendere, ma inaccettabile, irricevibile. Viene denunciata l’assurdità delle affermazioni di Gesù. Un simile messaggio è inascoltabile: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60).

Questa reazione non va giudicata, stigmatizzata e così rimossa, ma va accolta e ascoltata dal credente che legge oggi il vangelo, perché rivela una dimensione di scandalo costitutiva della fede cristiana e ineliminabile dal messaggio evangelico. Tale dimensione è inaggirabile. Vi è una “incredibilità” dell’annuncio cristiano (“Chi crederà al nostro annuncio?”: Is 53,1). Vi è un “impossibile” della fede cristiana (“chi può ascoltarla?”: Gv 6,60). Gesù lo dice chiaramente altrove: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio” (Mc 10,27). Nel passo giovanneo questa impossibilità è espressa con il riferimento alla carne: “La carne non giova a nulla” (Gv 6,63). Vi è una impossibilità della “carne” a generare salvezza e pienezza di vita: la condizione precaria e fragile dell’uomo non è un ostacolo alla salvezza, ma solo se si apre al dono di Dio. Diventa invece ostacolo se si assolutizza, si chiude in sé e si fonda sulla propria forza. Il che equivale a chiudersi nell’illusione, nella menzogna, nell’autoinganno. L’apertura al dono di Dio è disposizione ad accogliere il dono dall’alto, lo Spirito santo vivificante (cf. Gv 3,3-13). Ma se solo lo Spirito dà la vita, per accogliere l’azione trasformante dello Spirito occorre quella rinascita dall’alto che già aveva scandalizzato Nicodemo: “Come può accadere questo?” (Gv 3,9).

La reazione dei discepoli alle parole di Gesù si esprime come mormorazione (Gv 6,61). E così essi si trovano nella stessa posizione spirituale dei “Giudei” che avevano contestato Gesù mormorando contro di lui (Gv 6,41.43). Ora, poiché il termine “Giudei” in Giovanni designa solitamente chi si oppone a Gesù, i suoi avversari, il testo qui indica che anche i discepoli possono divenire avversari di Gesù, opporsi, coscientemente o meno, alla sua missione, e uscire dallo spazio dell’adesione e della fede. Gesù dunque rileva lo scandalo subito dai suoi discepoli (Gv 6,61) e pone provocatoriamente una domanda: se vi scandalizza l’annuncio del Cristo che è il pane disceso dal cielo, che cosa vi avverrà se doveste vedere il Figlio dell’uomo salire là dove era prima? La domanda sembra suggerire: il vostro scandalo aumenterebbe o si placherebbe? La risposta è implicita nelle parole che Gesù pronuncia subito dopo: “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6,63).

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E lo Spirito sarà il dono che il Figlio dell’uomo disceso dal cielo e innalzato da terra, salito al cielo, ritornato al Padre, darà. Non la carne, ma lo Spirito consente di superare lo scandalo. Si ripropone con i discepoli la problematica che Gesù ha affrontato con Nicodemo quando gli ha detto: “Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo” (Gv 3,12-13). E l’accoglienza del dono di Dio inizia già ora con l’operazione spirituale basilare ed essenziale che è l’ascolto delle parole di Gesù. Infatti, dice Gesù: “Le parole che io vi ho detto sono spirito e vita” (Gv 6,63). Questo passo costituisce l’unica volta in cui Giovanni identifica la parola di Gesù con lo Spirito.

L’unità inscindibile di parola e spirito emerge dall’osservazione elementare che il soffio, l’alito che esce dalla bocca “porta” le parole, le sostiene e le accompagna. E se la vita è relazione, ecco che l’atto di ascolto e di parola è decisivo per vivere e far vivere. Ecco dunque che “parola, spirito e vita” sono realtà reciprocamente interconnesse e interagenti. L’ascolto è l’atto imprescindibile dell’accoglienza di una comunicazione, è l’inizio della fede, ma anche della relazione e dell’amore. Con l’ascolto, la vita dell’altro e il suo spirito, e non solo la sua parola, entrano in me, vivono in me, mi fanno vivere e si trasmettono a quanti io incontro. Ma se l’ascolto è inizio della fede, Gesù rivela che tra coloro che lo seguono, tra i suoi discepoli, vi sono alcuni che, in verità, non credono. Il mormoratore non ha fiducia e Gesù mostra di conoscere che anche tra chi si dice suo discepolo vi è chi non crede e perfino vi è chi lo tradirà. E il v. 65 intende significare che c’è la possibilità di rifiutare il dono della fede. Le parole di Gesù provocano come reazione immediata l’allontanamento di molti suoi discepoli: “Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui” (Gv 6,66).

Non abbiamo qui soltanto il resoconto di ciò che avvenne un tempo a dei seguaci di Gesù, ma la rivelazione di ciò che avviene ancora oggi nell’avventura rischiosa della vita cristiana. È cammin facendo che si scoprono le asperità e le difficoltà della sequela e della vocazione. La parola accolta un tempo, e che sembrava dischiudere un futuro di bellezza, di senso e di gioia, diviene una parola sconcertante, incomprensibile, dura (“questa parola è dura”: Gv 6,60). Si fa allora strada la tentazione della de-vocazione, dell’abbandono, dell’apostasia, del voltarsi indietro. Siamo di fronte all’enigma dell’abbandono, della rottura di una fedeltà, alla smentita di una promessa. E l’unica lezione da trarre non è certo il giudicare, ma il sapere che nessuno è garantito. Si può perdere la fede. La logica della scelta fatta un tempo è che, per mantenersi fedeli a essa, occorre ogni giorno rinnovare il proprio sì, la propria adesione e il proprio ringraziamento per la vita accolta e poi scelta. E rinnovarlo nelle differenti condizioni storiche ed esistenziali che si sono venute a creare.

Rinnovare il sì in maniera creativa, non certo passiva e immobilistica. Vi è qui una sfida posta ai cristiani: la credibilità della loro confessione di fede risiede anche nella loro capacità di declinare oggi realtà come perseveranza, fedeltà, definitività di una scelta senza farla divenire immobilismo, paralisi, incapacità di movimento. Ma l’enigma non riguarda soltanto l’abbandono, ma il rimanere. E Gesù, con le sue parole, lo rivela subito e, rivolgendosi ai Dodici, dice loro: “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67). Ovvero, perché, se alcuni se ne vanno, altri rimangono? Perché continuare a credere? Perché proseguire la sequela? Perché rimanere nella fede? È importante la domanda posta da Gesù: essa dice che la vita cristiana ha senso solo come atto di libertà, che non è una strada a senso unico, una strada obbligata, ma che vi sono alternative, che vi è la possibilità di un no. Restare nella sequela e perseverare nella fede richiede di essere all’altezza della libertà a cui il Signore ci chiama.

Il brano evangelico presenta un momento di crisi della comunità di Gesù. Le crisi nella vita personale come nella chiesa e nella comunità cristiana sono dolorose, ma possono essere salutari perché passano al setaccio, vagliano, chiedono un adattamento a situazioni nuove, dunque sono possibili occasione di rinnovamento. Certo, nella crisi si fa strada la tentazione dell’azzeramento del proprio passato: “Ho sbagliato tutto”, “Mi ero illuso”, “Non ce la faccio più”, “Per me è impossibile”. E ancora: “Che senso ha?”, “Chi me lo fa fare?”, “Ne vale la pena?”. Queste sono le parole e le domande che vengono al nostro spirito in quei momenti. E allora è importante ricordare la risposta di Pietro (Gv 6,68-69) alla provocatoria domanda di Gesù. A nome dei Dodici, Pietro risponde affermando che essi appartengono a Gesù quale Signore delle loro vite (“Signore, da chi andremo?”); confessando che da lui essi hanno ricevuto e ricevono vita (“Tu hai parole di vita eterna”); ricordando l’atto di fede fatto un tempo e l’esperienza esistenziale che ha corroborato la loro fede (“Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”).

Dalla vertigine della possibilità dell’abbandono, dall’illusione della libertà come sconfinamento, si passa allo sprofondamento nell’essenziale, in una fede sempre più nuda, spoglia, povera, centrata solamente sulla relazione con il Signore e le sue parole che sono spirito e vita. Nella vita cristiana si ascende scendendo, ci si eleva abbassandosi, ci si arricchisce impoverendosi, si cresce diminuendo. Unica condizione imprescindibile: la libertà. Sì, viene un momento per il credente in cui la fede chiede una rinascita, ma questo passa attraverso una morte, un affidamento radicale che è un perdersi, uno smarrirsi. Spesso sono i momenti di crisi che svolgono questa funzione di appello: allora si tratta di comprendere che “è lo Spirito che dà la vita e la carne non giova a nulla” (Gv 6,63) e di ricominciare, sempre più spogli, ma anche sempre più semplici e unificati, ad ascoltare la Parola e ad affidarsi allo Spirito del Signore.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del: Monastero di Bose