Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 20 Febbraio 2022

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Mentre eravamo nemici

Dopo aver pronunciato i “guai” rivolti a ricchi e gaudenti (Lc 6,24-26), Gesù imprime una brusca sterzata al suo discorso rivolgendosi a folle e discepoli che lo stanno ascoltando e indicando loro la “via altra”, che è anche la “via alta”, sublime e difficile, di chi è chiamato a essere “misericordioso come il Padre è misericordioso” (Lc 6,36). L’avversativa forte posta all’inizio del v. 27 (“Ma a voi che ascoltate io dico”, eco in realtà ben più forte del “ma io vi dico” del discorso della montagna di Matteo) dice l’alterità che il cristiano è chiamato a narrare nella sua vita. Questa alterità è la santità contenuta nella vocazione cristiana. Al cuore di tale santità-alterità vi è l’amore per il nemico: “Amate i vostri nemici” (Lc 6.27.35) è il comando che contiene in inclusione l’intero passo di Lc 6,27-35). Questo amore è di per sé un’avversativa mite e potentissima nei confronti del sentire e pensare mondano. Il nemico è specificato come colui che odia, maledice, maltratta ed esprime la sua inimicizia con la violenza fisica, con il furto, con la richiesta e la pretesa.

Ovviamente l’inimicizia trova infiniti altri modi di esprimersi, ma l’indicazione che emerge dalle parole di Gesù è: si risponda facendo non-violenza. Non semplicemente con una risposta che non sia violenta, che dunque si sottragga alla specularità ripetitiva del gesto violento subito, ma con un’azione positiva di segno opposto. Così ci si mostra più forti della violenza subita e si passa dalla reazione all’azione: come si comporterà colui che odia e maltratta, che calunnia e pretende, al gesto positivo dell’offeso? Come reagirà di fronte a chi non lo riduce al suo gesto violento, non lo considera odio personificato, ma lo considera una persona e, in obbedienza alla regola d’oro (“Come volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”: Lc 6,31), gli fa il bene? Amando il nemico gli offro la libertà di essere una persona migliore, di emendarsi dalla violenza: gli dico che può amarsi.

Certo, il comando di amare il nemico ci immerge nella dimensione ossimorica della fede cristiana. Anzitutto rendendo l’amore oggetto di comando. È possibile comandare l’amore? Nella Bibbia il comando che Dio dà all’uomo non è solo “ordine”, ma anche rivelazione di una possibilità. Prima di dire “tu devi”, il comando dice “tu puoi”. Anzi, si fonda sul “tu puoi”. Dunque, mentre chiede fiducia in colui da cui viene il comando, sollecita anche fiducia in sé da parte di colui che tale comando riceve. Il comando può svegliare l’uomo a capacità, possibilità e risorse di cui egli non era cosciente. Anzi che egli nemmeno immaginava: e chi mai si sognerebbe di rispondere in modo benevolo, caritatevole e mite a chi l’offende, l’umilia, lo calunnia, gli fa il male?

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Ma soprattutto l’ossimoro è presente nell’accostamento dell’amore alla figura del nemico. Qui va specificato che il comando non si pone sul piano sentimentale, non ordina di provare sentimenti di affetto per chi ci odia: esso si pone su un piano operativo, concreto, effettivo ben più che affettivo, e indica azioni concrete da mettere in atto e comportamenti da assumere. L’ossimoro cristiano si manifesta nella follia di amare chi amabile non è: e il non amabile per eccellenza è il nemico. Cristo ha amato il nemico mentre era nemico (cf. Gv 13,1ss.) e Dio ha mostrato il suo amore per noi perché, mentre noi eravamo nemici e peccatori, Cristo è morto per noi (cf. Rm 5,6-11). Così, l’amore mosso dalla fede in Cristo ama il non amabile. Ha scritto magnificamente Eberhard Jüngel: “L’agape, la charitas, ama non soltanto chi già di per sé è desiderabile, ma anzitutto chi desiderabile non è affatto e che, mediante questo amore, diviene desiderabile più di ogni altra cosa. Così e soltanto così l’amore ha il sopravvento sulla mancanza di amore. È in questa vittoria che i cristiani credono, quando confessano che Dio altro non è che amore”.

Ma chiediamoci: com’è possibile amare il nemico? Anzitutto, ricordando che il nemico è sempre un essere umano, dunque un fratello. “Un uomo, qualunque cosa ti faccia, è un fratello” (Giovanni Crisostomo); il nemico che mi fa del male è un fratello che il male ha allontanato da me e ha allontanato anche dalla sua umanità. Del resto, chi è il nemico? Il nemico è l’amico, il vicino, colui che mi è accanto. Gesù ha trovato in Giuda, uno dei Dodici, chi si è fatto suo nemico personale, e in Pietro, da lui stabilito primo tra i Dodici, chi l’ha tradito.

È possibile amare il nemico ricordando che noi siamo i nemici amati da Dio proprio nel nostro essere nemici (“mentre eravamo nemici”: cf. Rm 5,6-10): è possibile amare il nemico fondandosi sulla fede in Cristo che sulla croce ha abbattuto la logica dell’inimicizia (cf. Ef 2,14), ha risposto agli oltraggi e alle violenze invocando il perdono sui suoi aguzzini (1Pt 2,23; Lc 23,34). Sulla croce, quando lo scatenamento dell’inimicizia nei confronti di Gesù ha raggiunto il suo apice, Gesù ha narrato definitivamente l’amore di Dio per noi. L’universalità dell’amore di Dio in Cristo va intesa dunque in profondità prima che in estensione: Dio, amandoci, ci ama anche nel nostro essere non amabili, fa regnare il suo amore anche su ciò che in noi non è amabile.

Questa profondità è la condizione dell’estensione universale dell’amore. Amare il prossimo, ancor prima che il nemico, implica, ricorda Gesù, l’amore di sé: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mc 12,31). Per attuare questo comando occorre vincere quell’odio di sé che presso gli umani è infinitamente più frequente e radicato rispetto all’amore di sé. Occorre conoscere, nominare e accogliere il nemico interiore. Occorre amare, cioè smettere di odiare le parti di sé che non vorremmo vedere in noi e che pure ci abitano. Occorre arrendersi alla loro presenza e anzi, accoglierle. Dire loro di sì. Perdonarsi di ospitarle, ovvero di essere come siamo. Non ci sarà mai nessun amore del nemico senza questa accettazione del nemico interiore. Senza arrivare ad “amare” le parti di noi che odiavamo.

Ma ancora: come giungere ad amare il nemico? Occorre un lavoro su di sé assai articolato. Questo lavoro comporta anzitutto il rinunciare alla vendetta, al rendere male per male (cf. Rm 12,14-21). Quindi occorre riconoscere che si sta soffrendo la situazione di inimicizia e riconoscere la collera che ci abita e che si manifesta in discorsi e pensieri interiori contro colui che si è fatto nostro nemico. La collera è anche rivelazione di noi, non solo denuncia dell’altro. Ascoltarla ci aiuta a leggerci e a cogliere le nostre zone di maggiore vulnerabilità. E ci può portare ad addomesticarla e a volgerla in energia non distruttiva, ma positiva e vitale. Poter parlare con qualcuno della situazione dolorosa di inimicizia che si sta vivendo è importante per prendere un certo potere su una situazione che rischia di schiacciarci, di sfuggirci di mano. E può aiutare il faticoso percorso verso la comprensione dell’altro e della sua inimicizia. Comprensione che non significa giustificazione, ma cambiamento del nostro sguardo su di lui.

Questa base di lotta e dialogo interiore, di fatica e sofferenza profonde, costituisce il fondamento dell’amore per il nemico. Della concreta prassi per cui ci convinciamo a compiere gesti di dialogo, di apertura e di “bene” per l’altro. Purtroppo la realtà presenta una quantità di situazioni infinitamente più articolate e complesse in cui oltre ai due entrano un terzo, o altri ancora, o gruppi umani, e in cui si manifestano atteggiamenti di rifiuto, di non trasparenza, di inganno, di menzogna che rendono intricato e quasi impossibile il percorrere una via di comprensione. Di certo, perché si possa arrivare a dare una qualche forma di praticabilità al dettato evangelico dell’amare il nemico, occorre che esista una base di fiducia. Ma spesso l’inimicizia esprime proprio la morte della fiducia. E allora, la scalata verso la vetta dell’amore per il nemico si fa ancora più improba. E comunque, mentre ci lasciamo interrogare dal comando di amare il nemico, dobbiamo anche interrogarci sulla possibilità che noi diventiamo nemici di altri, entrando nelle spirali dell’odio e dell’inimicizia.

Davvero dunque, l’amore che il cristiano riesce ad avere verso il suo nemico è grazia, è dono di Dio, è amore di Dio in lui. Non a caso, il testo evangelico per tre volte afferma essere una grazia (cháris), più che un merito, l’andare oltre le misure umane di reciprocità e corrispondenza (cf. Lc 6,32.33.34; la Bibbia CEI traduce: “quale gratitudine vi è dovuta?”).

Il discorso evangelico sull’inimicizia ha anche una dimensione ecclesiologica importante: la chiesa, se vive la radicalità evangelica, conosce certamente persecuzioni e inimicizie a causa del Nome di Cristo; ma la stessa radicalità evangelica impedisce alla chiesa di fabbricarsi dei nemici, di dar nome di nemico ad “altri”, a categorie di persone o a gruppi umani che semplicemente sono segnati da diversità di religione, di cultura, di costumi etici, o di modo di vivere la stessa fede cristiana. Sempre infatti la creazione del nemico è il prodotto della trasformazione di un’alterità parziale in alterità assoluta. L’alterità come occasione di comunione e non di inimicizia: questa la sfida che dal comando di amare il nemico viene alla chiesa di ogni tempo.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose