Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 19 Marzo 2023

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Guardare con il cuore

Al centro della quarta domenica di Quaresima – che nella tradizione latina prende nome di domenica Laetare, dall’incipit dell’introito della celebrazione eucaristica, Laetare Jerusalem, “Rallegrati, Gerusalemme” – vi è il tema della luce, o meglio dell’illuminazione, del passaggio dalle tenebre alla luce espresso nel vangelo dal racconto della guarigione dell’uomo cieco dalla nascita, racconto che acquista il senso di una pedagogia verso la fede in Cristo. Nella seconda lettura il tema riveste valenza battesimale ed è colto nelle sue implicazioni etiche: l’illuminazione battesimale impegna a una vita di conversione (“Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore: camminate dunque come figli della luce”: Ef 5,8). In parallelo con questo annuncio, la prima lettura presenta l’unzione regale di David da parte di Samuele: il gesto e le parole del profeta che consacrano il Messia rinviano alle parole e ai gesti di Gesù, “luce del mondo” (Gv 9,5), che dona luce a chi è nelle tenebre con gesti e parole che evocano la dinamica sacramentale. Al tempo stesso, la prima lettura è tutta giocata sul tema dello sguardo: “Ti mando da Iesse il Betlemita, perché ho visto tra i suoi figli un re” (dice Dio a Samuele in 1Sam 16,1: la Bibbia CEI traduce “mi sono scelto”). E poi c’è la differenza di sguardi tra il Signore e l’uomo. Così tutte e tre le letture pongono il problema del discernimento.

Si tratta del difficile discernimento di Samuele per scegliere colui che Dio ha eletto tra i figli di Iesse. Per discernere occorre guardare come Dio stesso guarda, nella coscienza che se “l’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore” (1Sam 16,7), o, come recita l’antica versione siriaca, “l’uomo guarda con gli occhi, il Signore guarda con il cuore”. Dove c’è un significativo passaggio da una relazione che rischia la cosificazione a una relazione autentica: si passa da ciò che viene guardato a colui che guarda e a come guarda. Dove si pone l’accento sullo sguardo di chi guarda, di chi discerne.

A volte nelle relazioni di discernimento, di accompagnamento e di formazione si sbaglia proprio mettendo l’accento sull’altro fino ad oggettivarlo e dimenticando che ciò che è fondamentale è come io guardo, è il lavoro su di me. Nella seconda lettura il discernimento è richiesto al battezzato che, nella situazione in cui è “luce nel Signore”, è chiamato a discernere ciò che è gradito a Dio (cf. Ef 5,10-11). Il brano evangelico si apre con il diverso sguardo di Gesù e dei discepoli su un cieco, e prosegue con il percorso che porta il cieco guarito a discernere la vera qualità di Gesù e a confessare la fede in lui, mentre altri protagonisti dell’episodio si chiudono a tale discernimento e restano nella cecità spirituale (cf. Gv 9,39-41).

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Il discernimento è un vedere che va molto oltre il semplice guardare: è un vedere che diviene valutazione, giudizio in vista di un’azione. Il discernimento non è dato da una particolare intelligenza di cui uno sarebbe dotato, non è dato da una penetrante capacità di analisi psicologica, e nemmeno da un’enfasi spirituale accentuata o da tanta preghiera, ma è una relazione: il discernimento avviene all’interno di una relazione che coinvolge sempre almeno tre persone o realtà:

1. colui che discerne;
2. la realtà in cui deve essere presa una certa decisione o la persona su cui deve essere espressa una determinata valutazione;
3. Dio e il suo volere, Dio e la sua parola. Il caso di Samuele dice che il discernimento implica il passaggio dal nostro naturale modo di vedere e pensare, giudicare e valutare al modo di vedere e pensare, giudicare e valutare di Dio.

E dice che anche il profeta, l’uomo di Dio, può ingannarsi e fallire il discernimento. Per discernere occorre libertà, e anzitutto e soprattutto, libertà nei confronti di se stessi, per esempio nei confronti delle proprie opinioni ritenute verità irrinunciabili, nei confronti del proprio sentire spirituale percepito come non scalfibile, nei confronti della propria sensibilità spirituale assolutizzata, nei confronti del proprio pensare che viene a urtarsi con la diversità del pensare altrui, e infine è libertà nei confronti della propria stessa persona che viene messa in crisi dall’alterità a volte straniante e sconcertante dell’altro. Insomma, nel discernere sempre la fatica è quella di una conversione da parte di colui che deve esercitare il discernimento. Sempre c’è la sua fatica di esaminarsi, di situarsi in verità davanti all’altro, perché il discernimento è di tutta la persona, e colui che discerne vi si deve impegnare con tutta la sua persona. Al tempo stesso, il discernimento si esercita sulla totalità della persona. Se la prima lettura, nella versione siriaca, dice che Dio guarda con il cuore, noi possiamo dire che il soggetto del discernimento è il cuore, cioè la totalità personale, il sé.

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Il discernimento è poi il vedere guidato dalla fede, è un vedere attento, vigile, capace di unire nello stesso tempo 1. ascolto e accoglienza della parola e della volontà di Dio; 2. visione e accoglienza dell’altro e della realtà così come si presentano, guardandosi dalle etichette e dai pregiudizi; 3. conoscenza di sé e duttilità nei confronti di se stessi. Relazione triangolare o triadica, il discernimento impegna ragione e corpo, emozioni e sentimenti, fede e intelligenza, affetti e volontà.

Limitiamo il commento alla prima scena di questo episodio (Gv 9,1-7) concentrandoci sul tema del vedere e del discernimento. Il testo pone subito il problema del modo di guardare un uomo cieco dalla nascita. Lo sguardo di Gesù e quello dei discepoli divergono. Passando, Gesù vide un uomo cieco dalla nascita. Compaiono i temi del vedere, della cecità e della nascita. Sì, anche la nascita. Simbolizzata nel lavarsi dell’uomo cieco nell’acqua della piscina dell’inviato ed espressa dall’apertura degli occhi di quell’uomo, dal suo venire alla luce, lui che sempre era stato nel buio della cecità. Nascere è venire alla luce e quest’uomo in certo modo qui rinasce. Che cosa predispone questa rinascita? Lo sguardo di Gesù. Gesù vide l’uomo cieco. Vide l’uomo anzitutto, ánthroponvidit hominem caecum anativitate. Gesù non vede un malato, ma un uomo. I discepoli non vedono un uomo, ma un caso. Essi vedono solo la cecità, non solo non vedono un uomo, ma in un certo senso nemmeno un cieco, ma solo il problema che la cecità pone loro. Non chiedono nulla a quell’uomo, non gli parlano, come almeno faranno i suoi vicini (vv. 10-12). Per loro non è nemmeno un partner di parola. Anzi parlano di lui davanti a lui (come spesso si fa con i bambini e anche con i malati): sono loro che non lo vedono.

Lo cosificano facendone un oggetto del loro discorrere. Il discernimento di Gesù inizia vedendo un uomo: non una categoria, un cieco dalla nascita; non un problema di teodicea; non una colpa (“chi ha peccato?”), ma un uomo. Il discernimento inizia quando di fronte a una persona si accetta di vedere, appunto, quella persona. Il discernimento inizia con uno sguardo non inficiato dai pregiudizi: siano quelli della teologia, della cultura, delle abitudini mentali. Il discernimento inizia con un lavoro su di sé, con un movimento di libertà e pulizia personale, di liberazione del proprio cuore da pregiudizi che impediscono di vedere la realtà. I discepoli non avranno più alcun ruolo nel racconto: scompaiono immediatamente perché non sono mai entrati in relazione con questa persona.

Lo sguardo di Gesù invece trasmette fiducia alla persona: Gesù crede in lui. E lo guarisce toccandolo e parlandogli. Lo sguardo mostra la sua dimensione spirituale profonda proprio nel suo divenire più che mai corporeo: muovendo la mano e aprendo la sua bocca, Gesù fa ciò che normalmente non si fa a un mendicante: gli parla e lo tocca. Lo sguardo di Gesù è generante. Quello dei discepoli è giudicante. Fare fiducia a una persona significa accettare di parlarle e di toccarla, e dunque di lasciarsi toccare da essa e di ascoltarla. Il discernimento non è applicazione astratta di regole a ogni persona, ma capacità di vedere in ognuna l’essere umano e accettare di essere messo in questione sul proprio modo di guardare: l’abitudine, la pigrizia degli occhi, del cuore e della mente sono ostacoli per il discernimento. Gesù vede l’umano anche là dove gli uomini vedono il peccato: essi vedono una prostituta nella donna in cui Gesù vede una creatura capace di amare (Lc 7,36-50), vedono un caso di teologia morale o di teodicea nell’uomo in cui Gesù vede un essere segnato dalla sofferenza.

Gesù vede la sofferenza di quell’uomo e si pone accanto a lui; i discepoli vedono un “caso” e si pongono su un piano di giudizio che condanna. Per loro non è un uomo, ma un colpevole. E così, essi possono evitare di farsi toccare da quella persona. Ma il discernimento richiede lo sguardo purificato dalle certezze che abitano il cuore e lo rendono pigro e insensibile. Senza uno sguardo puro si cade nella presunzione e nel giudizio che condanna l’altro. Non a caso questo sarà ciò che Gesù rimprovererà ai farisei negli ultimi versetti del racconto (vv. 39-41). Versetti che rinviano, in modo singolare, alla scena iniziale in cui sono presenti i discepoli. Senza il preliminare atto di fiducia nell’umano che è in ogni persona, non si potrà accedere al riconoscimento dell’azione di Dio nell’uomo. Non si potrà operare alcun discernimento.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose