Il perdono credibile
Insegnando a pregare ai suoi discepoli con la preghiera del Padre nostro, Gesù aveva consegnato loro anche queste parole: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). E aveva ancora aggiunto: “Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6,14-15). L’insegnamento è chiaro: la richiesta di perdono a Dio è credibile se accompagnata dalla disponibilità e dalla concreta pratica del perdono fraterno. Analogo insegnamento è presente anche nella liturgia giudaica che afferma che nel giorno dell’espiazione e del perdono (Yom Kippur), vengono perdonati solo i peccati commessi contro Dio, mentre per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo “Yom Kippur procura il perdono solo se uno prima si è rappacificato con il proprio fratello” (Mishnà, Yomà 8,9). La parabola presente nel testo evangelico di questa domenica (Mt 18,23-35) rappresenta una esegesi esemplare di tale insegnamento.
Dopo le parole di Gesù sulla correzione fraterna circa colpe pubbliche (Mt 18,15-18), ora Pietro interroga Gesù sulla misura del perdono nei confronti dell’offesa personale (“se mio fratello pecca contro di me”: Mt 18,21). Si tratta di un’offesa a cui non segue il pentimento né la richiesta di perdono da parte dell’offensore. Questo emerge dal testo parallelo di Luca dove si dice invece: “Se tuo fratello peccherà sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà da te dicendo: ‘Mi pento’, tu gli perdonerai” (Lc 17,4). In Matteo il perdono è incondizionato, totalmente unilaterale, non preparato da alcuna dichiarazione di pentimento. Questo perdono è possibile quando chi è chiamato a perdonare si ricorda del perdono immenso, incommensurabile che ha già ricevuto lui stesso in Cristo. In altre parole: ciascun cristiano si trova, nei confronti del proprio fratello, nella stessa situazione del servo a cui è stato condonato il debito inestinguibile.
Pietro, inoltre, interroga Gesù sul limite del perdono: “quante volte dovrò perdonargli?”. E abbozza una risposta che nelle sue intenzioni è già decisamente ampia, forse perfino esagerata: “fino a sette volte?”. La risposta di Gesù ricorre a una quantità che, se normalmente esprime qualcosa di misurabile, in realtà qui è usata per indicare l’incommensurabile. Sia poi che tale quantità debba intendersi con “settanta volte sette” sia con “settantasette volte”, essa significa il rovesciamento radicale della misura della vendetta formulata da Lamech: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette” (Gen 4,24). Si istituisce un confronto tra vendetta e perdono. Che si gioca essenzialmente sulla temporalità. La vendetta non accetta che il passato sia ciò che è, ovvero passato. La vendetta rende il passato sempre presente, sempre attuale, immediatamente presente e bruciante. La vendetta rende attuale anche il dolore, la vergogna, l’umiliazione subita un tempo, e ne sente ogni giorno, ogni momento, ogni attimo, il carattere abrasivo sulla pelle dell’anima. Così la vendetta instaura un nuovo ordine del tempo, tutto centrato sul passato, dunque regressivo, in quanto blocca il tempo a un momento preciso del passato. La vendetta è chiusura e fissazione del tempo al passato: essa chiude il futuro, non accetta il novum portato dalle cose e dagli eventi, rifiuta che il futuro possa avere altro segno che quello dell’indefinita ripetizione del già avvenuto, del già visto. La vendetta instaura il tempo seriale, ripetitivo, senza alcuna novità. Il perdono invece è apertura di futuro e volontà di ripresa di relazione, di ricominciamento. Stando dunque al nostro testo evangelico, nel rapporto tra due persone il perdono è potenzialmente illimitato. Il problema inizia quando entra in scena il terzo. Se infatti posso perdonare infinite volte il peccato contro di me, non ho l’autorità di perdonare il male che un altro fa a un terzo. E, ugualmente, devo tener conto del terzo di cui ho la responsabilità. Allora è la giustizia che deve intervenire. E la giustizia, a differenza della vendetta che tiene conto unicamente del punto di vista dell’offeso, tiene presente anche il punto di vista dell’offensore.
La parabola del servo spietato, narrando che viene condonato un debito immenso, inestinguibile (cf. Mt 18,27) afferma che il perdono non può limitarsi a perdonare ciò che è scusabile, “i peccati veniali”, ma che esso è tale quando perdona ciò che potrebbe sembrare imperdonabile. Perdonare l’imperdonabile: anche questo sta all’interno della misura senza misura del perdono cristiano.
La parabola è suddivisa in tre scene seguite da un versetto finale che ne costituisce la conclusione parenetica (v. 35). Le tre scene contengono dei dialoghi: tra il re e un suo servo (in realtà, un alto ufficiale della burocrazia regia) che gli è debitore di una cifra enorme (vv. 23-27) e in cui sono riportate solo parole del servo (v. 26); quindi un dialogo tra quello stesso servo e un suo compagno di servizio che gli doveva una somma infinitamente inferiore rispetto a quella che gli era appena stata condonata dal re (vv. 28-30); infine un secondo dialogo tra il re e il servo, rivelatosi ora “malvagio” (v. 32), in cui sono riportate solo parole del re, chiamato ora “padrone” o “signore” (kyrios: vv. 31.32.34). La somma di diecimila talenti è volutamente iperbolica, astronomica, assolutamente impossibile a essere ripagata. Nemmeno con la vendita dei famigliari (v. 25), elemento questo, che costituisce un tratto incongruente del racconto o forse, meglio, indica la disumanità a cui si è sottratto il re con l’atto di cancellazione del debito. E così viene sottolineata l’umanità dell’atto del perdono. La funzione di quella cifra così esorbitante eppure condonata è di preparare il terreno al confronto con la cifra infinitamente più modesta di cento denari (v. 28) di cui invece sarà preteso il pagamento e che condurrà in prigione il povero debitore (v. 30). La sproporzione tra i due comportamenti sottolinea che il servo spietato unisce nel suo comportamento cattiveria e stupidità. Che forse è la trascrizione in termini quotidiani della distinzione teologica tra peccati deliberati e peccati per ignoranza. Non è forse anche stupido il servo che, dopo essersi visto condonare un debito immenso, si mostra senza pietà nei confronti dell’uomo che gli doveva una cifra infinitamente inferiore? Spesso il peccato è il frutto della congiunzione di cattiveria e stupidità, di malvagità e ignoranza. O anche: spesso il peccatore, tanto è pericoloso, tanto è ridicolo.
Anche il secondo dialogo contiene un tratto narrativo incongruente: l’atto di gettare in prigione il servo insolvente è insensato perché era ammissibile solo nel caso che l’ammontare del debito fosse superiore alla somma ricavabile dalla vendita del debitore, ciò che non corrispondeva al caso della somma di cento denari (v. 30). Ma anche in questo caso l’effetto è quello di suggerire l’approfondirsi della disumanità e della cattiveria quando ci si rifiuta di perdonare.
Un aspetto non secondario della parabola matteana è la tristezza, il dolore dei compagni di servitù di fronte all’agire malvagio del servo che non ha pietà di colui che gli deve cento denari (v. 31). Lì non c’è spazio per il linguaggio del perdono, ma solo per lo sdegno e l’indignazione, per la ribellione di fronte all’ingiustizia che diviene coraggio della denuncia.
La parabola mostra che il perdono non necessariamente muta il cuore di colui che lo riceve. La potenza e la grandezza del perdono stanno nell’unilateralità con cui l’offeso non tiene conto dell’offesa ricevuta, ricrea le condizioni per la relazione con l’offensore con un atto di totale gratuità e accetta anche di veder rigettato e umiliato il suo gesto. Il cristiano contempla il pieno dispiegarsi di questa unilateralità del perdono nel Cristo crocifisso: “Il Giusto, del quale a Pasqua si celebra la resurrezione, è colui che, asimmetricamente, restaura la reciprocità, risponde all’odio con l’amore, offre il perdono a chi non lo domanda” (Francis Jacques). Questa unilateralità è la via scelta da Gesù Cristo per sconfiggere la mancanza di reciprocità di chi misconosce il perdono. È vittoria del bene sul male, è perdono del rifiuto del perdono, è evento pasquale. E qui noi cogliamo un aspetto del perdono che lo assimila alla paradossale potenza della croce. Il perdono è onnipotente, nel senso che tutto può essere perdonato (“può”, non “deve”: la grandezza del perdono risiede nella libertà con cui è accordato), al tempo stesso è infinitamente debole, in quanto nulla assicura che esso cambierà il cuore di colui che ha fatto il male né che costui cesserà di fare il male. In questo senso il perdono cristiano può essere compreso veramente solo alla luce dell’evento pasquale, dello scandalo e del paradosso della croce. Anche sulla croce la potenza di Dio si manifesta nella debolezza estrema del Figlio. Il Cristo crocifisso è colui che dalla croce offre il perdono a chi non lo chiede, vivendo l’unilateralità di un amore asimmetrico che è l’unica via per aprire a tutti il cammino della salvezza. Riflesso dell’evento pasquale, il perdono cristiano si colloca anzitutto sul piano escatologico: dove c’è perdono, là c’è lo Spirito di Dio, là c’è Dio che regna, là il Cristo si rende presente.
A cura di: Luciano Manicardi
Fonte: Monastero di Bose