Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 15 Gennaio 2023

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Era prima di me

Nel tempo liturgico Ordinario soltanto la prima lettura, cioè il brano di Antico Testamento, e la pericope evangelica sono state scelte in base a un legame tra di loro, mentre la seconda lettura, l’Apostolo – e in questo caso, la prima lettera ai Corinti – viene proposta in lettura semicontinua per diverse settimane. In questa domenica la prima lettura (Is 49,3.5-6) e il vangelo (Gv 1,29-34) convergono verso un centro cristologico e soteriologico. Isaia parla del Servo del Signore e della sua missione che ha ampiezza universale e consiste nell’essere “luce delle genti”; il vangelo applica a Gesù la tipologia del Servo-Agnello (il termine aramaico talja’ sembra significare tanto “agnello” quanto “servo”; in Is 53,7 il Servo è presentato come “agnello afono”) e il Battista ne annuncia la missione universale: “togliere il peccato del mondo”.

Compito profetico è quello di preparare l’avvento del novum nella storia. La pagina di Isaia preannuncia l’inaudita estensione di orizzonte della missione del Servo e Giovanni introduce il novum nella storia indicando Gesù quale Messia, prima sconosciuto (“In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”: Gv 1,27). Il profeta sa creare speranza e orientarla, sa dare volto e nome a ciò che sta fiorendo nella storia e ne aiuta la nascita. La profezia è la maieutica del futuro che dà senso e luce all’oggi.

Un legame che unisce Antico Testamento e vangelo è l’idea di invio, di missione. La prima lettura presenta la vocazione e la missione del Servo, il quale esprime la coscienza di essere inviato da Dio. A sua volta, il Battista afferma di essere stato “inviato a battezzare nell’acqua” (Gv 1,33). Il vero profeta è mosso dalla convinzione invincibile di aver ricevuto un mandato dal Signore: la sua vita diviene così un’obbedienza radicale alla volontà del Signore. Questa obbedienza a cui egli sottomette tutta la sua vita futura è criterio che autentifica la sua vocazione, il suo essere stato chiamato e inviato da Dio. Questa obbedienza spesso si spinge fino alle estreme conseguenze, cioè fino alla morte. Essere inviati infatti significa non essersi inventati o dati da sé l’incarico, ma averlo ricevuto da un Altro nelle cui mani l’inviato pone il suo corpo, la sua vita, la sua intelligenza, il suo tempo, il suo presente e il suo futuro. Inoltre, l’invio in missione non può essere compreso riduttivamente in maniera funzionale (avere un compito da svolgere per qualcuno), ma esprime un legame forte tra chi invia e colui che è inviato. La missione non consegna un compito da svolgere, ma espropria da sé l’inviato rendendolo un libero servo del Signore. Non a caso il termine ebraico ’eved, “servo”, può benissimo essere inteso come “obbediente”. In particolare, l’invio rende l’inviato un testimone. La sua vita è chiamata a essere se a fare segno, cioè a illuminare altri lasciando trasparire la parola e l’agire di Dio attraverso le sue parole e le sue azioni. E se il Servo è chiamato a essere “luce delle genti” (Is 49,6), Giovanni – ci dice il IV vangelo – è lampada che indica la luce del mondo, il Messia veniente. Sarà lo stesso Gesù, “luce del mondo” (Gv 8,12), che darà testimonianza al Battista dicendo: “Egli era la lampada che arde e splende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce” (Gv 5,35).

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Colpisce, nel confronto con i testi sinottici sul battesimo di Gesù, la centralità che nella narrazione del IV vangelo rivestono la persona di Giovanni e la sua testimonianza. Il battesimo di Gesù non è neppure menzionato, la discesa dello Spirito su Gesù non è narrata come evento che si compie all’uscita di Gesù dalle acque, ma è proclamata da Giovanni: è lui che ha visto lo Spirito scendere su Gesù (cf. Gv 1,32.33.34). Non c’è nessuna apertura dei cieli, ma solo della bocca di Giovanni. Non è la voce dall’alto che proclama che “questi è il mio Figlio” (Mt 3,17), ma è Giovanni che annuncia che “questi è il Figlio di Dio” (Gv 1,34). Discesa dello Spirito e voce dall’alto non sono neppure connesse, come nel vangelo secondo Luca, alla preghiera di Gesù (Lc 3,21-22), ma sono totalmente rimesse alla testimonianza del Battista, alle parole che lui pronuncia. E la testimonianza di Giovanni ha il suo senso e la sua finalità nel trasmettere a Israele la conoscenza dell’Agnello di Dio (Gv 1,29.36), del Figlio di Dio (Gv 1,34), del Messia (Gv 1,41). Diceva già il prologo del IV vangelo: “Egli (Giovanni Battista) venne come testimone … perché tutti credessero per mezzo di lui” (Gv 1,7). Ma come Giovanni è reso testimone? Da dove gli viene la conoscenza di Gesù quale Messia che ha il potere di rimettere i peccati? Giovanni dice di se stesso che “non conosceva” (Gv 1,31.33) Gesù. Egli radica il suo passaggio dall’ignoranza alla conoscenza nell’ascolto della voce di Dio e nell’obbedienza alla missione per cui è stato inviato: “Colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: ‘Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito santo’” (Gv 1,33). Semplicemente, Giovanni ha ascoltato la voce del Padre e l’ha custodita fino a

farne il principio guida del suo discernimento. Possiamo dire che Giovanni è un teodidatta: “Sta scritto nei profeti: ‘E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me” (Gv 6,45). Ora, come Giovanni stesso è passato dalla non-conoscenza alla conoscenza del Messia, così il suo compito è di far passare dalla non conoscenza alla conoscenza i figli d’Israele: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me” (Gv 1,26-27). La sua testimonianza è totalmente volta ad aprire la strada al Veniente, a operare il trapasso da lui al Messia, a suscitare la fede in Gesù il Messia. E questo comporta anche l’indirizzare i suoi discepoli a Gesù, come il quarto evangelista racconterà in Gv 1,35ss.

Situato fra Colui che gli ha dato il mandato di testimoniare e Colui di cui deve testimoniare, Giovanni è l’obbediente per eccellenza e ricorda a tutti i credenti che la testimonianza implica lo spossesso di sé: questa la condizione della sua fecondità. Ciò che più che mai è richiesto al testimone è la libertà, e innanzitutto la libertà dal proprio io, dalla tentazione del protagonismo, del porre se stessi al centro del proprio dire e agire. Non a caso Giovanni ha iniziato il suo ministero testimoniale dicendo più volte chi lui non è (Gv 1,19-21). E quando ha risposto positivamente alla domanda sulla sua identità egli si è situato in rapporto di obbedienza nei confronti delle Scritture riconoscendosi nelle parole del profeta Isaia (Is 40,3): “Io, voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore” (Gv 1,23). L’obbedienza alla voce di Dio e al Messia veniente passa attraverso l’obbedienza alle Scritture. Il testimone? L’obbediente. Il testimone? Il credente.

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Nel testo giovanneo, in cui la presenza dello Spirito è testimoniata dalle parole di un uomo, Giovanni; in cui la voce di Dio è presente nelle parole di un uomo, Giovanni; in cui l’indicazione del Messia è demandata alle parole di un uomo, Giovanni, si può cogliere la portata trasformante dell’accoglienza nella fede della parola della Scrittura. Questo è avvenuto in Giovanni, il testimone dell’Agnello. Il IV vangelo cristianizza la figura del Battista. Questo significa che se storicamente, Giovanni viene prima di Gesù, in verità Giovanni segue Gesù, tanto che egli già confessa che Gesù è l’Agnello che “toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29). Così la testimonianza di Giovanni il Battista si congiunge a quella di Giovanni l’evangelista che dirà davanti al Crocifisso: “Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: ‘Non gli sarà spezzato alcun osso’” (Gv 19,35-36). Dove la citazione scritturistica applicata al Cristo innalzato sulla croce è del passo di Es 12,46 che parla dell’agnello mangiato nella notte pasquale, agnello a cui non sarà spezzato alcun osso.

Insomma, la sottolineatura così accentuata nel IV vangelo della dimensione testimoniale di Giovanni Battista, apre uno squarcio sull’esperienza spirituale del Battista stesso. L’ascolto è divenuto in lui visione. L’ascolto della parola di Dio è divenuto visione dello Spirito. L’ascolto ha generato il discernimento. Giovanni è introdotto dall’ascolto in una conoscenza interiore, illuminata dalla parola di Dio, che struttura l’intera vita del testimone. Il qiuale vivrà tutta la sua vita nella memoria e nella coscienza di ciò che è avvenuto e che l’ha cambiato. Non a caso, dopo questa esperienza spirituale, di Giovanni vengono riportate sempre meno parole e tutte rigorosamente volte a distogliere l’attenzione e lo sguardo degli altri da sé per volgerli a Cristo (Gv 1,36) e a ricordare l’essenza della sua testimonianza (“Non sono io il Cristo … Lui deve crescere; io, invece, diminuire”: Gv 3,27-30). Quindi la sua figura entra in dissolvenza e di lui resta soltanto il ricordo, affidato soprattutto a qualche annotazione dell’evangelista e a qualche parola di Gesù (Gv 4,1; 5,33-35; 10,41-42). Quindi scompare. La voce diviene silenzio. La testimonianza è compiuta. “(Gesù) ritornò al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui rimase. Molti andarono da lui e dicevano: ‘Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero’. E in quel luogo molti credettero in lui” (Gv 10,40-42). L’efficacia della testimonianza di Giovanni è espressa dalle parole dei destinatari della testimonianza che giungono alla fede. La testimonianza sopravvive al testimone.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose