Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 18 Aprile 2021

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La presenza del Signore

Nella terza domenica del tempo pasquale noi contempliamo l’apparizione del Risorto ai discepoli riuniti a Gerusalemme, contempliamo il suo farsi presente in mezzo a loro per donare loro la sua pace. Quella pace che nasce solo dalla coscienza della sua presenza. Credere il Risorto è crederne ed esperimentarne la presenza. Sì, questa è la fede cristiana, questa è la fede pasquale: credere la presenza del Signore.

Il testo evangelico si apre riportando la conclusione dell’episodio dei due discepoli di Emmaus che, incontrato Gesù e riconosciutolo come Risorto dopo che aveva spezzato il pane e spiegato le Scritture, ritornano a Gerusalemme dove trovano riuniti “i Dodici e gli altri che erano con loro” (Lc 24,33) che annunciavano il Cristo risorto. Luca suggerisce che è la comunità il luogo dove si conosce e celebra la resurrezione, ma se i due di Emmaus sono solo destinatari e ascoltatori di questo annuncio (“Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”: Lc 24,34), essi possono riunirsi attivamente al gruppo mediante il racconto di ciò che hanno vissuto: “Essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come lo avevano riconosciuto nello spezzare il pane” (Lc 24,35).

Questo è il versetto con cui inizia la pericope odierna. La fede pasquale è annunciata con il kerygma, ma anche narrata con la diéghesis: annuncio e racconto, kerygma e diéghesis sono le due forme con cui il credente dà ragione del suo incontro con il Risorto e lo incontra realmente. Anche lo smarrimento, la de-vocazione, la confusione in cui sono caduti i due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), anche la loro perdita di speranza, la loro disillusione vengono ora recuperati mediante la narrazione che ha al suo cuore ciò che è accaduto lungo la via, ovvero la venuta inopinata ma realissima del Signore. Ed è proprio mentre i due discepoli stanno narrando la loro vicenda che Gesù in persona stette in mezzo a loro. Il Cristo si fa presente nell’annuncio ma anche nel racconto. Quasi a dire una valenza sacramentale della narrazione, capace di rendere presente il Signore stesso e di rendere partecipi dell’evento narrato coloro che ascoltano la narrazione.

Eppure, tutti quanti i presenti non accedono alla fede nel Risorto. Tanto coloro che già annunciavano la resurrezione tanto quelli che l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane non credono alla sua presenza. Come ogni comunità cristiana, anche quella dei Dodici unisce proclamazione di fede e dubbio, gioia pasquale e non fede. Addirittura Luca scrive che “per la gioia non credevano” (Lc 24,41). Non basta neppure che Gesù sia visto, ascoltato, toccato e che mangi davanti a loro perché i discepoli giungano alla fede: occorrerà ancora l’apertura della loro mente all’intelligenza delle Scritture. Senza le Scritture non si dà fede pasquale. Non è sufficiente toccare il corpo del Risorto: Cristo deve essere incontrato nel corpo scritturistico e allora nasce la fede pasquale che lo confessa quale realizzatore del disegno di salvezza del Padre. Scrive Ugo di san Vittore: “La parola di Dio rivestita di carne umana è apparsa una sola volta in modo visibile e ora questa medesima Parola viene a noi nascosta nella pagina scritturistica e nella voce umana che la proclama”. Ed ecco che ancora una volta Gesù condivide con i suoi discepoli il cibo e poi apre la loro mente alla comprensione delle Scritture svegliando anche la loro memoria: “Sono queste le parole che vi dissi quando ancora ero con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me

nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24,44). L’intero ultimo capitolo del terzo vangelo è centrato sull’affermazione dell’importanza centrale delle Scritture per accedere alla fede pasquale. Occorre ricordare le Scritture (Lc 24,6.8), credere alle Scritture (Lc 24,25), comprendere le Scritture (Lc 24,45).

Se poi le Scritture si sintetizzano nel mistero pasquale e tale mistero è il compimento delle Scritture, in verità anche la missione e la predicazione della chiesa sono vitalmente innestate nella testimonianza delle Scritture, nel Primo Testamento: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme” (Lc 24,46-47). Fondata sull’evento pasquale, la chiesa trova nelle Scritture, nell’Antico Testamento, la testimonianza e la profezia di quell’evento e anche del suo stesso essere. “Di questo voi siete testimoni”: di questo e non di altro, si potrebbe aggiungere. Gesù afferma che il compimento delle Scritture è il suo corpo crocifisso e risorto. E così, sia la sua parola che il suo corpo indicano al credente la via dell’intelligenza al mistero pasquale di Cristo. L’apertura che Gesù attua è apertura della mente (Lc 24,45), del cuore (At 16,14), degli occhi (Lc 24,31) perché il mistero pasquale è mistero dell’amore che vince la morte e conduce l’uomo ad amare con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze, con tutta la propria persona. La Scrittura illumina il corpo di Cristo e questo illumina il corpo del credente e della comunità cristiana rendendoli capaci di amore. Quell’amore che si manifesta come coraggio di conversione, di cambiamento e come accoglienza della remissione dei peccati e perdono reciproco. Di questo voi siete testimoni: la parola è rivolta a noi. È il nostro compito. Ma essere testimoni del Risorto significa anche essere testimoni delle Scritture. Il termine mártys (testimone) proviene da una radice che significa “pensare”, “ricordarsi”, “essere preoccupato”. Il testimone è anzitutto colui che medita e ricorda la Scrittura che parla di Cristo (“le cose scritte su di me nella Legge…”: Lc 24,44). Da lì nasce la missione come connotata da richiesta di conversione e annuncio della misericordia di Dio e della remissione dei peccati (cf. Lc 24,47). Ma si tratta di una testimonianza che la chiesa può dare solo se animata da “quello che il Padre mio ha promesso” (Lc 24,49), cioè lo Spirito santo. È una testimonianza il cui soggetto è lo Spirito santo attraverso e nella chiesa. Così la Scrittura e lo Spirito santo, nella loro reciprocità, radicano la chiesa nell’evento pasquale e ne vivificano la testimonianza e l’annuncio rinnovandolo sempre nella storia e nel tempo.

Ma forse il testo evangelico ci suggerisce anche altro. Il Risorto che si fa presente in mezzo ai discepoli non si fa riconoscere dal volto, ma dalle mani e dai piedi, cioè dagli arti trafitti nella crocifissione. Gli arti che portano i segni dei chiodi. Il Risorto mostra la carne umana ferita, che è stata oggetto di violenza e di ingiustizia. Questo è ciò che l’incarnazione ha dato a Dio: l’umana esperienza della sofferenza, dell’essere vittima, della morte. In Cristo, Dio ha fatto esperienza dell’uomo nella sofferenza fino alla morte e alla morte di croce. Ormai il Cristo va toccato, va cercato a tastoni nella carne umana posta sotto il segno molteplice e multiforme del male, della sofferenza, dell’essere vittima. Il volto del risorto va ormai riconosciuto nei volti dei tanti poveri, oppressi, perseguitati, sofferenti e vittime della storia. Ecco quando il Cristo non è più uno spirito (“Un fantasma – lett. spirito, pneûma, spiritus – non ha carne e ossa, come vedete che io ho”: Lc 24,39), quando il cristianesimo non è un’alienazione, una fuga spiritualistica, proprio quando prende sul serio e assume il dolore del mondo, il male dell’uomo, la sofferenza, l’ingiustizia che attraversa la storia e devasta le vite. Ma proprio allora il credente scopre che la sua ricerca è anch’essa a tastoni, come quella del non-credente, come quella delle genti che “cercano Dio a tastoni”. Al paradosso del Crocifisso-Risorto che ha arricchito la vita di Dio con la povertà, la sofferenza, le piaghe dell’uomo, deve rispondere il paradosso del cristiano che fa esperienza di Dio nell’incontro con il sofferente, nel volto del disperato, della vittima dell’ingiustizia. Ecco il paradosso che il vangelo odierno chiede al credente: confessare il Risorto, credere il Dio che salva, il Dio della vita, mentre vediamo e tocchiamo la carne sofferente, piagata e umiliata dell’uomo. Anche la fede, a quel punto, è ricerca a tastoni, e l’esperienza pasquale non è luce abbagliante che sconfigge le tenebre, ma spiraglio luminoso in un continuum di oscurità, è esperienza di tenebra che non riesce a sconfiggere la luce, è alternanza di luce e tenebra. A quel punto, la fede è domanda più

che risposta, non è arrogante certezza, ma ricerca umile, segnata dall’enigma, traversata da un perché insolubile, eco del perché? rivolto a Dio dal Crocifisso. E proprio quando si prendono sul serio e si pongono al centro della propria vita non le preoccupazioni per sé, ma le sofferenze di Dio nel mondo, può nascere anche la testimonianza cristiana. La paradossale testimonianza del Risorto il cui corpo è piagato e ferito. Il corpo del Risorto può essere incontrato nei corpi dei sofferenti che sono accanto a noi. È il sano materialismo cristiano.

A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose