Nostri desideri e promesse di Dio
Gesù sta salendo verso Gerusalemme e il clima che abita in coloro che lo seguono e accompagnano è di sgomento e paura (Mc 10,32). Gesù prende in disparte di Dodici e ripete per la terza volta che il suo destino prossimo comporta sofferenza, violenza subita, morte e resurrezione dopo tre giorni (Mc 10,32-34). Questo terzo annuncio, a differenza dei primi due (Mc 8,31; 9,31), è molto più drammatico e impressionante: Gesù specifica che egli sarà “condannato a morte”, “consegnato ai pagani”, “deriso”, “sputacchiato”, “flagellato”, prima di essere “ucciso” (Mc 10,33-34). Alla luce di tutto questo, l’episodio immediatamente successivo in cui i due fratelli Giacomo e Giovanni gli si avvicinano avanzando la pretesa di godere di posti di onore nella sua gloria, sembra mostrare una sorta di rimozione, un non ascolto totale, una assoluta non ricezione delle parole di Gesù. Tra Gesù e chi lo segue, o almeno Giovanni e Giacomo, si è scavato un abisso: è come se vi fosse una impermeabilità alle parole di Gesù, quasi una impossibilità di accogliere quanto Gesù dice e trarne le conseguenze. Dalla domanda dei due fratelli emerge che essi hanno resecato dal loro ascolto di Gesù tutto quanto riguarda sofferenza e dolore e hanno trattenuto soltanto, ma incompreso e distorto nel suo significato, l’aspetto della gloria (cf. Mc 8,38). Di fatto, Giacomo e Giovanni interpretano la gloria di cui Gesù ha parlato come glorificazione della loro persona. E non integrano assolutamente la dimensione della morte come preludio alla resurrezione. Colpisce anche l’atteggiamento intraprendente, energico, deciso, dei due discepoli. Frutto di una dimestichezza con Gesù che data fin dagli inizi (Mc 1,19-20)? Di certo, espressione di un carattere impetuoso e irruento, intransigente e rigorista che meritò loro il soprannome di “figli del tuono” (Mc 3,17). Carattere di cui i vangeli ci conservano diverse testimonianze: Mc 10,38; Lc 9,54.
La loro domanda, poi (“Noi vogliamo che tu ci faccia ciò che ti chiederemo”), esprime la distorsione più frequente della preghiera cristiana: se la preghiera, come appare dal Padre nostro, dispone il discepolo a fare la volontà del Signore (“sia fatta la tua volontà”: Mt 6,10), la domanda dei due discepoli va nel senso contrario: si chiede che Dio faccia ciò che noi vogliamo. La preghiera allora non è più dialogo tra due libertà, ma imposizione umana a un Dio che non è più il Signore, ma colui che deve soddisfare i nostri bisogni. Non è più il Signore, ma un idolo. Occorre che il cristiano impari a domandare, perché la domanda esaudita è quella che chiede “nel nome del Signore”. Ha scritto magnificamente Dietrich Bonhoeffer: “Tutto ciò che dobbiamo chiedere a Dio e dobbiamo attendere da lui si trova in Gesù Cristo. Occorre cercare di introdurci nella vita, nelle parole, negli atti, nelle sofferenze, nella morte di Gesù, per riconoscere ciò che Dio ha promesso e realizza sempre per noi. Dio infatti non realizza tutti i nostri desideri, ma realizza le sue promesse”. L’esaudimento della preghiera è nella nostra umanità resa più simile all’umanità di Gesù di Nazaret.
Con la loro incosciente richiesta, i due figli di Zebedeo non dimostrano solo la loro incomprensione delle parole che Gesù ha appena pronunciato sul suo futuro di sofferenza e morte ma rivelano anche di vivere la comunità come finalizzata alla loro personale riuscita: essi devono ancora operare il passaggio da “la comunità per me” (“per noi”: Mc 10,35) a “io per la comunità”. Devono ancora operare il passaggio dallo stadio infantile e autocentrato in cui gli altri sono visti solamente in riferimento a sé, allo stadio adulto in cui la comunità e gli altri sono fratelli e sorelle al cui servizio porsi con libertà. Sono nella fase immatura di chi si serve dalla comunità invece di servire la comunità. E devono ancora imparare che non la comunità in quanto tale può essere il fine cui tendono, ma il Regno che va oltre la comunità stessa. La scorretta o parziale comprensione di Cristo diviene distorsione ecclesiologica. La dimensione fraterna può essere vissuta solo quando la comunità e la chiesa sono poste nel loro orizzonte escatologico.
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Il modo con cui i due si rivolgono a Gesù fa intuire una richiesta audace, perfino temeraria. In Matteo questa richiesta è rivolta a Gesù dalla madre di Giacomo e Giovanni essendo loro presenti (Mt 20,20)! A suggerire forse un rapporto famigliare non risolto che rende problematico l’abbandono e il radicamento in una realtà comunitaria che è attraversata da dinamiche altre rispetto a quelle domestiche e famigliari. Ecco dunque che Gesù risponderà ai due fratelli: “Voi non sapete quello che chiedete” (Mc 10,38). Il richiamo di Gesù alla coppa da bere e all’immersione da ricevere (“Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?”: Mc 10,38), cioè alla morte cruenta che lo attende, corregge la comprensione che essi hanno di lui, ma i due sembrano ancora nell’incoscienza quando rispondono che essi possono certamente fare ciò che Gesù sta loro chiedendo: in realtà non hanno la benché minima idea di ciò che Gesù sta loro prospettando, ovvero la partecipazione al destino di sofferenza che sarà anche il suo e che essi hanno appena rigettato.
È tuttavia interessante che Gesù abbia consentito ai due di esprimere il loro desiderio, sia entrato anche nella loro incomprensione ben sapendo il differente significato accordato da lui e da loro alle medesime parole (“Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati “: Mc 10,39), anche se poi tale desiderio dei discepoli dovrà trovare una radicale reinterpretazione nella realtà. Gesù poi riconosce che ci sono cose che spettano a Dio e non a lui e che lui non può promettere ciò che non è in suo potere di donare (Mc 10,40). Ma con quelle parole Gesù va anche oltre i due discepoli e ricorda che la chiesa vive del suo innesto nella morte vivificante di Cristo grazie al battesimo e all’eucaristia. Innesto che le conferisce una forma altra rispetto alle istituzioni mondane: non il potere, ma il servizio è la sua logica interna. Da Gesù Servo (“Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire”: Mc 10,45) nasce una chiesa serva.
La centralità dell’eucaristia come formante la chiesa va esattamente in questo senso: l’eucaristia tende a plasmare dei servi del Signore, ben più e ben prima che delle persone che “fanno dei servizi”. Del resto le tradizioni neotestamentarie sulla Cena del Signore, rappresentano l’istituzione eucaristica come profondamente influenzata dalla figura veterotestamentaria del “Servo del Signore” (l’‘ebed ‘Adonaj di cui ci parlano i cosiddetti Canti del Servo presenti nel Deutero-Isaia). Ed è a tale figura che si riferiscono le parole di Gesù che attestano che il Figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la sua vita in riscatto per molti (cf. Mc 10,45; Is 53,10-12).
La narrazione evangelica prosegue rilevando che l’iniziativa dei due fratelli ha suscitato un conflitto all’interno della comunità: “gli altri dieci si sdegnarono con loro” (Mc 10,41). Concorrenzialità, gelosie e rivalità sono presenti nel gruppo dei Dodici, tanto che Gesù li convoca e li istruisce sulla logica che deve abitare le comunità cristiane, opposta a quella che vige nei poteri di questo mondo. Gesù discerne immediatamente che la pretesa di posti privilegiati da parte di due discepoli e anche la reazione degli altri dieci che si sentono feriti dalle loro pretese, rivela una situazione mondana inaccettabile in una comunità cristiana. Ecco allora la parola forte di Gesù: “Tra voi non è così”. Questa parola pone un criterio discriminante tra chiesa e non-chiesa. La qualità della vita di una comunità cristiana la si valuta a partire dalla qualità delle relazioni interne. Dunque, dalla qualità delle relazioni fraterne.
Ma qui si dice anche di più. La prima testimonianza politica della chiesa consiste nella sua strutturazione interna, nell’organizzazione delle sue strutture di autorità e nel modo di vivere l’autorità, che dev’essere conforme a quanto vissuto da Cristo e da lui richiesto ai discepoli. La parola di Gesù stigmatizza le logiche dei poteri mondani, ma soprattutto si rivolge alla chiesa: alla tentazione della mimesi dei meccanismi mondani, Gesù oppone la differenza cristiana fondata sul farsi servi gli uni degli altri. Se la chiesa è la testimone di Cristo Servo nella storia tra la croce e la parusia, allora la sua forma la mostra quale comunità non omologata, né asservita. Insomma, con una battuta, la chiesa non è uno Stato: “Tra voi, non è così”. Essa invece è, secondo le belle parole del card. Carlo Maria Martini, “comunità alternativa”: “La chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modelli di relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa. Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, esprima la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dal perdono reciproco”.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose