Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 2 Maggio 2021

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Rimanere nell’amore di Cristo

Il brano evangelico della V domenica di Pasqua è tratto dall’ultimo discorso di Gesù nel quarto Vangelo, il discorso che precede il suo andarsene e sigilla la sua separazione fisica dai discepoli. Questo vuoto crea nei discepoli turbamento (Gv 14,1), tristezza e dolore (Gv 16,22), ma Gesù insegna loro a vivere tale vuoto facendone il luogo della fede e dell’interiorità. Il vuoto è condizione di una presenza e promessa di una relazione. L’assenza è un elemento positivo nell’esperienza biblica di Dio perché è lo spazio per la libertà di Dio che consente anche all’uomo di sviluppare la propria libertà. Coltivare questo vuoto è la via per evitare l’idolatria, per fuggire la tentazione di ridurre Dio alle immagini che ce ne facciamo. Che altro è l’idolo se non il troppo pieno di cui ci saturiamo per rimuovere l’angoscia dell’incertezza e del vuoto? Gli idoli sono presenti e invadenti, ma in verità sono presenza irreale.

Ebbene, il vangelo odierno pone l’accento sulla dimensione di interiorità essenziale alla vita di fede: “rimanere in Cristo” è espressione che parla di un’attività che si svolge nell’intimo del credente. Ovvero, la fede deve diventare vita nel profondo della persona, altrimenti sarà la stessa vita di relazione e di comunione che ne scapiterà. La vita di relazione contrassegnata dal “con” gli altri e dal “per” gli altri è resa possibile dal radicamento della vita di Cristonel profondo della persona. Questo radicamento è espresso nel testo giovanneo con l’immagine del legame fra tralcio e vite e con il verbo “rimanere”. Il passo evangelico inizia infatti con l’autorivelazione posta in bocca a Gesù: “Io sono la vera vite”. Questa solenne dichiarazione situa Gesù in relazione sia con il Padre (l’agricoltore) sia con i discepoli (i tralci). Come è essenziale al tralcio rimanere nella vite per fruttificare, così è essenziale al discepolo rimanere in Cristo per dare frutto. Ma che significa rimanere in Cristo? “Rimanere” non è il passivo adeguarsi a uno status in cui ci si trova, ma indica un evento dinamico in quanto designa la maturità del rapporto di fede e di amore del credente con il suo Signore.

La sequela, cioè la quotidiana fatica di porre i propri passi sulle orme di Cristo, deve interiorizzarsi e divenire un rimanere nell’amore di Cristo: colui che rimane è colui che conosce di essere amato. L’amore non è esperienza di un momento ma diviene storia quando in esso si rimane. Solo così l’esperienza dell’amore ci scava nel profondo, agisce e opera cambiamenti in noi. Questo rimanere nell’amore diviene fondamento del perseverare nella fede. Di più: il rimanere in Cristo è basilare per il rimanere con i fratelli nella comunità ecclesiale. L’esperienza di fede come rimanere è esperienza di interiorità e profondità spirituale e di perseveranza e comunione. Ma la comunione ecclesiale ha un imprescindibile fondamento nella comunione personale e interiore con il Signore. Senza quest’ultima, la vita ecclesiale si riduce a ipocrisia. Senza uno spazio di vita interiore e di comunione personale con il Signore l’“io” non riuscirà a dire “noi” in modo libero, convinto e pieno d’amore, e rischierà di piegare il “noi” all’“io”, di vivere le relazioni con gli altri all’interno di un rapporto di forza.

Questa relazione di fede matura con Cristo è indispensabile per il credente. Dice infatti Gesù: “Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5) e “il Figlio non può far nulla da se stesso se non ciò che vede fare dal Padre” (Gv 5,19). Gesù è interamente definito dalla sua relazione con il Padre: Gesù rivela il Padre perché è spossessato di sé, perché non fa nulla da se stesso. La condizione grazie a cui il Figlio rivela il Padre ponendo in comunione gli uomini con Dio è lo spossesso totale di sé, il non parlare e agire da sé. Per Giovanni è il Diavolo che agisce e “parla de se stesso” (Gv 8,44), che fa della assolutizzazione del proprio “io” il principio direttivo della propria esistenza. Questo è il modo di esistenza di chi, per paura di perdere se stesso, si chiude in sé facendo il movimento contrario a quello della fede, che è abbandono di sé e uscita da sé per affidarsi al Signore.

Cristo, invece, nel suo spossesso di sé, diviene il perfetto rivelatore del Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Ora, ciò che i discepoli, e dunque i credenti, condividono e hanno in comune con Gesù è questo “nulla”, questo nulla di proprio che indica al tempo stesso la loro debolezza e la loro forza. E in cui si trova la loro libertà. Per portare frutto il tralcio deve essere potato, e il credente, per portare frutto abbondante deve conoscere una spogliazione, una purificazione, una morte a se stesso, ma per amore, in nome dell’amore. Infatti, solo una fede che si configuri come relazione di amore diviene vivibile con perseveranza.

Il “portare molto frutto” è poi spiegato da Gesù con la frase “diventare miei discepoli” (Gv 15,8). A noi che troppo spesso pensiamo di essere già discepoli, di essere già cristiani, il vangelo ricorda che la vita cristiana è un cammino in cui, strada facendo, si impara a divenire discepoli, a divenire cristiani. Ignazio di Antiochia, al termine di una lunga vita di santità, mentre era condotto al martirio disse: “Ora incomincio a essere discepolo” (Ai Romani V,3). Si tratta di un itinerario in cui la fecondità è possibile grazie a una morte, a una potatura che consente l’innesto vivificante in Cristo (cf. Gv 15,2-3). Il vangelo sottolinea che il portare più frutto è legato a un meno, a una essenzializzazione, non è un accrescimento. L’azione del Padre sui tralci è di tagliare, di purificare togliendo. Più si è semplici, più si è nell’essenziale e più si porta frutto. Queste parole valgono non solo in riferimento al singolo credente, ma anche alla chiesa, essa pure bisognosa di potatura. In Lumen gentium 8 si dice: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza”. Anche qui si parla di frutti, così come subito dopo si parla di potatura, di purificazione: “La Chiesa, santa e sempre bisognosa di purificazione (ecclesia semper purificanda), mai tralascia la penitenza e il suo rinnovamento” (LG 8).

Il rinnovamento passa attraverso una potatura. La riforma della Chiesa passa attraverso un togliere. La frase di LG 8 “ecclesia sancta simul et semper purificanda” è eco dell’espressione di matrice protestante “ecclesia reformata semper reformanda”. Riforma non è aggiunta, costruzione di nuove strutture, ma è piuttosto un togliere, un essenzializzare, un ricondurre all’irrinunciabile evangelico. Riforma è atto di ablatio analogo a quello che compie lo scultore che deve liberare e far emergere la statua dal masso informe che ha davanti: il suo lavoro è togliere perché si manifesti la nobilis forma già presente nel masso. Ma come il credente e la chiesa nel suo insieme possono lasciar spazio al lavoro di potatura che il Padre compie? Ricordando che soggetto della riforma della chiesa è il Signore stesso nella potenza della sua Parola e del suo Spirito: “Proprio il Signore che ti ha formato, sarà anche il tuo riformatore” (Agostino). Si tratta di porsi sempre e di nuovo nella postura di ascolto e ricettività della Parola che purifica e fa emergere la presenza di Cristo nel corpo ecclesiale: “Voi siete già purificati dalla parola che vi ho annunciato” (Gv 15,3). Ma al dono della parola che purifica deve seguire la responsabilità della chiesa che lascia operare su di sé tale parola. La riforma è opera del Signore e responsabilità della chiesa; è evento spirituale che porta al discernimento tra fine e mezzi, tra verità e consuetudini, perché le tradizioni non arrivino a offuscare la verità e a sostituirsi ad essa. Scrive Agostino: “Nel Vangelo il Signore dice: Io sono la verità, non dice: Io sono la consuetudine”.

E Tertulliano: “Una consuetudine nata da ignoranza e dabbenaggine, con l’andare del tempo si radica sempre più e si trasforma in prassi abituale e così ad essa ci si appella in opposizione alla verità”. E così forme divenute contenuto, consuetudini assolutizzate rischiano di sostituirsi alla verità che è Cristo. La riforma pone la chiesa in atteggiamento responsoriale e dialogico con la parola del Signore ma anche con la storia, per arrivare a dire e a vivere il vangelo nell’oggi storico. La riforma pone la chiesa in atteggiamento di ascolto di ciò che i tempi dicono e richiedono. E se la riforma dev’essere continua (Unitatis Redintegratio 6 parla di “continua riforma, “continua reformatio”), allora essa non può essere episodica, ma farsi azione quotidiana, ricerca di conformità al vangelo nella perseveranza quotidiana e nell’umiltà, ovvero nella coscienza del nulla di proprio in cui consiste la comunione tra chiesa e Gesù: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Anche la chiesa da sé non può far nulla. Essa è chiamata a rimanere in Cristo per vivere quell’impossibile praticabile che è la riforma. Impossibile, perché la piena conformazione al vangelo resta sempre a venire; praticabile, perché la tensione verso la maturità ecclesiale è possibile, anzi doverosa. Si tratta, per il singolo credente e per la chiesa tutta, di rimanere in Cristo: così si porta molto frutto, si diventa discepoli, si diventa chiesa di Dio. In un processo di diminuzione che ha la sua misura nell’amore di Cristo rivelatosi pienamente sulla croce.

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose