Luciano Manicardi, Commento al Vangelo di domenica 15 Marzo 2020

Osare la propria sete di incontro

La terza, quarta e quinta domenica di Quaresima del ciclo “A” presentano una tematica sacramentale legata all’iniziazione cristiana, al battesimo, espressa attraverso il simbolismo rispettivamente dell’acqua, della luce e della vita. Uscendo dall’immersione nell’acqua battesimale, l’uomo passa dalle tenebre alla luce e inizia una vita nuova in Cristo. Così i tre temi dell’acqua, nella III domenica di Quaresima con l’episodio della donna di Samaria al pozzo di Sicar, della luce, nella IV domenica con l’episodio del cieco nato che ritrova la vista, e della vita, nella V domenica con il racconto della resurrezione di Lazzaro, creano un percorso unitario.

L’odierna pagina evangelica, che interroga il lettore credente su quale sia la sua sete, il suo desiderio profondo, costituisce una vera e propria pedagogia della fede e disegna un percorso di conoscenza di Gesù:
v. 10: se tu conoscessi chi è che ti dice ‘Dammi da bere’
v. 19: Signore vedo che tu sei un profeta
vv. 25-26: So che deve venire il Messia. E Gesù: ‘Sono io che ti parlo’
v. 29: Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fatto. Che sia il Messia?
v. 42: Noi sappiamo che costui è veramente il salvatore del mondo.

Il testo presenta un itinerario verso la conoscenza di Gesù come Messia e Salvatore. Ma insegna anche che tale conoscenza passa attraverso la conoscenza degli altri, attraverso gli incontri con altre persone. Ci istruisce sull’arte dell’incontro con l’altro quale via attraverso la quale noi possiamo anche arrivare a conoscere Gesù.

Gesù attraversa la Samaria (Gv 4,4). Il testo dice che Gesù deve solo attraversare questa terra che era ostile ai Giudei per motivi religiosi che si palesavano p. es., nel differente luogo di culto, Gerusalemme per i Giudei, il monte Garizim per i Samaritani. Gesù passa attraverso la Samaria, ma da terra che deve solo essere attraversata, la Samaria diventa terra di soggiorno: per due giorni Gesù si fermerà (Gv 4,43). In effetti, l’incontro con la Samaritana darà origine all’evangelizzazione della Samaria ad opera della donna e all’incontro di Gesù con i Samaritani.

Il testo dice che, a causa del viaggio e della calura, Gesù è stanco e perciò si ferma presso un pozzo. Gesù ha sete, ed ecco una donna viene ad attingere acqua dal pozzo. L’incontro inizia quando si osa la propria sete, l’incontro nasce dal desiderio. Ma ciò che colpisce è che pur essendo entrambi assetati, Gesù e la Samaritana, di nessuno dei due si dirà che abbia bevuto. Gesù non berrà l’acqua, la donna dimenticherà la sua anfora e tornerà nel villaggio a dare l’annuncio dell’incontro fatto (Gv 4,28-29). Perché la vera sete è sete di incontro. Per incontrare l’altro Gesù osa il proprio bisogno e chiede “Dammi da bere”. Gesù osa andare oltre le barriere stabilite e, pur essendo in terra straniera, ed essendo considerato nemico dalla popolazione locale, egli osa chiedere. La cosa è tutt’altro che banale. Nel Talmud si dice che Rabbi Yosé il Galileo, che si era fermato per strada a chiedere indicazioni a una donna si vide apostrofato da lei in questo modo: “Stupido Galileo, non hanno forse comandato i saggi: ‘Non impegnarti in una lunga conversazione con una donna?’”. Qui si dirà che i discepoli erano stupiti che Gesù stesse a parlare con una donna (v. 27). C’è in Gesù il coraggio della semplicità, di esporsi nel momento del bisogno, di rivolgere la parola a chi ha di fronte e gli può dare un aiuto anche se questo contravviene alle convenzioni e alla prudenza condensata in regole di comportamento religiosamente ispirate. Gesù compie questi gesti, anche se per questo potrà essere giudicato. Ma chi è libero, è libero anzitutto dalla paura di essere giudicato. Gesù riconosce di aver bisogno di questa donna e le rivolge la parola. Si espone all’altro, dando inizio a qualcosa che non sa dove lo porterà.

Noi non sappiamo dove ci condurrà il dialogo, dove l’incontro ci potrà condurre e per paura possiamo erigere barriere e starcene nel chiuso delle nostre sicurezze e delle nostre corazze. Per paura possiamo astenerci dal rischio dell’amore. Gesù non teme di esporsi all’incontro. Non ha quella paura che spesso è la nostra e che ci porta ad agire nel modo descritto magistralmente da un grande scrittore del secolo scorso: “Amare è sempre essere vulnerabili. Ama qualche cosa e il tuo cuore certamente si ritroverà diviso, rotto, sofferente. Se vuoi essere sicuro di mantenere intatto il tuo cuore, non darlo a nessuno, neanche a un animale. Avvolgilo attentamente in hobby, in piccoli lussi, in abitudini quotidiane, in dettagli insignificanti, evita ogni coinvolgimento amoroso, chiudilo al sicuro nell’urna o nella bara del tuo egoismo, ma nell’urna sicura, oscura, immobile, senza aria, il tuo cuore cambierà, non si romperà, stanne certo, diventerà infrangibile, impenetrabile, irrimediabile. L’alternativa alla tragedia, o almeno al rischio della tragedia, è la condanna. L’unico luogo, a parte il cielo, dove può essere perfettamente salvo da tutti i pericoli e perturbazioni dell’amore è l’inferno” (Clive Staples Lewis). Vuoi proteggere il tuo cuore, vuoi evitare di soffrire (e nessuno nega che tu possa avere motivi profondi per difenderti da questo dolore intimo)? Evita ogni coinvolgimento amoroso, evita ogni relazione che ti coinvolga. Ma sappi che così ti condanni all’inferno: il luogo dove il cuore può essere protetto da tutti i pericoli d’amore è l’inferno.

Certo, amare ha il prezzo della sofferenza e questa donna la immaginiamo segnata da una storia sofferta, la storia di una che ha molto amato e che ha molto sbagliato e sofferto. Ebbene, di fronte alla Samaritana, Gesù va oltre le barriere della inimicizia categoriale, le barriere per cui l’altro non è un volto e un nome, ma solo un’appartenenza etnica (Giudeo o Samaritano: v. 9). Gesù non si lascia inibire dalla differenza di genere (è una donna) e dalla moralità poco cristallina della donna (v. 18). Ci sono sempre motivi che possono trattenerci dal fare il primo passo nell’incontro con l’altro. Gesù suggerisce anche alla donna un passo nel cammino di conoscenza reciproca: passa dalla domanda che ti ho rivolto, alla domanda che io sono per te. “Se tu conoscessi chi è colui che ti ha detto: dammi da bere” (Gv 4,10).

All’inizio del cammino vi è il riconoscimento da parte di Gesù della sua povertà, del suo bisogno. E poi ci sarà, da parte della donna, il riconoscimento della sua povertà, anche dei suoi errori, del suo aver errato e peccato. Senza la capacità di riconoscere e dire questa dimensione di negativo e di mancanza non vi sarà nessun incontro. Gesù dunque non si adagia sulle convenzioni (“I Giudei non hanno rapporti con i Samaritani”: Gv 4,9), non attende che sia l’altro a fare il primo passo, ma pone la domanda, osa la parola mostrandosi nel suo bisogno. A volte, il rivolgere la parola può dare la vita a noi stessi e agli altri. Al capezzale di Georges che aveva tentato il suicidio, l’abbé Pierre gli chiese: “Georges, tu sei libero poiché vuoi morire, ma prima di ritentare di suicidarti non vorresti venire a darmi una mano per costruire case illegali per i senzatetto?” E da quella domanda reiniziò la vita di Georges.

La nostra identità è plurale: vi è un’appartenenza etnica, nazionale, vi è un’appartenenza religiosa, vi sono tradizioni culturali specifiche che ci appartengono e a cui noi apparteniamo (v. 12: il nostro padre Giacobbe, la vicenda del pozzo), ma poi ciascuno di noi è una singolarità e una unicità, è un tu, e Gesù sta offrendo a questa donna la possibilità di cogliersi nella sua soggettività a partire dal confronto con lui come con un “tu”. Gesù conduce questa donna a prendere in mano la sua storia che è fatta di vicende di uomini che lei ha avuto. Gesù fa emergere la soggettività della donna suscitando in lei una sete che è più decisiva di quella fisica, tanto che la donna può lasciare lì la sua anfora. Sì: è di altro che noi ci nutriamo. La prima parte del testo è centrata sul bere, poi arrivano i discepoli che erano andati a comperare del cibo, e si pone il problema del mangiare. E anche i discepoli vengono spiazzati: “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete” (Gv 4,32). Ma anche noi mangiamo altro. Ognuno di noi si nutre di ciò che dà senso al vivere di relazione, si nutre del volto dell’altro, dell’ascolto, della parola, del silenzio dell’altro. Si nutre di amore.

E sottolineo ancora che la ricerca di Dio non avviene al di fuori di questa umanissima sete dell’altro, di questa ricerca di incontro. Non a caso l’apice dell’incontro tra la donna e Gesù, avviene quando l’espressione dell’attesa religiosa dei samaritani, l’attesa messianica del Tahev, “Colui che converte”, incontra le parole di Gesù che dice: “Sono io che ti parlo” (Gv 4,26). È proprio in quel cammino trasformante di dialogo e di incontro che si fa strada verso di noi il Cristo. La nostra ricerca viene così incontrata dalla ricerca che il Signore stesso fa di noi. E la donna viene trasformata in evangelizzatrice, in apostola. Ma se lei annuncia ciò che Gesù ha detto e fatto, è perché lo ha incontrato come colui che le ha detto tutto ciò che lei stessa ha fatto (Gv 4,29). Lei già sapeva tutto ciò che aveva fatto, ma forse non sapeva di poterlo accogliere e amare. Per questo ha avuto bisogno di qualcuno che le dicesse tutto ciò che lei ha fatto senza giudicarla ma accogliendola. E anche noi ne abbiamo bisogno.

A cura di Luciano Manicardi – Fonte


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