Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 20 Novembre 2022

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L’altro malfattore, figura del discepolo

L’ultima domenica dell’anno liturgico celebra Cristo quale Signore e re dell’universo. E nell’annata C tale regalità è espressa dall’episodio detto del “buon ladrone”, tratto dal racconto della passione di Gesù nel terzo vangelo (Lc 23,35-43). Prima di commentare il testo è necessaria una premessa riguardante proprio l’espressione sempre ripetuta di “buon ladrone”. La dizione più aderente al testo è “l’altro malfattore”. A differenza di Marco e Matteo che definiscono lēstaí (“briganti”: Mc 15,27; Mt 27,38.44) i due uomini crocifissi con Gesù, Luca parla di kakoûrgoi (“malfattori”). Il raro termine è tipico di Luca per designare i due condannati alla crocifissione insieme con Gesù (23,32.33.39). Meglio dunque tralasciare l’interpretazione moraleggiante che ha partorito il “buon ladrone” e restare fedeli al testo evangelico che assicura che quell’uomo non abita la sfera della bontà, ma della malvagità, come specifica la prima parte (kakós) del termine kakoûrgos.

Quest’uomo è un malfattore, uno che ha operato il male, senza che sia specificato il delitto o i delitti di cui si è macchiato. Il testo lo definisce “l’altro” (ho héteros: Lc 23,40) malfattore, in quanto prende la parola dopo che il suo compagno di condanna ha bestemmiato Gesù. Dunque così, semplicemente, lo si può chiamare: l’altro malfattore. Accanto poi alla dimensione del “male”, Luca sottolinea quella del “fare”, presente nella seconda parte del composto kakoûrgos, “mal-fattore”, evocando a più riprese il fare o non-fare il male, l’agire o non-agire ingiustamente: Lc 23,31.32.33.34.39.41. Si pensi, in particolare, alle parole di Gesù che invocano il perdono per coloro che “non sanno quello che fanno” (v. 34) e a quelle dell’altro malfattore che, rivolgendosi al ladrone che bestemmia Gesù, gli ricorda che la pena a cui essi sono sottoposti è commisurata a quanto hanno commesso (“riceviamo il degno [castigo] di ciò che abbiamo fatto”) mentre Gesù “non ha fatto nulla di male” (v. 41).

Avvenuta la crocifissione (Lc 23,33-34), Luca annota che “il popolo stava là e contemplava” (v. 35). Non si tratta di un guardare mosso da volgare curiosità o da compiacimento maligno. L’atteggiamento indicato dal verbo theoréo, “contemplare, guardare riflettendo”, qui usato, comparirà anche più avanti (nella forma del sostantivo theoría) come atteggiamento del popolo che, osservando il crocifisso, perviene al pentimento (Lc 23,48). Si tratta dunque di un atteggiamento connotato in senso positivo verso Gesù. In contrasto con l’attitudine del popolo, Luca elenca le derisioni, gli scherni e le bestemmie rispettivamente dei capi, dei soldati e di uno dei co-crocifissi con Gesù (vv. 35-39). Ciò che viene rimproverato a Gesù e deriso di lui è la qualità messianica: “Cristo di Dio” (v. 35), “re dei Giudei” (v. 37), “Cristo” (v. 39). Agli occhi e nella mente di chi gli rivolge le accuse di usurpare il titolo di Messia, la sua incapacità di salvarsi dimostra che egli è un falso messia. Per loro “salvare la propria vita” è il sigillo dell’autentica messianicità. Invece, è esattamente l’auto-salvezza ciò che è impossibile nello spazio cristiano e che contraddice radicalmente la salvezza cristiana. Gesù aveva annunciato: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9,24). Ma prima di annunciare che chi perderà la vita a causa sua, la salverà, egli stesso è passato attraverso l’esperienza del perdere la

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propria vita. Mettere in salvo la propria vita è la grande tentazione a cui Gesù si è opposto già durante le tentazioni inaugurali del suo ministero (cf. Lc 4,1-13). Ed è la tentazione perenne del cristiano e della chiesa. Infatti, vale anche per la chiesa il detto di Gesù per cui chi vuole salvare se stesso, ovvero chi fa di se stesso un fine, il proprio fine, perde se stesso. La regalità di Gesù è derisa (v. 35: Luca riprende il verbo ekmukterízein presente anche in Sal 22[21],8) dai capi religiosi; è ridicolizzata, schernita, presa in giro dai soldati romani (v. 36: verbo empaízein, cf. Lc 14,29; 18,32; 22,63), è insultata, ingiuriata, oltraggiata da uno dei condannati accanto a lui (v. 39: Luca utilizza il verbo blasphemeîn, già usato in 22,65, che significa “oltraggiare”, ma che, a orecchie cristiane, suona come bestemmia perché si rivolge contro il Figlio di Dio).

Insomma, la regalità di Gesù o è rifiutata con disprezzo e derisione (vv. 35-36) o è cercata per essere sfruttata a proprio vantaggio (v. 39). Dal punto di vista teologico e spirituale si può affermare che Gesù abita lo scandalo del Messia perduto che può così raggiungere chiunque si trovi in situazioni di perdizione. Del resto, noi sappiamo che condizione indispensabile per incontrare e aiutare l’altro nella sua sofferenza, è condividere qualcosa della sua impotenza e debolezza. Scrive Dietrich Bonhoeffer: “Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza e della sua sofferenza … La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare”. La regalità di Gesù capovolge dunque la logica di potenza che regge le regalità umane.

Dopo le parole irriverenti del co-crocifisso ecco che, inaspettatamente, e in un testo proprio del vangelo lucano, entra in scena l’altro condannato pronunciando parole che ne fanno la figura del discepolo cristiano. Egli innanzitutto opera la correzione fraterna “rimproverando” (v. 40: vb. epitimáo) l’altro condannato che insulta Gesù, e mettendo così in atto la parola di Gesù: “Se tuo fratello pecca, rimproveralo” (Lc 17,9: epitímēson autô); inoltre egli appare esempio di assunzione di responsabilità: riconosce il male che ha commesso e ne accetta le conseguenze, ovvero accetta di pagarne il prezzo (v. 41a); quindi compie una confessione di fede riconoscendo l’innocenza e la giustizia di Gesù (v. 41b); infine si rivolge umilmente a Gesù con la preghiera, la supplica, riconoscendone la regalità escatologica: “Gesù, ricordati di me, quando verrai nel tuo Regno” (v. 42). Egli appare così quale immagine dei credenti e della chiesa che, nella storia, sono chiamati a testimoniare la regalità di Cristo condividendo le sofferenze del Crocifisso, invocando la venuta del Regno, e attendendo il Veniente nella gloria.

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Il rimprovero verte sull’assenza di timore di Dio da parte del malfattore blasfemo: “Non hai alcun timore di Dio, tu che pure sei sotto la stessa condanna?” (Lc 23,40). La prossimità della morte dovrebbe suscitare il timore di Dio, Colui che ha il potere di condannare o di salvare: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo e dopo questo non possono fare più nulla. Vi mostrerò chi dovete temere: temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna. Sì, vi dico, temete costui” (Lc 12,4-5). Questo è il pensiero dell’altro malfattore. È interessante il fatto che il richiamo al timore di Dio sia suscitato dalla bestemmia contro Gesù. L’atteggiamento blasfemo del co-crocifisso è tanto più scandaloso in quanto egli si trova nella stessa situazione di Gesù, condannato alla stessa pena. Come era scandaloso il comportamento spietato del servo che, dopo aver visto condonato il proprio enorme debito, aveva fatto gettare in prigione un con-servo (sýndoulos: Mt 18,28), un servo come lui, per un debito risibile (Mt 18,23-35), così qui è scandaloso l’atteggiamento del condannato a morte che ingiuria chi condivide la sua stessa sorte. Potremmo pensare che la condivisione della stessa sorte, soprattutto se di miseria, dovrebbe essere condizione di comprensione dell’altro e dunque di vicinanza a lui, ma il testo suggerisce che non basta il materiale trovarsi nella stessa situazione disgraziata per entrare in sentimenti di empatia: occorre invece assumere un altro sguardo nei confronti del male. Così, proprio la situazione del malfattore blasfemo rende il suo bestemmiare Gesù ancora più gratuito di quello dei capi giudei e dei soldati.

Nel v. 41 l’altro malfattore esprime il riconoscimento della colpevolezza sua e del suo compagno e manifesta la certezza dell’innocenza di Gesù. Questi, infatti “non ha fatto nulla di fuori posto (átopos)”, cioè di sconveniente, di illegale, di male. Nel v. 42, poi, egli si rivolge a Gesù con sorprendente intimità (il vocativo “Gesù” non accompagnato da specificazioni come “maestro” o “Signore” è unico nel NT) riconoscendolo nella sua funzione messianica e non chiedendogli nulla di particolare se non il ricordo quando verrà come re. “Ricordati di me”: l’affidarsi al ricordo di

Gesù è una forma di confessione di fede in lui. La sua supplica si riferiva alla venuta del Signore alla fine dei tempi quando avranno luogo la resurrezione degli uomini e il giudizio finale. La risposta di Gesù, nel v. 43, afferma che già oggi, subito dopo la morte, il suo destino personale troverà un compimento salvifico nella vita con Cristo in paradiso. La salvezza viene evocata con linguaggio mitico (“il paradiso”) ed esistenziale (“con me”). Anzi, la vera novità cristiana, che interpreta il dato tradizionale giudaico del paradiso, è la comunione con Cristo, l’essere con Cristo. Questa la salvezza. Il senso dell’espressione “con me in paradiso” è dunque questo: con me, cioè in paradiso. Essere in paradiso altro non sarà che essere con Cristo. Dirà Ambrogio: “la vita è stare con Cristo, perché dove c’è Cristo, là c’è anche il Regno”.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose