Un riposo compassionevole
La pericope evangelica odierna inizia annotando il rientro dei Dodici dalla missione. Il loro invio era stato narrato in Mc 6,7-13 e l’evangelista aveva registrato il successo della loro azione missionaria (Mc 6,12-13). Ora, dopo che il racconto si è soffermato sull’arresto e l’esecuzione di Giovanni Battista (Mc 6,14-29), Marco riprende il filo narrativo interrotto e, chiamando “apostoli”, cioè “inviati”, i Dodici, narra il loro ritorno da Gesù (Mc 6,30). Da Gesù sono stati inviati, a Gesù ritornano. Del resto, essi sono stati costituiti per predicare, ma anche, e anzitutto, per “stare con Gesù” (Mc 3,14). E a Gesù raccontano tutto ciò che hanno fatto e insegnato. L’espressione “fare e insegnare” abbraccia sinteticamente tutta l’attività di Gesù (cf. At 1,1) che i suoi inviati sono chiamati a loro volta a compiere in mezzo agli uomini. Ma ciò che è interessante è il racconto che, della missione, essi fanno a Gesù. Gesù appare qui quale pastore della sua piccola comunità, dei suoi discepoli. E loro, come gregge che si ritrova e riunisce, si raccolgono attorno a lui e gli riferiscono ciò che hanno compiuto. Gesù fa l’unità della comunità e raccoglie i suoi ascoltando anche i racconti dei loro vissuti, delle loro esperienze nella missione. La missione non può consistere solo in un andare per “fare e insegnare”, ma ha bisogno anche di essere ridetta, narrata e ascoltata. Così i vissuti pastorali ed esistenziali dei discepoli trovano un’occasione di consolazione e di correzione, di conferma e di rettifica da parte del Maestro a cui essi si rivolgono, ma anche di più profonda interiorizzazione e comprensione del loro stesso operato. Insomma, Marco ci mostra che i discepoli sono accolti e ascoltati da colui che li ha inviati e che si mostra interessato non semplicemente al compimento della missione, ma anzitutto alla loro persona. Gesù, buon pastore che conosce per nome le sue pecore, si mostra più attento ai missionari, infatti, che alla missione e al suo eventuale successo. Nessun funzionalismo in Gesù. E mentre ascolta i racconti degli apostoli, egli sente anche la loro fatica e il loro bisogno di riposo. E li invita ad andare con lui in disparte per riposarsi un po’: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’” (Mc 6,31).
Anche qui, Gesù invita i discepoli a fare ciò che lui stesso vive e di cui fa esperienza. Se Gesù parla alle folle e trascorre molte giornate in predicazione, se incontra persone donando loro tempo, ascolto e presenza, se cura molti malati spendendo energie e forze psicofisiche, egli ha pure bisogno di ritiro, di solitudine, di riposo, di starsene in luoghi solitari e deserti (Mc 1,35.45; 6,46;9,2). Ha bisogno di tempi di gratuità, non solo impegnati nello spendersi per gli altri. Alla faticosa missione deve accompagnarsi il necessario riposo. Del resto, il testo evangelico annota che il piccolo gruppo dei discepoli di Gesù era oberato da ritmi troppo intensi. È impressionante notare come – stando almeno a questo testo di Marco (che manca infatti negli altri sinottici) – già i discepoli di Gesù pativano una sorta di tirannia delle attività e del non avere tempo: “Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano più neanche il tempo di mangiare” (Mc 6,31). Gesù, buon pastore, dà ai suoi inviati il diritto e il permesso di riposarsi e dunque consegna loro la responsabilità di darsi tempo, di fermarsi, di abitare il silenzio e la solitudine, di sostare per “essere” e di non alienarsi nel “fare” negligendo i bisogni elementari e basilari della loro vita. Il riposo è tempo di pausa che dona nuova lucidità, che rinnova le motivazioni del vivere e della vocazione. Potremmo dire che è parte esso stesso dell’azione pastorale, così come il riposo e la cessazione dell’attività sono parte costitutiva dell’azione creazionale di Dio (Gen 1,1-2,4a). Si potrebbe aprire qui una riflessione critica sulla evangelicità della forma di certa attività pastorale oggi alienata nel momento attivo-organizzativo. Recuperare il senso dell’otium come attività interiore e spirituale, e dunque come fondamento spirituale dell’agire, esercitarsi allo stupore e al rendimento di grazie, imparare un rapporto amicale con il tempo, questi sono tutti elementi che donano equilibrio umano alla persona e dunque anche fecondità al suo agire e lucidità al suo pensare. Vale per tutti, non solo per i monaci a cui era rivolta originariamente, ma per chiunque sia impegnato nell’attività missionaria, evangelizzatrice, pastorale, quanto scritto a suo tempo da Giovanni Cassiano: “Capita spesso, non dico ai novizi e ai deboli, ma anche a chi ha grandissima esperienza e ha ormai raggiunto la perfezione, che se la tensione della mente sempre occupata in cose serie non è alleviata da qualche occasione di svago, rischia di trasformarsi in tepore spirituale o almeno di procurare qualche grave danno alla salute del corpo” (Conferenze XXIV,19-20).
L’invito di Gesù viene realizzato: “Andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte” (Mc 6,32). Ma il narratore aggiunge che “molti li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero” (Mc 6,33). Cosicché il lettore non è stupito quando, sbarcato, Gesù – egli infatti era partito insieme ai discepoli per trovare un po’ di riposo pure lui –, si rende conto che il luogo in cui si è recato non è per niente in disparte, ma anzi è più che mai popolato. Il lettore, preparato dall’abile narrazione marciana, si chiede: “Come reagirà Gesù?”. E la risposta è presto data: vista la numerosa folla “ne provò compassione perché erano come pecore senza pastore” (Mc 6,34). Dietro a quel provare compassione vi è il comprendere la sete profonda di istruzione, di parola di Dio, di vangelo che ha spinto quelle persone a precedere a piedi sull’altra riva l’imbarcazione con Gesù e i discepoli. Vi è l’essere colpito dalla ricerca che essi fanno di lui, vi è dunque la sollecitazione della sua responsabilità. Vi è anche lo sguardo che vede queste folle come orfane, come pecore senza pastore. Nell’Antico Testamento questa espressione ricorre quasi come un ritornello per indicare un popolo allo sbando per mancanza di capi o a causa di cattivi dirigenti (Nm 27,17; 1Re 22,17; 2Cr 18,16; Gdt 11,19). Possiamo però pensare che ci sia un riferimento al fatto che Giovanni Battista ormai è morto e Gesù sente di dover continuare il suo ministero perché le folle che accorrevano da Giovanni (Mc 1,5) non si trovino abbandonate. Il momento critico viene così colto non come problema ma come occasione. Il progetto di riposo viene accantonato per andare incontro al bisogno delle folle. Ma non è certo un’etica del dovere che porta Gesù a questa scelta, bensì la compassione, lo spaccarsi delle viscere al vedere i volti delle persone che lo attendono. La loro attesa, il loro desiderio diviene per lui appello alla responsabilità. Così, senza lamentarsi, senza recriminare, senza imprecare, senza incattivirsi contro la gente e le sue pretese, Gesù accetta liberamente di servirle. Per il momento, in attesa di altri momenti in cui potrà riposare con i discepoli in luoghi deserti, il suo riposo lo volge in servizio alle folle.
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Dunque Gesù prova compassione per le folle. E come diretta conseguenza della sua compassione, egli “si mise a insegnare loro molte cose” (Mc 6,34). Fondamento dell’azione pastorale di Gesù è la compassione. Come aveva visto il bisogno di riposo dei suoi discepoli, ora Gesù vede il bisogno di senso delle folle e non le respinge, non le manda via, quasi che fossero un ostacolo a ciò che egli stesso aveva progettato. Gesù vede, sente, la fame che hanno di parola di Dio e cambia programma immediatamente iniziando a predicare e ad annunciare la parola. Da possibile fastidio che impedisce il riposo previsto, le folle diventano magistero per Gesù, proprio nel loro bisogno, nella loro povertà, nella loro genuina sete di parola di Dio. Gesù accetta di mutare il proprio progetto, di lasciarsi scomodare e si impegna nella faticosa predicazione. Ma soprattutto, ciò che questo testo rivela è che la base della predicazione e dell’insegnamento evangelico non può che essere la compassione. Altrimenti anche questa attività si muterà in esercizio accademico o in vuota retorica o in dimostrazione di potere. E si troverà svuotata di forza interiore, di capacità di conversione, ma anche, semplicemente, di forza comunicativa. Una parola che sgorga dalla compassione, dal sentire in se stessi l’unicità dell’altro, dal patire in se stessi, in qualche misura, la sua sofferenza e il suo bisogno, suona autentica, non fasulla, non retorica. Perché la compassione realizza l’incontro con l’altro a un livello profondo, stabilisce con lui un ponte invisibile eppure concretissimo, tanto che lo si “sente” con percezione infallibile e può divenire linea direttrice dell’esistenza umana. Non si tratta infatti di commiserazione, e nemmeno di vago sentimento di pietà di fronte al soffrire di un altro, ma di una pietas piena di forza creatrice, “che sa bene ciò che vuole ed è decisa a perseverare fino all’estremo limite delle forze umane” (Stefen Zweig). E questo nella libertà. Come frutto di una decisione presa nel profondo del cuore e perseguita con determinazione e con amore.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del: Monastero di Bose