Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 13 Marzo 2022

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Preghiera e silenzio

Le prime due domeniche di Quaresima, in tutte le annate liturgiche, presentano quella successione tra il racconto delle tentazioni di Gesù e la narrazione della sua trasfigurazione che è simbolo del cammino quaresimale fino al suo compimento pasquale. Ma vi troviamo anche un’immagine della nostra quotidianità. Questo è particolarmente vero nell’annata C perché la polarità tentazione – trasfigurazione si declina come polarità tentazione di Gesù – preghiera di Gesù, dunque tentazione – preghiera nostre. È infatti un tratto peculiare della redazione di Luca l’aver inserito la narrazione della trasfigurazione nel contesto della preghiera di Gesù: “Gesù salì sul monte per pregare e mentre pregava l’aspetto del suo volto divenne altro e il suo abito bianco, sfolgorante” (Lc 9,28-29).

Luca crea un parallelo spirituale suggestivo tra tentazioni, in cui Gesù si oppone al divisore con la parola della Scrittura (Lc 4,1-13), e trasfigurazione, in cui Gesù è reso partecipe della luminosità di Dio attraverso la parola della Scrittura simbolizzata da Mosè ed Elia, la legge e i Profeti, con cui sta conversando (Lc 9,28-36). Questa polarità è anche descrizione della situazione in cui noi stessi siamo immersi quotidianamente. Quotidiana è per noi la possibilità del male. Ma altrettanto quotidiana è la possibilità della lotta, della resistenza alla seduzione del male, dunque della preghiera e dell’ascolto della parola del Signore nelle Scritture.

La preghiera è il luogo del nostro possibile mutamento, è il tempo accordato e lo spazio fatto alla possibilità di essere resi più conformi all’immagine del Signore Gesù. L’alternativa infatti di fronte a cui siamo posti è: essere trasformati dal male che compiamo e contro cui non combattiamo più abituandoci ad esso, oppure essere trasformati dalla preghiera e dalla parola del Signore. La preghiera per essere trasformati a somiglianza del Signore e perché il prevalere del male e della tentazione non ci trasformi e ci deformi.

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In questa luce, dovremmo pensare la preghiera non tanto come un’azione virtuosa, ma piuttosto come una misura di sopravvivenza umana e spirituale, come ciò che impedisce al male di deformarci, di renderci cattivi o indifferenti o cinici o demotivati. Infatti, rinunciare a pregare, smettere la fatica della lotta contro la propria pigrizia, ci porta a cadere nella tentazione e a cadervi sempre di nuovo, ma soprattutto ci porta a non avere più speranza, ad atrofizzare la nostra volontà di amare, a non credere più in noi stessi, a nutrire sfiducia negli altri, a non credere più alla preghiera, anzi, a non credere più tout-court. Ci porta a vivere facendo a meno del Signore e a chiuderci in noi stessi.

Luca dunque narra che mentre Gesù pregava, l’aspetto del suo volto divenne altro (Lc 9,29). Non un altro volto, ma un volto altro, un volto che si è lasciato abitare dall’alterità di Colui che Gesù stava pregando. La preghiera è luogo di trasfigurazione perché luogo di alterazione. Non a caso Gesù insegnerà ai discepoli a pregare perché è pregando che essi possono entrare nell’alleanza, cioè, nel modo di vita di Dio. Ma è importante che prima di dare loro indicazioni e insegnamenti sul pregare (Lc 11,1-13) egli stesso preghi e sia visto in preghiera dai discepoli. La preghiera è per Gesù spazio di accoglienza in sé dell’alterità di Dio: se il volto è il luogo essenziale di cristallizzazione dell’identità, allora la preghiera incide sull’identità personale. Il divenire altro del volto di Gesù dice che il suo volto narra l’invisibile volto di Dio. La preghiera agisce su colui che prega. La sua efficacia non è estrinseca, ma interiore, come appare qui per Gesù.

Ma anche in Pietro e nei discepoli noi possiamo vedere un divenire, un mutamento. Essi sono oppressi dal sonno, incapaci di tenere gli occhi aperti, con le palpebre che pesantemente si chiudono e con la testa che non riesce a restare ritta. Tuttavia riuscirono a vedere la gloria del Signore e i due uomini che stavano con lui (Lc 9,32). Siamo rinviati a una lotta, a una fatica che in qualche modo ha consentito ai discepoli di partecipare o almeno di assistere all’evento sul monte.

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Qui ci viene detto che la preghiera esige una lotta con il proprio corpo. La preghiera è anche sforzo fisico, non meramente intellettuale. Se la preghiera arriva a dare una forma al corpo è anche perché essa chiede al corpo di parteciparvi, anzi di esserne il soggetto. La tradizione a volte parla della ginnastica della preghiera, intendendola in senso non metaforico, o almeno non solo spirituale. I Salmi propongono tale ginnastica: inginocchiarsi, inchinarsi, alzarsi, sedersi, prostrarsi faccia a terra, levare al cielo le mani in segno di supplica, tendere in avanti le braccia come in attesa di un dono, alzare gli occhi al cielo, e si potrebbe continuare a lungo. La preghiera deve coinvolgere il corpo perché proprio e solo quando arriviamo a sentire il corpo possiamo dire che è partecipe della preghiera.

Pietro poi, parla in maniera insensata: “Egli non sapeva quel che diceva” (Lc 9,33). Dal sonno opprimente i discepoli passano a un parlare fuori posto. Dopo l’ingiunzione “Ascoltate lui” ecco che il percorso perviene al suo punto finale di sapienza: essi entrarono nel silenzio (Lc 9,36). Silenzio grazie al quale potrà nascere l’ascolto, l’accoglienza della presenza e della parola di Dio, e dunque potrà iniziare la preghiera, potrà avvenire l’ingresso nell’alleanza.

Pietro aveva espresso il suo desiderio di costruire una tenda per Gesù e per Mosè ed Elia (Lc 9,33); Pietro coglie l’elemento di bellezza dell’esperienza che lui e gli altri discepoli stanno vivendo, ma non ne ha colto l’altra faccia, quella del terribile, e proprio allora la nube diviene tenda per Pietro e gli altri discepoli (“Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra”: Lc 9, 34). Pietro passa dal progetto di costruire tende per altri alla disponibilità a entrare nella nube, nella dimora che Dio prepara per lui. Deve passare dal parlare irriflesso al silenzio.

È interessante notare che l’esegesi patristica ha spesso identificato la nube con lo Spirito santo: Spirito che dunque è dynamis trasfigurante, forza capace di trasfigurare il credente. Ma è altrettanto interessante notare un’altra interpretazione della nube, presente in Pietro da Celle (XII secolo): egli interpreta la nube in riferimento alla Scrittura. Scrive: “La nube è la divina Scrittura, è nube perché rinfresca, è nube perché protegge, è nube perché fa piovere. È luminosa perché fecondata dalla luce dello Spirito santo”. Lo Spirito e la Scrittura; lo Spirito che vivifica la Scrittura rendendola parola vivente di Dio. La Scrittura che introduce il lettore nella relazione con Dio attraverso la Parola e lo Spirito. Questo è il lavoro quotidiano del credente L’alleanza è una realtà in cui entrare ogni giorno rinnovando, attraverso l’ascolto, la fede nella promessa di Dio.

La preghiera dunque è lotta, ed esige l’ascolto. La voce dall’alto chiede ai discepoli di ascoltare il Figlio: questa infatti è la via per accogliere in sé la presenza del Signore, per ricordare le sue parole, per introiettare la sua volontà. Ascoltare è ospitare. Ma poi la preghiera richiede anche silenzio. Nella trasfigurazione i discepoli faticano a fare silenzio. Parlano, e parlando dicono anche insensatezze. Luca non esita a commentare che Pietro non sapeva quel che diceva quando propone di fare tre tende. Sembra arguirsi dal testo che il silenzio è faticoso, ma la mancanza di silenzio è ostacolo alla preghiera.

I discepoli infatti arrivano a stare zitti solo alla fine. E in Luca non è mentre scendevano dal monte, come in Mt (17,9) e in Mc (9,9), ma sembra dedursi dal testo che si tratta di un silenzio prolungato, mentre stanno ancora sul monte insieme a Gesù, ma senza dire nulla, condividendo il silenzio. Infatti è solo il giorno successivo che essi scendono dal monte (Lc 9,37): si sono fermati sul monte e l’esperienza di preghiera di Gesù si è prolungata nel silenzio condiviso con i tre discepoli. Un silenzio pieno, un silenzio parlante, un silenzio orante, un silenzio di comunione, un silenzio per interiorizzare ciò che era avvenuto.

Di più, in Luca non è Gesù che ordina ai discepoli di tacere e di non dire nulla a nessuno (come in Mt e Mc), ma sono i discepoli che ci arrivano da sé in base a due elementi: la voce dall’alto che dice “Ascoltatelo” (Lc 9,35) e il fatto che Gesù resta solo (Lc 9,36). E, restando solo, resta anche nel silenzio. I discepoli sono condotti al silenzio dal silenzio di Gesù. E questo dice anche la solitudine come elemento della preghiera. Anche la solitudine di Gesù ispira la loro solitudine. Solitudine che è spazio di comunione. La comunione deve radicarsi nel profondo, non certo esaurirsi nell’essere fianco a fianco o nel mangiare alla stessa tavola o nel parlare insieme.

E così, attraverso la fatica del corpo, l’ascolto, il silenzio, la solitudine, i discepoli compiono un cammino spirituale su questo monte. Lasciandosi avvolgere dalla nube, sono entrati più in profondità nel mistero della preghiera a cui Gesù li ha guidati. Mistero di preghiera che è anche il luogo intimo della trasfigurazione possibile del credente.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose