Lo scritto di Gesù
La V domenica di Quaresima ci avvicina alla settimana santa e fa volgere i nostri sguardi a Gesù che offre la sua vita. Questa offerta, dice la seconda lettura (Eb 5,7-9), avviene mediante grida e lacrime, cioè attraverso la sofferenza esistenziale assunta come luogo di apprendimento e di obbedienza. Di questa offerta, dice il vangelo, Gesù intravede il momento iniziale quando alcuni pagani lo cercano. Obbedendo a quella ricerca da lui interpretata come espressione del volere divino, egli si dispone al dono della sua vita. È la vita di Gesù che compie la Scrittura, non un’altra scrittura, non un commento alla Scrittura: l’unico scritto di quel Gesù che non ha scritto nulla è la sua vita e, in continuità con la sua vita, anche la sua morte.
La croce è lo scritto di Gesù. Altri scriveranno di lui delle narrazioni. Se Gesù ha imparato dalle Scritture, cioè le ha ascoltate e obbedite, egli ha anche imparato dalla vita, e particolarmente, dice la lettera agli Ebrei, da ciò che ha patito e sofferto. Questa è la pazienza di Cristo di cui parla 2Ts 3,5 (“Il Signore guidi i vostri cuori verso l’amore di Dio e la pazienza di Cristo”). Questa pazienza non è il mero soffrire, ma l’imparare dalle sofferenze, unica maniera per non vivere in rivolta o nel lamento, e per fare qualcosa di quella sofferenza che è una dimensione costitutiva del vivere. Cogliere, certo, nella misura del possibile, ma spesso è possibile, la sofferenza come occasione per imparare qualcosa su di noi e sulla realtà: così la sofferenza può edificarci e non distruggerci. E Gesù impara anche dagli altri, e da degli sconosciuti come gli “alcuni greci” che a Gerusalemme si rivolgono ai suoi discepoli per poterlo incontrare.
Anche il loro desiderio diviene per Gesù qualcosa da cui imparare. Imparare qualcosa che segna la sua vita e la indirizza verso la morte. L’attitudine spirituale dell’ascolto e dell’obbedienza, così essenziali nella vita spirituale cristiana, sono volti a imparare, ad apprendere, a fare di noi dei discepoli, ma mentre ci fanno discepoli e bisognosi di apprendimento, ci fanno anche coscienti di essere ignoranti, mancanti, bisognosi. Chi è troppo sicuro di sé, non sente il bisogno di ascoltare e di imparare. Se Gesù è maestro, è perché ha imparato, e, come ci dicono le letture odierne, ha imparato dalle Scritture, ha imparato dalla vita, ha imparato dagli altri. Ovvero, cogliendo la parola di Dio nelle Scritture, nella vita, negli altri. Dunque il messaggio delle letture è più che mai cristocentrico.
Il testo evangelico inizia con l’annotazione che alcuni greci erano venuti a Gerusalemme per il culto durante la festa. Poco importa che fossero ebrei della diaspora o pagani convertiti, ciò che interessa è che sono venuti a Gerusalemme per andare al Tempio durante la Pasqua. Tuttavia non è in contesto cultuale che essi incontrano Gesù, ma fuori di esso. Per vedere Gesù essi chiedono a Filippo che si rivolge ad Andrea. Per vedere Gesù ci si deve impegnare in un incontro. A chi esprime il proprio desiderio chiedendo: “Vogliamo vedere Gesù”, Gesù annuncia la sua morte. Come altre volte, Gesù dà risposte che spiazzano e obbligano l’interlocutore a fare un salto interpretativo, a dislocarsi da dove si trova. La sua parola ci chiede di ri-situarci. Anche i greci potranno vedere Gesù, ma solo grazie allo Spirito effuso a Pentecoste: noi cristiani siamo senza visione. L’incontro con Gesù avviene solo nella fede, non nella visione, sottolineerà Paolo. A chi gli chiede di vederlo, Gesù dice “Dove sono io, là sarà anche il mio servo”. Non si tratta di vedere Gesù
da qualche parte, ma di essere noi là dove lui è stato. Questa è l’unica risposta alla domanda di vedere: “Siate anche voi dove sono io e lì comprenderete”. Questa è la maniera autentica di vedere, l’esperienza di fede, un essere concretamente, esistenzialmente, là dove lui è stato. Allora, quando si sarà là, si potrà dire di comprendere qualcosa di Gesù, di vedere qualcosa di Gesù, di fare esperienza di Gesù. Si potrà dire di cominciare a imparare veramente da lui. Questo desiderio di vedere Gesù è esaudito da Gesù spiazzandolo, ri-situandolo, ri-orientandolo. Il vangelo sempre assume l’umano, in questo caso il desiderio di vedere, ma lo ri-orienta, gli dà una nuova direzione. Una direzione non cultuale e religiosa, ma umana, relazionale.
Gesù, sentito della ricerca dei greci, non solo non si affretta a incontrarli ma sembra anzi disinteressarsene. E quei greci scompaiono e nel vangelo non ricompaiono più. In realtà Gesù prende sul serio quel desiderio e vede, dietro i pochi greci che lo cercano, il segno dei pagani che chiedono accesso alla visione del volto di Dio narrato da lui. La ricerca dei greci, che Gesù ri-orienta, in verità, dà una sterzata anche alla vita di Gesù. Gesù vi discerne la venuta dell’ora, del momento in cui egli deve volgersi con risolutezza verso il destino del chicco di grano che deve morire per dare frutto. Le parole di Gesù dicono anche il tormento interiore, la lotta intima di Gesù con se stesso. Il suo cuore è turbato. La prospettiva finale della sua vita è disegnata e Gesù mostra timore e turbamento. La tentazione di evitare quell’ora si fa sentire. “Che devo dire: ‘Padre, salvami da quest’ora?'”. Il dilemma interiore si risolve con il riferimento alla volontà originaria, al desiderio originario, alla finalità originaria. “Proprio per questo sono giunto a quest’ora”.
Gesù non si scoraggia, non abbandona, non si volge indietro, non smette di perseverare, ma ravviva il desiderio che lo ha mosso fin dagli inizi e si conferma nel suo cammino. Gesù integra nel suo cammino di vita anche la morte. E questo equivale a dare compimento al desiderio come al cammino. E invita chi ha lasciato tutto e l’ha seguito a fare altrettanto. “Se uno vuole servirmi, mi segua”: Gesù lo si vede seguendolo, lo si conosce seguendolo. C’è un ri-orientamento del desiderio e del cammino. Ognuno di noi sceglie una forma di vita in cui ritiene di trovare la pienezza della gioia e del senso, poi gli anni passano e scopriamo che in quella vita noi moriremo, arriviamo a vedere che tutto finisce senza forse aver fatto quell’esperienza di pienezza e di felicità. E questo fa nascere in noi nostalgie, rimpianti, sensazioni di aver sbagliato tutto. O semplicemente, la sensazione che altrove sarebbe meglio per noi, che altrove saremmo finalmente noi stessi, realizzati. Ci vediamo condannati a una quotidianità infelice e ne accusiamo gli altri, la vita, il mondo. Forse però un minimo di autocritica e consapevolezza realistica di sé potrebbe aiutare. Forse non sono gli altri a essere così deludenti, forse non è il tipo di vita il colpevole della mia insoddisfazione, forse sono io. Scrive Rilke: “Se la tua vita quotidiana ti sembra povera, non accusarla.
Accusa invece te stesso. Riconosci che non sei in grado di vederne e riconoscerne la preziosità. In verità, per colui che crea, non esiste alcun luogo povero o insignificante”. Si tratta allora, di imparare a guardare nuovamente, di ri-orientare lo sguardo, per vedere come Gesù stesso vede. E come vede Gesù? Gesù guarda un seme di grano che cade a terra, che muore: questa è la concezione degli antichi per cui il chicco di grano per diventare albero deve morire e risuscitare. Ora Gesù è abitato da uno sguardo simbolico per cui vedendo quel seme, parla di sé e della propria passione, morte e resurrezione. In quel seme egli vede la necessità del suo innalzamento. Si tratta di ri-orientare il nostro modo di guardare. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo, se invece muore, produce molto frutto”. C’è un dinamismo di morte che dà vita. Ed è il dinamismo dell’amore e delle sofferenze che esso comporta. E ci viene detto che c’è una morte più dolorosa della morte fisica, ed è la solitudine. “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo”: c’è una morte più dolorosa della morte che è la solitudine a cui ci condanniamo separandoci e isolandoci dagli altri e perseguendo una nostra via che non incontra quella degli altri. C’è una morte vivificante perché fa crescere il seme, lo fa diventare altro. Il seme diventa spiga, poi pianta, poi capace di frutto. Questo divenire noi lo possiamo temere, possiamo scambiarlo per una morte, e in certo modo lo è perché non siamo più quelli di prima, non siamo più seme, ma altro, e allora possiamo decidere di preferire di restare come e dove siamo. Possiamo scegliere di non crescere, di non maturare, di vivere una vita che è un lento morire. C’è infatti un abbandonarci, un affidarci sentito così rischioso che ci induce a preferire
la solitudine, ovvero a restare nella morte della solitudine, del solipsismo, del narcisismo. Abbiamo qui due forme di morte, una negativa e una positiva, poste di fronte: la paura del cambiamento di sé, che fa restare nella solitudine, è la vera morte, è la sterilità; e l’accettazione del cambiamento di sé, che è la morte feconda di chi, accettando di mutare, si apre alla vita che dà frutto. Il frutto di questa morte è un dare: si diventa capaci di dare di più. La sofferenza del perdere diventa la gioiosa offerta di sé nel dare. Si tratta di fare anche dei momenti critici e dolorosi, l’occasione per andare a fondo, più a fondo di ciò che si sta vivendo. Non di evadere, di cambiare l’esteriorità, l’esterno, ma di andare in profondo di sé. Infatti, non è nel profondo che si annega, ma nella superficie.
A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose