La traversata della vita
Nella Bibbia il mare è cifra di una potenza nemica e caotica che solo Dio sa dominare e pacificare per instaurare ordine e armonia là dove c’era caos. L’Antico Testamento presenta la potenza di Dio affermando che Dio è colui che fissa dei limiti al mare, ne imbriglia la forza devastante, lo domina (cf. Gb 38,8-11). Alla luce di questo si comprende lo stupore dei discepoli che vedono attivo in Gesù lo stesso potere di ridurre alla pace il mare in burrasca. Il testo evangelico, che presenta la traversata delle acque di un lago di Tiberiade in tempesta, rivela che la potenza creatrice e salvifica di Dio si manifesta nella persona di Gesù di Nazaret. Il vangelo presenta il passaggio da una sponda all’altra di questo lago.
Questa traversata presenta ostacoli, difficoltà, impedimenti ed è connotata da una valenza simbolica che riguarda sì la sequela di Gesù, la missione (nel testo di Marco è presente un’allusione all’andare tra i pagani, visto che si tratta di passare alla riva non ebraica, alla riva pagana del lago. In Mc 5,1 si dice infatti: “Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei Geraseni”), la vita ecclesiale, là dove si è tutti nella stessa barca eppure scoppiano divisioni, diffidenze, accuse reciproche, ma più in profondità quella traversata evoca il percorso di una vita. Anzi, della vita tout-court. Evoca il “frammezzo” che c’è fra una nascita e una morte, tra la nudità in cui si viene al mondo e lo spogliamento, il denudamento con cui si lascia il mondo, fra l’inermità naturale e spontanea alla nascita e il faticoso, difficile e doloroso, farsi inerme a cui il finire della vita ci conduce. Evoca la nostra vita con il senso che le abbiamo accordato e la direzione che le abbiamo impresso obbedendo alla parola di Gesù: “Passiamo all’altra riva”.
Come i discepoli si trovano in mezzo a una tempesta dopo aver obbedito al comando del Signore di passare all’altra riva del lago, così anche noi conosciamo contraddizioni e ostacoli connessi alla nostra decisione di seguire Gesù nel suo cammino, di fare della nostra vita una sequela di Cristo. Questa vita, l’unica nostra vita, il credente la vuole vivere con Gesù, seguendo Lui, obbedendo alla sua parola. E se è vero che le difficoltà che conoscono i discepoli sono connesse alla fede e alla sequela di Gesù, esse, in verità, vanno riconosciute come connesse alla vita in quanto tale. La vita infatti non è un mero dato biologico, ma è inscindibile dal senso e dalla direzione che vi imprimiamo. Il vangelo mostra come le difficoltà del passaggio del lago siano rivelatrici delle paure, dei dubbi, dei sentimenti nascosti dei discepoli, di ciò che abita nel loro profondo, insomma del loro cuore, di ciò che essi sentono e pensano. Le difficoltà dei discepoli nella barca diventano anche tensione tra i discepoli e Gesù, diventano litigio e accusa, diventano ciò che scoperchia quanto prima era celato, nascosto, compresso, ma aveva solo bisogno di una spinta per emergere. Insomma, il vangelo odierno ci dice che la traversata, ogni traversata, non è senza traversie.
Inoltre ci viene suggerito che le difficoltà e i conflitti sono rivelatori. E possono anche svolgere una funzione liberatrice. Possono. Ma a patto che vengano accolti e abitati, e che noi ne facciamo qualcosa, non certo di per sé. Da cosa ci liberano le difficoltà e gli ostacoli? Dall’idea che tutto vada bene, che noi andiamo bene, che non abbiamo bisogno di correzioni, che siamo perfetti, dall’illusione che siamo capaci di amare, che facciamo tutto bene e tutt’al più sono altri che non capiscono (non ci capiscono) o sono inadeguati. Il testo del vangelo ci presenta una situazione in cui il conflitto esplode e le parole che volano non sono eleganti, ma ruvide, in cui l’incomprensione, prima taciuta per soggezione o timore, nel momento critico esplode e si esprime come colpevolizzazione dell’altro e rimostranza affettiva nei suoi confronti: “Non t’importa che moriamo?” (Mc 5,38).
La pagina evangelica narra un episodio presente nella triplice tradizione, ma con alcune differenze di dettaglio e di sostanza. Se sia Luca che Matteo dicono che Gesù salì in barca (Mt 8,23; Lc 8,22), in Marco l’inizio dell’azione è in una parola di Gesù: “Passiamo all’altra riva” (Mc 4,35). Marco non dice che Gesù salì sulla barca per il semplice motivo che c’era già, vi era già salito (Mc 4,1-2). Qui Gesù, dato l’ordine di partenza, viene preso dai discepoli “così com’era sulla barca”. E come era Gesù? Marco sottolinea che Gesù era al termine di una intera, faticosa giornata di predicazione e di annuncio della parola. E specifica il momento cronologico: “venuta la sera”. E giunta la sera, quando sta per calare la notte, invece di inviare a casa i suoi, invece di fare ciò che sarebbe più sensato, ovvero andare a riposare, ecco che chiede una fatica supplementare ai suoi. E anche a se stesso. Una fatica non spiegata. Nessuna motivazione a quel “Passiamo all’altra riva”. Stupisce quell’ordine che non ha motivazioni e che contraddice il buon senso.
E, anche se è vero che i discepoli obbediscono, la narrazione suggerisce che questa azione non sarà senza conseguenze, ma che vi saranno strascichi a questa decisione di Gesù. Il v. 37 presenta l’imprevisto: si scatena una tempesta e le onde riempiono la barca che rischia di rovesciarsi e di affondare. E, di fronte a questo, ecco l’incredibile passività di Gesù: “A poppa, dormiva sul cuscino”. Non è difficile indovinare che nell’animo dei discepoli, già obbedienti esecutori di un ordine non spiegato e discutibile, sorgano sentimenti di collera verso Gesù, che sembra indifferente alla gravità della situazione. Marco fa trasparire la tensione che vivono i discepoli: Gesù ha preso l’iniziativa e poi sparisce dalla scena e a sgobbare sono gli altri. Non è lui la guida? Non è lui che deve dire cosa fare, non è lui che deve guidare e dunque decidere? Ed ecco che se ne sta beato a dormire mentre tutti gli altri sono in grave difficoltà. Non è forse irresponsabilità questa? Non hanno posto obiezioni quando Gesù ha dato quel comando un po’ strano e ora sono costretti a contemplare la sua tranquillità, addirittura il suo sonno, mentre la tempesta infuria e rischiano di affondare.
La narrazione di Marco ha probabilmente tratto ispirazione dal racconto di Giona secondo i LXX in cui si dice che Giona, nel bel mezzo della tempesta, “scese nel ventre della nave e si mise a dormire” (Gn 1,5): se Giona fugge l’ordine che ha ricevuto di imbarcarsi, Gesù è ha dato l’ordine e ora sembra sottrarsi alle conseguenze di quell’ordine lasciando che siano altri a pagarle. La narrazione fa salire una tensione muta, ma pronta a esplodere; il racconto conduce verso un punto di svolta, che troviamo nel v. 38: “Maestro non ti importa che siamo perduti?”. Se in Luca e in Matteo si mostra la riverenza dei discepoli che si avvicinano, quasi con timore, a Gesù; se in Matteo si riferisce un grido che è un’invocazione e una preghiera rivolta al Kyrios, “Signore, salvaci, siamo perduti” (Mt 8,25); se in Luca c’è la doppia invocazione “maestro, maestro”; in Marco abbiamo invece un brutale rimprovero: “Non ti importa che siamo perduti?”. Nei momenti di crisi emergono i sentimenti e le emozioni normalmente tenuti a freno. Saltano i freni inibitori. La tensione scoppia in conflitto.
E la reazione di Gesù è spiazzante. Gesù manifesta autorità sugli elementi naturali scatenati, pacifica il mare, e poi si rivolge ai discepoli interrogandoli sulla loro paura e sulla loro non-fede. E pone loro due domande. Insegnando loro che uso fare anche delle collere e dei conflitti: chiedersi perché? “Perché avete paura?”. Scrive Agostino: “Nella nostra dottrina si chiede all’anima credente non se va in collera, ma perché; non se è triste, ma da dove viene la sua tristezza; non se ha paura, ma qual è l’oggetto della sua paura” (La città di Dio IX,5). Qui vediamo collera e paura. Emozioni che dicono qualcosa di noi e che, dunque, occorre conoscere per ascoltare ciò che di noi rivelano. Sono un ausilio per la conoscenza di noi stessi. Le nostre emozioni, come paura o tristezza o ira, le possiamo leggere in senso morale e farne occasioni di autocondanna, oppure, con maggiore intelligenza e utilità spirituale, possiamo interrogarle e ascoltare ciò che ci dicono di noi stessi. Per poterci correggere. La paura si è innestata fra l’attesa dei discepoli e la realtà. Fra ciò che si aspettavano da Gesù e la realtà deludente di un uomo che dorme. Che sembra fregarsene di loro. Non sopportano la sua debolezza. Ci sono persone che sembra che non siano autorizzate a essere deboli, perché gli altri non ne sopportano la debolezza.
Gesù non ha vergogna a mostrare la sua umanità stanca, perfino il suo addormentarsi. Subito dopo, mostra la sua potenza nei confronti degli elementi del mare e infine interroga i discepoli sulla loro fede o non-fede. E li rimprovera. Essi sembra che non credano che la parola seminata da Gesù possa giungere a frutto sia che il seminatore vegli sia che dorma, come ha appena affermato Gesù nella parabola del seme che spunta da solo sia che li contadino vegli sia che dorma (Mc 4,26-29). Qui si innesta la paura dei discepoli. Il visibile, con la sua pregnanza e violenza, è molto più forte dell’invisibile, di cui sembra testimoniare Gesù con il suo dormire. La fede chiede di riuscire a vedere e affrontare quel visibile, quella tempesta, a partire dall’invisibile, cioè dalla fiducia nel Signore che è più forte delle nostre paure e che sa ciò di cui abbiamo bisogno.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del: Monastero di Bose