Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 2 Gennaio 2022

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Il potere della parola

Nella contemplazione dell’incarnazione nel tempo di Natale, oggi la liturgia, proponendo come vangelo il prologo di Giovanni, ci fa sostare sul mistero della parola. “In principio era la parola, … tutto è stato fatto per mezzo di essa” (Gv 1,1.3). La parola è luogo di apparizione dello spazio; il mondo esiste perché parlato. “La parola si è fatta carne” (Gv 1,14). Se la nostra carne, dice la Genesi, viene dall’adamah, dalla terra, in essa, e dunque dentro di noi, vi è la parola, carne del nostro spirito, che in verità ci chiama, chiama noi stessi e vorrebbe agire per noi come memoria della nostra origine ogni volta che parliamo. Ma spesso noi ce ne ergiamo a padroni e la usiamo, la riduciamo a strumento e poniamo noi stessi all’origine di tutto. E normalmente la usiamo per usare gli altri. L’abuso sugli altri si accompagna sempre, inevitabilmente, ineluttabilmente, all’abuso della parola. Invisibile eppure realissima, presente in noi e davanti a noi, tesa tra noi e gli altri come un ponte, in verità essa continua ancora oggi a essere all’in-principio di tutto. Di ogni creazione buona e bella, ma anche di ogni ritorno al caos e alla tenebra. “La parola era luce e vita” (cf. Gv 1,4). Ecco la parola che si è resa visibile e che ha assunto il volto di Gesù di Nazaret: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la vita” (Gv 14,6), dirà Gesù. E allora la contemplazione della parola non può limitarsi ad affermare che Gesù è la parola fatta carne, ma deve completarsi con l’ascolto della pratica di parola di Gesù di Nazaret. Deve cioè completarsi con l’annotazione stupita dei soldati che si rifiutarono di arrestare Gesù affermando: “Nessun uomo ha mai parlato così” (Gv 7,46). Mettersi alla sequela di Gesù significa rinascere dell’alto, e chi nasce deve imparare a parlare. Perché nella parola è la possibilità di dare vita, ma anche morte, di chiarificare, ma anche di gettare nel caos, nell’indistinto, in essa è il potere di dare vita creando fiducia, ma anche di far sprofondare nello smarrimento seminando sfiducia, in essa è il potere di creare comunione e relazione o di distruggere la comunione e minare la relazione. L’autore della lettera di Giacomo era scioccato dalla constatazione del potere malefico del parlare e dalla doppiezza umana: “con la bocca benediciamo il Signore e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio”. Il Cristo che nell’incarnazione ci insegna a vivere (cf. Tt 2,12), ci insegna anche a parlare. O meglio, ci chiede l’umiltà di imparare a parlare. Di imparare a bene-dire, a fare del nostro dire una fonte di luce e di vita. A fare del nostro dire la fonte del bene dell’altro, del suo bene, non sempre e solo della nostra gratificazione. Perché dire è sempre anche dare e la Scrittura ci ricorda che le parole sono gesti, azioni. Il che significa che ogni nostra parola, per essere dono, per essere luminosa e vitale, deve essere anche ascolto. E la parola deve essere ascolto nel momento stesso in cui è pronunciata. La vera parola ascolta parlando e il vero ascolto parla ascoltando. Rispettando cioè radicalmente l’altro a cui si parla, la parola che viene pronunciata, noi stessi che la pronunciamo e il Signore che ha manifestato se stesso con la parola. Altrimenti si cade nella violenza. Ed è violenta ogni azione e ogni parola in cui agiamo e parliamo come se fossimo soli ad agire e a parlare: come se il resto dell’universo fosse là soltanto per ricevere la nostra azione e la nostra parola. Cioè per subirla. Gesù, parola fatta carne, ha posto la propria carne, la propria vita a servizio della parola, e ne ha pagato il prezzo. Al termine della sua vita egli potrà dire: “Io ho parlato al mondo apertamente, con parresía” (Gv 18,20), ma l’audacia della verità e il rifiuto della menzogna lo porteranno a divenire martire della parola. Ma anche sulla croce, “sulla sua bocca non fu trovato inganno” (1Pt 2,22). A fronte di chi uccide con le parole, vi è chi muore per l’adesione rigorosa alla parola. Ma anche allora, alla fine, la parola è all’in-principio, e la sua luce e la sua vita diventano resurrezione.

Il Dio biblico è “Colui che parla” e parlando chiama l’uomo a farsi suo rispondente, lo chiama all’alleanza, a entrare in relazione con lui. Il Dio che parla istituisce l’uomo come libertà dialogante con lui. Di fronte a questo Dio l’uomo è situato nella postura di “colui che ascolta”. L’origine della vita spirituale del cristiano è in questo atto basilare e sempre da rinnovare che è l’ascolto della parola di Dio, cioè della sua volontà, del suo cuore. Proprio come, all’inizio della vita umana, la percezione del battito del cuore materno è per il feto il momento sconvolgente in cui esso viene strappato al silenzio primordiale per essere consegnato al silenzio alternato con rumori e suoni. “È l’udito il primo cordone ombelicale comunicativo della nostra esistenza; grazie all’udito ci separiamo dalla fusione indistinta con la carne del mondo e insieme ci teniamo pur sempre agganciati a essa” (Carlo Sini).

“La parola si è fatta carne … e noi abbiamo contemplato la sua gloria” (Gv 1,14). L’opacità della carne è la condizione necessaria per “vedere la gloria di Dio” O forse, la luce della carne umana – svelata pienamente da Gesù di Nazaret – è la condizione per accedere al mistero di Dio. Lo stesso Lógos, “parola”, che rivela Dio, non è parola monolitica che si impone con il suo peso schiacciante e la sua autorità auto-evidente, ma parola dialogica che invita e offre, che apre una via, che indica, che fa segno. Se il Lógos era in Dio e presso Dio, in legame eterno e vitale con Dio, tutt’uno con lui, allora Dio è dialogico in se stesso: rivelandosi, egli chiama l’uomo al dialogo. Svelandosi come parola, suscita, invece di annichilire, la parola dell’uomo. Dio abbisogna della parola umana. Il corpo e la parola di Gesù sono i luoghi privilegiati della manifestazione di Dio. Il corpo e la parola umani sono i luoghi in cui l’uomo risponde alla comunicazione di Dio.

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Il Dio che parla è il Dio che interviene nel mondo, che crea non solo il mondo, ma la storia. Il vocabolo ebraico dabar, “parola”, indica anche la storia, i fatti e gli eventi che compongono la storia. Il nome ebraico del libro delle Cronache è dibrê ha-jamim, letteralmente, “fatti dei giorni”. Il Dio che parla è il Dio che “parla il Figlio”. E il Figlio, parola definitiva e sintetica del Padre, parola visibile, dice il Padre, conduce a lui, svela Colui che nessuno ha mai visto (cf. Gv 1,18) e apre la via verso di lui: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Il prologo giovanneo fa anche emergere un paradosso riguardante la parola. Esso infatti afferma che la parola onnipotente (cf. Sap 18,15), per mezzo della quale “tutto è stato fatto” (Gv 1,3), in realtà non annienta la tenebra, non la elimina, ma vi scende e vi convive: non diviene luce abbagliante, anzi, rischia di essere spenta da chi non la accoglie (cf. Gv 1,5.10-11). Questa parola caratterizza l’agire divino nella creazione e nella storia come agire mite, come agire che non elimina il negativo e il lato tenebroso dell’esistenza e della storia, ma che accetta di abitarvi: la sua forza è nel non farsi sopraffare (“le tenebre non l’hanno vinta”: Gv 1,5), nel continuare a brillare e a indicare la strada anche in mezzo alle tenebre. L’incarnazione indica che la via di Dio è la mitezza. Ovvero il porre dei limiti alla propria forza, al proprio agire e al proprio parlare, per consentire all’alterità di essere e di manifestarsi in piena libertà.

Se Dio crea mediante la parola, questo significa che la creazione ha una sua leggibilità e intelligibilità; e se Dio guida la storia mediante la parola, questo significa che la storia ha una direzione, un senso, un télos. Questa intelligibilità, questa direzione e questo senso sono dati in Cristo: “tutte le cose sono state create per mezzo del Figlio e in vista di lui” (cf. Col 1,16). Ma si tratta di una intelligibilità, di una direzione e di un senso non a basso prezzo o ingenuamente ottimistici, perché includono il negativo del mondo e della storia che Cristo assume e attraversa con la passione e la morte di croce. Il Cristo che è la parola di Dio è sì potente ed efficace, ma è anche parola non compresa, che parla un linguaggio che molti non comprendono (cf. Gv 8,43): l’efficacia e la potenza del Lógos si manifesteranno sulla croce, e saranno l’efficacia e la potenza paradossali dell’amore.

La parola ha posto la sua dimora “in mezzo a noi” (Gv 1,14). L’incarnazione è avvenuta in Israele, ma poiché la parola “illumina ogni uomo” (Gv 1,9), possiamo pensare che questo versetto abbia un’estensione universale e indichi l’umanità in generale. Per illuminare ogni uomo il Lógos, che è luce vera (cf. Gv 1,9), diviene scintilla di luce in ogni uomo, nell’umano che è in ogni uomo. L’umanità creata a immagine di Dio porta in sé questa scintilla divina, questo seme divino (Gaudium et spes 3), memoria del Lógos in cui tutti sono stati creati e profezia di una fraternità universale. Accanto ai semina Verbi, i semi del Lógos diffusi nelle culture e religioni degli uomini (Ad gentes 11), e ancor prima e più radicalmente, troviamo le scintille del Lógos presenti in ogni singolo uomo. E che coincidono con l’umano presente nell’uomo, umano che è dono di Dio manifestato in pienezza in Cristo, il Figlio unigenito.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose