Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 16 Luglio 2023

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Un cuore che ascolta

Che sia paragonata alla pioggia e alla neve che fecondano la terra e la fanno germogliare (come afferma la prima lettura: Is 55,10-11) o al seme seminato dal seminatore che dà frutto in proporzioni diverse a seconda dei differenti tipi di terreno (come emerge dal vangelo: Mt 13,1-23), la parola di Dio manifesta un’efficacia che non è dell’ordine della magia, ma richiede la sinergia dell’uomo.

La prima lettura è costituita da un breve passo tratto dalla parte finale della profezia del Deuteroisaia (Is 40-55) e crea un’inclusione con l’affermazione iniziale che dice che “la parola del nostro Dio dura per sempre” (Is 40,8). Il testo sembra dire: avviene per la parola di Dio come per la pioggia: una volta caduta, essa irriga e fa germogliare. La pioggia produce effetti, non finisce nel nulla. E questi effetti sono positivi: poiché il paese d’Israele è terra arida e minacciata da siccità, la pioggia è sentita come benedizione (Dt 11,11; Sal 65,10-11: “Tu visiti la terra e la disseti … ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle, la bagni con le piogge e benedici i suoi germogli”). Il parlare di Dio è connesso anche altrove al piovere e al nevicare (Gb 37,6: “Egli dice alla neve: ‘Cadi sulla terra’ e alle piogge torrenziali: ‘Siate violente’”; Sal 147,6: “Manda sulla terra il suo messaggio: la sua parola corre veloce. Fa scendere la neve come lana, come polvere sparge la brina”). Tratte dall’ambito dei fenomeni metereologici e atmosferici, la pioggia e la neve si rivelano una buona metafora per alludere al parlare di Dio, dunque alla potenza di Dio (cf. Gb 38,25-28, che culmina nella straordinaria domanda: “Ha forse un padre la pioggia?”). L’analogia tra i due fenomeni (parlare di Dio – piovere) risiede nel movimento discensionale e nell’efficacia operativa, un’efficacia positiva: si tratta di “benedizioni del cielo dall’alto” (Gen 49,25).

L’espressione ebraica utilizzata per esprimere l’efficacia della parola divina suona letteralmente come “non tornerà a me a vuoto” (v. 11) e altrove indica la freccia che non fallisce il bersaglio (Ger 50,9) o la spada di Saul che colpisce con precisione (2Sam 1,22). La parola salda di Dio dice la sua fedeltà e la sua affidabilità: la sua parola “non torna indietro” (Is 45,23), cioè egli non ritratta, non si rimangia la parola pronunciata. Tuttavia vi è anche un frutto che la parola produce nell’impatto con l’umanità: e se la pioggia fa germogliare erba, fiori e piante, la parola di Dio che cosa fa germogliare? Vi è un iter della Parola di Dio che è compiuto quando essa, dopo essere stata pronunciata da Dio, ritorna a Dio. Ed essa vi ritorna in forma di lode e ringraziamento, di supplica e invocazione, di preghiera personale e comunitaria, di orazione e di liturgia. Non a caso la preghiera dei Salmi, risposta umana alla Parola di Dio, è inglobata dal Canone biblico nella Scrittura che contiene e trasmette la Parola di Dio. Analogamente al dinamismo dell’incarnazione, la Parola di Dio ritorna a Dio in forma di parola umana, avendo suscitato una parola umana. La Parola di Dio è davvero tale (cf. 1Ts 2,13) quando è ascoltata e celebrata dagli uomini, quando è da loro riconosciuta e diviene fonte di dialogo personale e collettivo con il Signore. Concretamente, la Parola di Dio, che è anche storia ed evento, una volta riconosciuta nella realtà, suscita una risposta orante a Dio. La preghiera e la liturgia compiono la Parola di Dio.

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Ma c’è un altro ritorno che la parola pronunciata da Dio vuole suscitare. E questo emerge con evidenza se si colloca il brano liturgico di Is 55,10-11 nel contesto dell’intero capitolo finale del Deuteroisaia. La parola salda e certa di Dio afferma che è finito l’esilio babilonese e che il popolo d’Israele rientrerà nella sua terra. Questo dice il Deuteroisaia sigillando tale affermazione con l’espressione: “la bocca del Signore ha parlato” (Is 40,5). Il capitolo 55 è modellato sul formulario della liturgia di rinnovamento dell’alleanza che comprende l’invito rivolto al popolo a volgersi a Dio di cui si ricordano le grazie e gli interventi prodigiosi del passato (55,1-5), l’appello pressante alla conversione (55,6-9), quindi l’affermazione dell’efficacia della parola divina (55,10-11) e infine la promessa di benedizione, ovvero il ritorno dalla deportazione babilonese (55,12-13). Così, le espressioni circa l’efficacia della parola di Dio si inseriscono nel contesto dialogico dell’alleanza e diventano un invito a conversione, al ritorno al Signore. Questo il ritorno che la parola divina suscita: la conversione è la risposta che il Dio che parla, il Dio dell’alleanza, sollecita dal suo popolo. La conversione è la responsabilità dell’uomo di fronte alla parola di Dio. Il ritorno in patria dei figli d’Israele esiliati sarebbe monco e gravemente carente senza ritorno spirituale al Signore, senza conversione. L’azione trasformatrice della parola di Dio tende a suscitare la conversione dell’uomo e questo è anche il messaggio del testo evangelico.

E poiché la conversione è atto della libertà dell’uomo, non stupisce che la parabola evangelica del seminatore presenti tre casi su quattro in cui la parola di Dio resta senza effetto (Mt 13,19.20-21.22) e anche il quarto caso, quello cioè in cui la parola viene ascoltata e compresa, produce frutto in maniera molto diversificata (“il cento, il sessanta, il trenta per uno”: Mt 13,23). Dalla parola che Dio pronuncia l’accento si sposta così sull’ascolto e sulla capacità di comprensione dell’uomo. Ma forse proprio questa parabola esprime una forma di paradossale efficacia della parola di Dio svelando diverse forme di ascolto inadeguato della parola di Dio che arrivano a neutralizzarne la potenza trasformante. Vi è la possibilità di guardare senza vedere, di sentire senza ascoltare, dice Gesù riprendendo un testo di Isaia. E occhi che non vedono e orecchi che non ascoltano rivelano un cuore indurito (si noti la sequenza: cuore, orecchi, occhi – occhi, orecchi, cuore in Mt 13,15). Il verbo utilizzato può indicare l’ispessimento del cuore, il suo “essere ingrassato”, “divenuto ottuso”, “istupidito”. La stupidità è il contrario dello stupore. Lo stupore aguzza i sensi, nasce da un’attenzione vigile, da una sensibilità acuta e sottile verso tutto ciò che esiste. Insomma, l’indurimento del cuore è anche intontimento, incapacità di comprendere, di farsi spazio di accoglienza. Cuore grasso e mente ottusa: secondo il vangelo di Marco Gesù non risparmierà queste immagini ai suoi discepoli: “Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete? Avete orecchi e non udite? Non vi ricordate …?” (Mc 8,17-18).

La parabola chiede dunque di essere recepita come ammonimento: i tipi di terreno sono delle possibilità del cuore di ognuno. Tutti i terreni – quelli elencati nella parabola e forse anche tanti altri che impediscono alla parola di portare frutto – sono rappresentati nel nostro cuore. E in una vita di fede (perché anche la fede, la fede di ciascuno, ha una storia) si possono conoscere momenti di ascolto infecondo, perché distratto, perché il nostro cuore è sequestrato da sofferenze e preoccupazioni che ci tolgono la pace; perché siamo incapaci di dare continuità e perseverare in una scelta; perché siamo superficiali e rifiutiamo di scendere nel profondo di noi stessi, là dove la parola potrebbe davvero evangelizzare la nostra interiorità. Oppure perché siamo attratti da altre parole e messaggi decisamente più allettanti rispetto alla parola esigente del Signore e ci sembra che l’obbedienza a tale parola non ci abbia portato alcun miglioramento e nessun vantaggio. Oppure perché la negligenza e la pigrizia ci portano a smarrire lo slancio e a spegnere il desiderio e a rintanarci in noi stessi, nell’orticello rassicurante del nostro piccolo mondo. Oppure perché a un certo punto il costo di un ascolto che comprende e trasforma ci sembra troppo alto e preferiamo seguire il demone della facilità. Oppure …

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Un’interessante esegesi della parabola la interpreta alla luce della professione di fede ebraica espressa nello Shemà Israel, che chiede all’uomo di amare Dio con tutto il cuore, con tutte le forze e con tutta l’anima. Il terreno buono che porta frutto nella misura del cento per uno rappresenta coloro che amano Dio con tutta l’anima, ovvero – secondo una diffusa interpretazione rabbinica – “anche se il Signore ti strappa l’anima”, cioè fino al dono della vita, al martirio. Chi porta frutto al sessanta per uno è chi ama Dio con tutte le forze, cioè con tutte le ricchezze: sono coloro che danno via i loro beni ma non arrivano a donare la loro stessa vita; infine il terreno che produce il trenta per uno rappresenta chi ama Dio con tutto il cuore, con cuore saldo e indiviso, ma non giunge né a dare i propri beni e neppure a perdere la vita. Trovo suggestivo in questa interpretazione il rapporto che emerge tra ascolto e amore. L’ascolto apre la strada al bene, per sé e per gli altri, mentre il non-ascolto – si pensi al seme caduto lungo la strada e subito mangiato dagli uccelli spiegato in riferimento a chi ascolta la parola senza comprenderla (Mt 13,4.19) – apre il cuore al male (“viene il Maligno e porta via ciò che è stato seminato nel suo cuore”). Il male come chiusura all’ascolto. L’ascolto emerge dunque come la grande responsabilità del credente. Karl Rahner parlava dei credenti come del “popolo degli ascoltanti della parola di Dio”.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose