Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 12 Settembre 2021

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Lungo il cammino

La pericope evangelica di questa domenica è tratta dalla sezione centrale del vangelo secondo Marco (Mc 8,27-9,13) e comprende anzitutto un dialogo tra Gesù e i suoi discepoli sull’identità di Gesù stesso, che culmina nella confessione di Pietro (Mc 8,27-30). Quindi troviamo un insegnamento di Gesù centrato sull’annuncio della sua passione, morte e resurrezione. Anche qui emerge la figura di Pietro ma in maniera negativa, come colui che si oppone a quanto rivelato da Gesù riguardo al suo destino di sofferenza (Mc 8,31-33). Infine abbiamo le parole di Gesù ai discepoli e alla folla circa le esigenze radicali della sequela (Mc 8,34-35).

Da Betsaida (Mc 8,22), sulla riva del Lago di Tiberiade, Gesù, insieme con i suoi discepoli, si sposta verso nord, nella zona di Cesarea di Filippo (Mc 8,27). E “lungo il cammino” (en tê odô: cf. Mc 9,33-34; 10,32.52) Gesù poneva ai discepoli questa domanda: “La gente, chi dice che io sia?” (Mc 8,27). Se più spesso è Gesù a essere interrogato dai discepoli (cf. Mc 4,10; 7,17; 9,11.28; 10,10; 13,3), qui è lui stesso che interroga i discepoli ponendo loro una domanda decisiva che concerne la sua identità. Attraverso la pagina evangelica la domanda raggiunge il lettore che si trova a sua volta interpellato. È interessante che la domanda venga posta “lungo il cammino”. È cammin facendo, è nel concreto e quotidiano seguire Gesù che si chiarisce al discepolo l’identità di Gesù stesso. L’autentica confessione di Gesù avviene esistenzialmente. L’identità di colui che viene confessato, attrae e coinvolge l’identità di colui che la confessa: è nella sua vita che il cristiano confessa il Cristo. Ovvero: mentre diciamo che siamocristiani è importante aver coscienza che dobbiamo ancora diventare cristiani. L’obbedienza alla volontà di Dio si manifesta nel corpo e nelle relazioni, nell’esistenza e nella morte. Fino alla morte. È l’insegnamento dell’anziano vescovo di Antiochia, Ignazio, che, avviandosi al martirio, scrive ai cristiani di Roma: “Ora incomincio a essere discepolo” (Ai Romani V,3). La domanda posta da Gesù ai discepoli suggerisce anche al lettore e al credente di oggi che Gesù ci raggiunge come domanda. Ed è bene che per noi Gesù rimanga sempre anche una domanda, e non diventi mai solamente una risposta. Perché altrimenti si spegne il dialogo e noi ci chiudiamo nel monologo facendoci signori del Signore. Il Signore che chiama è anche il Signore che domanda e la vocazione è sempre anche una domanda, cioè un’offerta di amore: rispondere alla vocazione significa restare aperti all’amore e alle nuove domande che il Signore diverrà per noi durante il cammino della nostra vita. La risposta, anche di fede, deve lasciare aperta la possibilità di altre domande, altrimenti uccide il mistero e spegne l’amore. Anzi, proprio le risposte, le confessioni, i pensieri, i ragionamenti, insomma le nostre parole, rischiano di diventare un ostacolo alla sequela, di costituire la nostra difesa di fronte all’appello alla vita che il Signore ci rivolge. Spesso le nostre risposte null’altro sono se non difese contro la domanda.

I discepoli rispondono a Gesù riferendo le opinioni della gente, opinioni che coincidono esattamente con quelle riferite in Mc 6,14-15. Si tratta di risposte che suonano deludenti per il lettore che sa che Gesù è “più forte” di Giovanni e che Gesù battezzerà in Spirito santo a differenza di Giovanni che battezza in acqua (Mc 1,7-8). Quanto a Elia, Marco l’ha già identificato con Giovanni Battista all’inizio del vangelo (Mc1,1-8) e lo ribadirà esplicitamente più avanti (9,9-13). Infine, se Gesù è certamente un profeta (Mc 6,4), tuttavia non lo è come un qualsiasi altro profeta. Egli è il profeta escatologico annunciato da Mosè in Dt 18,15.18. Ma Gesù, quasi mettendo in atto un procedimento iniziatico, incalza i discepoli, li mette all’angolo, specificando che loro stessi sono i destinatari della sua domanda: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Mc 8,29). Dalla genericità delle opinioni della gente la prospettiva si restringe a ciò che sentono e pensano i discepoli. Ovviamente, con i discepoli, anche il lettore del vangelo viene sollecitato a una risposta personale.

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A questo punto è Pietro a prendere la parola e a rispondere a Gesù affermando: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). Pietro riconosce in Gesù l’inviato escatologico di Dio. L’ordine di tacere che Gesù impone a tutti i discepoli (Mc 8,30) conferma la bontà di questa confessione di fede. Analoga annotazione troviamo in Mt 16,20: “Allora (Gesù) ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo”. Il silenzio imposto sulla sua identità messianica si può spiegare con ragioni prudenziali, vista la carica politica e nazionalistica di cui la figura messianica era carica. Si tratta di una figura che era compresa in maniere diversificate e Gesù stesso applicherà al Messia dei tratti che correggeranno, completandola, la visione di Pietro. Inoltre, l’ordine di silenzio e di non diffondere tra la gente la pur retta confessione messianica corrisponde a un tratto dell’agire e del sentire di Gesù, il quale non cerca consensi, non fa propaganda positiva di se stesso, non cerca di diffondere un’immagine vincente e forte di sé, non segue i propri successi né se ne serve per affermarsi. Se il discepolo realizza la piena conoscenza messianica di Gesù solo camminando dietro a lui fino alla croce, così Gesù stesso manifesta la sua messianicità nella sua pienezza rivelativa e salvifica quando si trova sulla croce.

Non a caso Gesù, a questo punto, insegna ai discepoli che nel suo futuro vi è sofferenza, morte violenta e resurrezione (Mc 8,31). Questa dimensione va integrata nella figura messianica che lui vive e realizza. Marco, e solo lui tra i sinottici, annota che Gesù “faceva questo discorso apertamente” (Mc 8,32). Letteralmente: “Diceva la parola con parresía”, non in maniera enigmatica, non in disparte o in segreto, ma con crudo realismo. La realtà va guardata in faccia per poter affrontare il cammino di sequela fino alla fine. E quando Gesù dice che il Figlio dell’uomo “deve” soffrire, non fa che rivelare la sua obbedienza. Questo “dovere” non rinvia a un’imposizione dall’alto, a una volontà crudele di Dio e neppure a uno spargimento di sangue teso a soddisfare l’ira di un Dio incollerito con gli uomini peccatori. Quel “dovere” sgorga dall’incontro della libertà di Gesù con le esigenze della Scrittura, cioè della volontà di Dio espressa nella Scrittura (“Sta scritto che il Figlio dell’uomo deve soffrire molto ed essere disprezzato”: Mc 9,12). Da lì scaturisce il cammino messianico di Gesù. Cammino che lo porta a vivere gli eventi della passione e morte nella fedeltà a Dio, nell’amore e nella libertà. Invece che suscitare immagini perverse di Dio, quel “dovere” indica lo scandalo di un Dio che ha scelto di farsi conoscere agli uomini sulla croce (cf. Mc 15,39), luogo simbolico che raggiunge ogni uomo negli inferi esistenziali in cui può precipitare. E dunque paradossale luogo della salvezza universale.

Questo annuncio suscita la reazione di rifiuto da parte di Pietro che rimprovera Gesù prendendolo a parte. Di contro, Gesù rimprovera a sua volta Pietro con le dure parole: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33). E aggiunge che il suo cammino doloroso dovrà essere seguito anche dal discepolo. Il cammino di Gesù diviene anche lo scandaloso cammino che il discepolo deve seguire: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8,34). Il discepolo, dice Gesù con linguaggio forense, rinneghi se stesso, cioè ricusi la difesa, rinunci all’arringa difensiva, a spendere le proprie energie nel controbattere le accuse nel tentativo di salvarsi. L’espressione ‘prendere la propria croce’ si riferisce al momento in cui il condannato alla crocifissione si carica sulle spalle la trave trasversale della croce per compiere l’orribile itinerario tra la massa urlante che lo accompagna con ingiurie e imprecazioni. “Chiunque mi segue, dice Gesù, deve rischiare una vita altrettanto difficile quanto la via crucis di un condannato in cammino verso il patibolo” (Joachim Jeremias). Si tratta di rinunciare all’idolatria di sé, di uscire dai meccanismi di autogiustificazione e di abbandonarsi totalmente al Signore in una follia in cui risiede il segreto della libertà del discepolo del Signore. Anche Gesù nel processo non si difenderà, sulla croce non salverà se stesso, non darà risposte ma entrerà nel silenzio offrendo se stesso a un Dio silenzioso a cui si rivolgerà con una domanda: “Perché mi hai abbandonato?”. Anche il cammino di Gesù diventa un perdere la propria vita e un essere spogliato di risposte da dare e da dire. Resta solo la risposta che egli è, esistenzialmente, e che vive nella carne. E anche per noi, quando gli appoggi e le sicurezze umane vengono meno, quando il cammino che percorriamo diviene indecifrabile, allora l’atteggiamento evangelico del perdere la vita diventa essenziale per proseguire il cammino. E per divenire noi stessi, nella nostra carne, fino in fondo, fino alla morte, eco della domanda che il Signore pone a ogni uomo: “Chi dite che io sia?. Questa la martyría, questa la risposta che siamo chiamati a dare alla domanda di Gesù.


A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose