Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 19 Giugno 2022

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Sotto la guida del corpo

L’odierna celebrazione del corpo e del sangue di Cristo può essere l’occasione di una riflessione sul corpo all’interno della fede cristiana. Il cristianesimo, infatti, forse più di ogni altra religione, ha fatto spazio al corpo, accordandogli un posto centrale all’interno della salvezza, come ben espresso dall’espressione di Tertulliano caro cardo salutis, “la carne è il cardine della salvezza”. Il cristiano è cosciente del fatto che egli non tanto “ha” un corpo, ma lo “è”, e che sua vocazione è divenirlo. Nell’antropologia cristiana il corpo è rinvio alla dinamica – teologale, spirituale ed etica al tempo stesso – del dono e della responsabilità, che è la dinamica stessa dell’immagine e della somiglianza nel testo genesiaco così basilare per l’antropologia biblica e per l’antropologia cristiana dell’homo imago Dei.

Il Dio biblico è divenuto un corpo, il corpo di Gesù di Nazaret. Con l’inaudito dell’incarnazione ormai il corpo è patrimonio comune di Dio e dell’uomo e spazio dell’incontro tra i due. Questo nucleo paradossale, che contesta ogni spiritualismo, afferma l’infinita dignità che il cristianesimo attribuisce al corpo umano, che appare il più degno luogo della presenza di Dio. Nel cristianesimo il corpo non è solo redento, ma “soggetto” della redenzione. Sul corpo si gioca la novità cristiana rispetto al mondo pagano: “Non ci accorgiamo che ci volgiamo indietro quando sentiamo dire che l’anima è immortale, ma il corpo è corruttibile e non può rivivere più? Queste cose le sentivamo anche da Pitagora e da Platone” (Pseudo-Giustino, Sulla resurrezione, II sec. d. C.). Il corpo è la cifra che da sola è capace di dare intelligibilità all’intero messaggio cristiano. Il corpo fisico in cui Gesù ha narrato Dio e praticato la sua umanità accogliendo poveri e peccatori e curando malati nel corpo e nella mente; il corpo che è la chiesa; l’eucaristia che, mediante la partecipazione alle “cose sante” attraverso l’atto corporeo di mangiare, consente la partecipazione al corpo di Cristo e costituisce i credenti in un corpo fraterno e solidale (1Cor 10,17): tutto dice la corporeità della fede cristiana. Ha scritto il teologo Adolphe Gesché: “Nel cristianesimo tutto ruota attorno al corpo. Dal Verbo che si fece carne del prologo del IV vangelo all’eucaristia; dalle guarigioni di Gesù al corpo che è la chiesa; dalla creazione alla resurrezione e all’escatologia. … Il cristianesimo sarebbe un trattato e una pratica del corpo. Dopo il Nuovo Testamento non è possibile parlare di Dio né dell’uomo né di morale né di vita eterna senza parlare ogni volta del corpo. Così, tutto si dice e avviene, per così dire, sub ductu corporis, sotto la guida del corpo”.

La stessa “logica” dei sacramenti è incarnata: la fede la si vive nel corpo, vero soggetto della vita spirituale: la preghiera, come insegnano i Salmi, è preghiera del corpo (“Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore?”: Sal 35,10), e la liturgia coinvolge i sensi nella celebrazione del mistero. La rivelazione di Dio nel corpo di Gesù di Nazaret significa anche la sua presenza nel corpo dell’altro, soprattutto di quei poveri e piccoli con cui il Risorto si è identificato e che ha dotato di autorità escatologica nei confronti della chiesa: “Ciò che avete fatto a uno solo di questi piccoli, lo avete fatto a me” (Mt 25,40). La stessa vita teologale, la vita di fede, speranza e carità, è decisamente corporea: essa chiede di credere l’incredibile: la resurrezione del corpo morto; chiede di sperare l’insperabile: la morte della morte, la morte di ciò che rende caduco il corpo; chiede di amare il corpo non amabile, il corpo sfigurato, che “non ha apparenza né bellezza” (Is 53,2), il corpo del nemico. Sì, il messaggio cristiano si può sintetizzare nell’espressione paolina: “il corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo” (1Cor 6,13).

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La pagina evangelica odierna (che, invece di “moltiplicazione dei pani” potrebbe essere intitolata più precisamente “distribuzione dei pani”: Lc 9,16) si apre annotando l’attività di Gesù che parla alle folle del Regno di Dio e guarisce i malati (9,11). Di fatto, siamo di fronte a un imprevisto: rientrati gli apostoli dalla missione, Gesù li portò con sé in un luogo in disparte, certamente per pregare e stare con loro, ma la presenza della folla che lo seguì (lui, Gesù, non i discepoli; 9, 11: “lo seguirono”), porta Gesù ad accordare il primato all’accoglienza e alla cura delle folle stesse (9,10-11). Gesù non teme gli imprevisti e non si permette di rifiutare l’incontro con la folla in base a quanto già precedentemente deciso. Sebbene anche quella scelta avrebbe potuto essere una decisione giustificata: “abbiamo già deciso”, “abbiamo già stabilito” … Se anche non è riportata nessuna reazione di malumore da parte dei discepoli a questo “cambio di programma”, tuttavia è vero che solo Gesù è impegnato con le folle, non i discepoli. I quali interverranno solamente per invitare Gesù a congedare le folle essendosi fatta l’ora tarda. I discepoli agiscono in base a buon senso e realismo, ma Gesù andrà oltre il buon senso e chiederà loro di provvedere loro stessi al nutrimento della gente.

Dunque la pericope inizia presentando Gesù impegnato a dar vita alle folle bisognose di senso e di cura: egli annuncia la parola di Dio e guarisce i sofferenti. Sono le stesse azioni che hanno compiuto i discepoli nella missione in cui sono stati inviati da Gesù: “Li mandò ad annunciare il Regno di Dio e a guarire gli infermi” (9,2). Con la scena della distribuzione dei pani dunque, Gesù mostra ai discepoli che ciò che fa lui è ciò che essi stessi sono chiamati a fare e possono fare. Ne ricevono da lui l’abilitazione. Come Gesù ha annunciato la parola e curato i malati e ne ha reso capaci i discepoli (“diede loro forza e potere su tutti i demoni e di guarire le malattie”: 9,1), ora accoglie e dà da mangiare alle folle invitando i discepoli a fare altrettanto. Gesù, con grande libertà, integra l’inatteso e ne fa occasione di vangelo. Questo devono imparare i suoi discepoli. Nel IV vangelo Gesù dirà: “Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi” (Gv 14,12).

L’attività di parola di Gesù con le folle si sta protraendo al punto che ormai “il giorno cominciava a declinare” (cf. Lc 24,29: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno è già declinato”) ed ecco che intervengono i discepoli a chiedere il rinvio delle folle. Secondo l’evangelista Luca questa è la prima volta che i discepoli prendono l’iniziativa e si rivolgono a Gesù (9,12). La risposta di Gesù può sorprendere ma in filigrana vi si riconosce il rimando a un episodio riguardante il profeta Eliseo: “Da Baal-Salisà venne un uomo che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: ‘Dallo da mangiare alla gente’. Ma il suo servitore disse: ‘Come posso mettere questo davanti a cento persone?’. Egli replicò: ‘Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: ‘Ne mangeranno e ne faranno avanzare’. Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore” (2Re 4,42-44). Gesù non tiene conto dell’obiezione dei discepoli che fa leva sulla sproporzione tra il poco cibo a disposizione e la quantità enorme di persone da sfamare (9,13) e dà perfino indicazioni su come far sedere i “circa cinquemila uomini” (9,14).

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È possibile che il riferimento ai gruppi di cinquanta persone circa in cui Gesù suddivide i presenti, sia un rimando a quello che doveva essere il numero medio dei partecipanti al banchetto eucaristico nelle chiese locali. Di certo, la prassi eucaristica ha influenzato la narrazione del gesto di Gesù che prese i pani, alzò gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede per la distribuzione a tutti (9,16). Il dialogo tra discepoli e Gesù è eloquente anche per noi e interpella in profondità l’agire ecclesiale. Quel “date loro voi stessi da mangiare” non può essere ridotto ad appello alla generosità né compreso come esortazione a mutare un sistema economico sociale fondato sulla proprietà privata in un regime basato sulla condivisione e nemmeno inteso come invito a un’efficiente e adeguata organizzazione assistenziale della carità. Quel comando contesta l’indifferenza e il disimpegno verso l’altro nel bisogno (“Congeda la folla perché vada nei villaggi per alloggiare e trovar cibo”: Lc 9,12) e suscita l’obiezione dei discepoli che vedono la loro povertà come impedimento ad assolverlo (“Non abbiamo che cinque pani e due pesci”: Lc 9,13). Il comando evangelico urta, ieri come oggi, contro i parametri di buon senso, razionalità, efficienza che pervadono anche la chiesa. Paradossalmente, proprio la povertà che i discepoli vedono come ostacolo, è per Gesù lo spazio necessario del dono e l’elemento indispensabile affinché quel “dar da mangiare” non sia solo dispiegamento di efficienza umana, ma segno della potenza, della benedizione e della misericordia di Dio e luogo di instaurazione di fraternità e di comunione.

Non a caso l’esito è sovrabbondanza, la sazietà di tutti: “Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste” (9,17). E questa eccedenza è segno del dono di Dio, della sua presenza, della sua benedizione, dell’agire messianico.

A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose