Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 19 Dicembre 2021

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Nel corpo di una donna

La IV domenica di Avvento dell’annata C presenta come vangelo il testo della cosiddetta “visitazione”, l’incontro di Maria ed Elisabetta narrato solo nel terzo vangelo. Mentre ormai ci si avvicina alla celebrazione del Natale, questo brano evangelico ci ricorda che il mistero dell’incarnazione non è riducibile all’evento puntuale della nascita. Come ogni uomo, Gesù è portato nel seno di una donna, abita per nove mesi nel grembo di Maria e tale grembo è sua casa, suo cibo, sua vita. Il venire al mondo è anzitutto l’esserci nel corpo di un altro: per Gesù (come per ogni umano) il corpo di una donna è il suo primo mondo. Noi avveniamo nel corpo di una donna.

Facendo immediatamente seguito al brano dell’”Annunciazione” (Lc 1,26-38), il vangelo odierno ci dice che è proprio il sì di Maria all’annuncio dell’angelo (Lc 1,36), il suo radicale atto di obbedienza che dà forma al suo futuro. Se ora si mette in viaggio per andare a trovare Elisabetta, l’anziana partente incinta, è proprio a partire dalle parole che le sono state rivolte, a cui lei ha aderito e che le parlavano anche della sua parente sterile ma divenuta feconda, Elisabetta: “Ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio” (Lc 1,36-37). Andando da Elisabetta è come se Maria volesse incontrarsi con se stessa incontrando l’altra donna, volesse guardarsi allo specchio guardando Elisabetta, tanta è l’analogia – pur nelle differenze – tra le due donne e le due vicende. Là una sterile divenuta feconda, qui una vergine che non ha relazioni con uomo e a cui viene annunciato un figlio. Non a caso Maria parte da sola. Nessuna menzione di Giuseppe, a differenza delle tradizioni presenti nel vangelo secondo Matteo, dove il viaggio di Maria in Egitto è sempre insieme a Giuseppe (Mt 2,13-23). Ciò che la muove e ciò a cui va incontro riguarda lei nel più intimo della sua interiorità, della sua persona. Il silenzio e la solitudine sono i sigilli di questa avventura interiore. L’obbediente Maria non può che restare nel silenzio e nella solitudine dopo ciò che è avvenuto in lei. Non può che custodire nel segreto il mistero che l’ha investita, ma ha anche bisogno di conferme. E il testo dice che Maria parte in fretta (Lc 1,39): ciò che la muove ormai è un’urgenza, un bisogno impellente, più suo che di Elisabetta stessa.

Non a caso, giunta da Elisabetta, Maria è accolta dalle parole della parente che occupano i vv. 42-45 del testo: sono molte parole, parole solenni, parole ispirate. Maria invece si limita al saluto e poi rimane nel silenzio. Soltanto più tardi pronuncia il canto del ringraziamento, della lode a Dio, il Magnificat, solo dopo che l’incontro con Elisabetta l’ha confermata nell’evento di grazia di cui è stata beneficiata. Elisabetta infatti non saluta la parente Maria, ma la madre del Signore, non solo proclama benedetta Maria tra le donne, ma la proclama beata a motivo delle parole che il Signore le ha rivolto e della fede che lei ha prestato a tali parole. Non accoglie la parente, ma la credente. Elisabetta vede la donna trasformata dalla grazia di Dio (cf. Lc 1,28). Lo sguardo di Elisabetta e le sue parole vedono Maria nel mistero della sua vocazione. L’obbedienza di Maria ha rimodellato la sua identità. Come ha riplasmato il suo corpo rendendolo accogliente di una vita, la vita del Messia, così la sua identità ormai è decisa e trasformata dal suo atto di obbedienza alla parola di Dio. Maria ormai è la credente, colei che ha creduto e che permane nel suo credere, che persevera nella fede, come apparirà dal Magnificat. Il sì dell’obbedienza impegna in una storia, e la fatica dell’obbedienza e della fede sarà la fedeltà, la perseveranza.

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Al tempo stesso, l’incontro con Elisabetta ha effetti decisivi anche per la moglie di Zaccaria. Lei era rimasta nascosta cinque mesi, dice Lc 1,24, dopo che, in età ormai avanzata, lei “la sterile” aveva conosciuto l’incontro fecondo con il marito. Ed era rimasta nascosta dopo che il Signore si era degnato di togliere la sua vergogna fra gli uomini (cf. Lc 1,25). Ci si chiede perché tenersi nascosta se la vergogna della sterilità è stata tolta. È la vergogna che induce gli umani a nascondersi, a celarsi, a voler sparire, a voler sprofondare, a non voler essere visti, a perdere la faccia. O forse la condizione di anziana incinta è motivo di nuova, inedita vergogna? Ebbene, la visita di Maria sembra far uscire davvero Elisabetta dall’isolamento e dal nascondimento se non vergognoso almeno imbarazzato. Ed Elisabetta trova la forza di esultare di gioia, di esclamare a gran voce, di discernere con giubilo la qualità di ciò che è avvenuto in Maria. E anche per lei la venuta di Maria è motivo di liberazione, di conferma, di esultanza. Anche Elisabetta rinasce, colmata come si ritrova, di Spirito santo e istruita dal suo stesso figlio che sussulta di gioia nel suo ventre all’udire le parole di Maria. Anche Elisabetta ormai fa parte delle generazioni di credenti che chiameranno “beata” Maria nei secoli a venire (cf. 1,46), anche la sua identità è ormai mutata dall’evento che si è compiuto in lei.

Questo incontro così vitale per l’una come per l’altra, porta entrambe le donne a riconoscere l’altra senza gelosia e rivalità. Fra simili è facile il paragone, la conflittualità, la rivalità, l’invidia, anzi, questa si manifesta soltanto tra persone che sono legate da prossimità di qualche tipo. Niente di tutto questo tra le due donne. Anzi, il loro incontro è una pentecoste, è gioia, è esplosione di vita. Anzi abbiamo qui la celebrazione del riconoscimento l’una dell’altra e dell’accoglienza reciproca: Elisabetta riconosce in Maria colei che ha accolto la Parola di Dio credendo al suo compimento (v. 45); Maria canta Dio come Colui che l’ha accolta nella sua piccolezza rivolgendole uno sguardo di amore e di elezione (v. 48); nella visitazione, Maria ed Elisabetta si accolgono reciprocamente riconoscendo ciascuna l’azione che Dio ha compiuto nell’altra: la sterile è rimasta incinta e la vergine ha concepito per opera dello Spirito santo. E dietro all’anziana Elisabetta resa feconda vi è anche l’accoglienza delle preghiere di Zaccaria, suo marito, da parte di Dio (cf. Lc 1,13). Il mistero della fecondità è un mistero di accoglienza.

Elisabetta proclama “beata colei che ha creduto che ci sarà compimento (éstai teleíosis) alle parole rivolte a lei dal Signore” (Lc 1,45). Credere è far fiducia, far fiducia che quanto detto sarà compiuto, si realizzerà, diverrà realtà. Aver fede è credere che la promessa si farà carne, realtà, storia, vita. E solo così la promessa può vivere, e suscitare ancora speranza, forza, futuro. La non fede, il non credere al compimento della promessa comporta l’estinguere la forza e la vitalità della parola stessa del Signore. Maria ha ricevuto una promessa che riguarda il suo futuro, ma anche il suo presente, la sua vocazione e la sua missione. Suo compito non è discutere tale promessa, ma credervi. E la fede rende vera la promessa, le dà carne. Così Maria è la stupita spettatrice del miracolo che avviene in lei. L’obbedienza è sempre incarnazione.

Il testo evangelico suggerisce anche che la vita che Maria ha accolto nel proprio grembo diviene inabitazione di Cristo in lei. Questo mistero di maternità ha una valenza spirituale. La preparazione della via del Signore, così importante in Avvento, si declina come preparazione del proprio corpo e del proprio cuore all’inabitazione del Signore grazie all’ascolto della Parola di Dio. Maria è figura del credente che genera in sé il Cristo grazie all’ascolto di tale Parola. Agostino ha potuto scrivere che Maria concepì il Figlio di Dio “nello spirito prima che nel corpo” (Discorso 215,1). E Gesù dirà: “Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21).

Maria appare anche figura di colei che, nel suo viaggio verso Elisabetta, porta il Cristo. Come ogni donna incinta vede riplasmato il proprio corpo dalla presenza di una creatura nel proprio ventre, così la presenza di Cristo riplasma e ri-forma la chiesa che se ne fa testimone, sacramento e narrazione nella propria vita. Il viaggio di Maria appare così con una valenza evangelizzatrice e missionaria.

L’incontro tra le due donne è contrassegnato dal saluto. Esperienza universale, quotidiana e, proprio per questo, spesso banalizzata. Eppure il saluto è legato all’epifania del volto dell’altro ed è già benedizione, augurio di pace (shalom), invito alla gioia (chaîre, “rallegrati”), manifestazione di gioia per l’apparire dell’altro. Recuperare il senso del saluto è un elemento importante della necessaria riscrittura della grammatica delle relazioni quotidiane.

L’incontro delle due madri è anche profezia dell’incontro che avverrà tra i due figli: Giovanni il Battista e Gesù. Attraverso le madri che comunicano tra di loro ma anche con i figli che portano in grembo (Elisabetta sente che il suo bambino ha esultato di gioia al saluto di Maria) già si prepara il terreno a quell’incontro così denso che legherà il Precursore al Veniente. E sia in Giovanni che in Gesù, una volta adulti, si potranno riconoscere le tracce dell’incontro che le due madri fecero un tempo. Perché il passato non è mai solo dietro, ma sempre anche dentro di noi.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose