Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 11 Settembre 2022

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La cura per chi è perduto

Centro del vangelo odierno è l’annuncio della misericordia di Dio, misericordia che Gesù vive nella sua prassi di vicinanza – scandalosa per scribi e farisei – con peccatori e pubblicani. L’introduzione del capitolo quindicesimo di Luca mostra un Gesù criticato per le sue frequentazioni. Gesù dunque, per motivare il proprio comportamento, narra una parabola (Lc 15,3: disse loro “questa parabola”) che in realtà si snoda in tre parabole, due brevi e molto simili per struttura (15,4-7; 15,8-10), e una decisamente più lunga (15,11-32). Possiamo parlare di una parabola una e trina. Tralasciamo di commentare la terza, quella che costituisce il vertice dell’insieme, la parabola del padre misericordioso, che è già stata commentata nella IV domenica di Quaresima. La narrazione parabolica di Gesù presenta come simbolici dell’agire di Dio dei comportamenti umani che colpiscono e scandalizzano. I vangeli in effetti mostrano spesso Gesù “in cattiva compagnia”: è commensale e ospite di peccatori e pubblicani, si lascia avvicinare da prostitute, si fa prossimo di uomini che le convenzioni sociali e religiose emarginavano. Il giudizio di “perduti”, di “irrecuperabili”, su costoro, spesso era ciò che produceva e nutriva l’emarginazione di tali persone, ma Gesù proprio della loro compagnia si compiace, perché così narra la vicinanza di Dio anche agli ultimi, ai dimenticati e agli scartati. Gesù, semplicemente, avvicina queste persone, le toglie dal loro isolamento sociale e dalla vergogna a cui erano costretti, li coglie come persone, come uomini e donne. Gesù abbatte nella sua pratica quotidiana tabù culturali e religiosi che considerano come “contagiosa” la vicinanza con persone che per etnia o per genere o per condizioni di salute o altro ancora venivano costrette all’isolamento, a vergognarsi di se stesse, a scomparire. Possiamo affermare che, in radice, la misericordia è il considerare l’altro come una persona, rispettandone radicalmente la dignità, quali che siano le sue opzioni, le sue opinioni, i suoi desideri, il suo status e anche i suoi comportamenti negativi, i suoi peccati. Riconoscere la misericordia di Dio implica pertanto il riconoscere in verità chi si è umanamente, vedendo i peccati e le ombre che abitano in noi. E implica l’accettare gli altri senza giudicarli e disprezzarli, che è il problema di scribi e farisei. Per loro, infatti, il comportamento di Gesù mette in discussione l’immagine di Dio che li abita sicché le parole e gli atti di Gesù risultano loro insopportabili. Come si dice di Giobbe, Gesù “distrugge la religione” (Gb 15,4).

Probabilmente anche per i discepoli questi comportamenti avranno suscitato gelosia e invidie, fatto nascere incomprensioni, illazioni e retropensieri su Gesù: del resto, loro già non sopportavano che uno non del loro gruppo operasse guarigioni (Mc 9,38), guardavano con sospetto la donna con cui Gesù si intratteneva al pozzo di Sicar (Gv 4,27), avrebbero fatto scendere un fuoco distruttivo sui Samaritani che non li avevano accolti (Lc 9,54) … La misericordia, quando passa dall’essere un’affermazione teologica riguardante l’invisibile Dio all’essere una pratica esistenziale, un reale incontro di un uomo con altri uomini e donne, con persone con cui si vivono scambi, relazioni, affetti o amicizie, può divenire scandalosa, scomoda, intollerabile. E allora esplode il meccanismo della mormorazione (15,2). Quel male da cui la Bibbia mette in guardia semplicemente narrandola,

mostrandola, affinché chi legge gli episodi delle mormorazioni del popolo d’Israele nel deserto, o le mormorazioni degli avversari di Gesù o dei suoi stessi discepoli (Gv 6,61) possa leggere se stesso e giudicare il tenore delle proprie parole e la qualità del proprio cuore. Ecco dunque che i farisei e i pubblicani mormorano contro Gesù, parlano alle sue spalle dicendo di nascosto ciò che pensano di lui. Gesù allora prende la parola e innanzitutto narra la parabola della pecora perduta, o forse del pastore che si prende cura dell’unica pecora perduta, e va in cerca di essa, lasciando le altre novantanove (15,4-7).

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Il lettore si può legittimamente chiedere: è sensato l’agire di questo pastore? La parabola suppone che il pastore abbia fatto la conta delle pecore e si sia accorto che ne manca una. Una su cento. Cosa è più logico fare? Assicurarsi che le altre novantanove siano al riparo o mettersi in cerca dell’unica perduta lasciando le altre “nel deserto” (15,4)? Che il problema non sia fuori luogo lo mostra la versione di questa parabola presente nel vangelo di Tommaso, un apocrifo che fornisce una versione un po’ differente: “Gesù disse: Il Regno è simile a un pastore che aveva cento pecore. Una di esse si perse: era la più grossa. Il pastore lasciò le altre novantanove e cercò quella sola, fino a quando non l’ebbe trovata. Dopo aver tanto faticato, disse alla pecora: Io ti amo più delle altre novantanove”. Il vangelo di Tommaso spiega, motiva la scelta del pastore parlando della preferenza per questa pecora perché è la più grossa. Il messaggio della parabola lucana viene così indebolito: la pecora è oggetto di cura non perché perduta, ma perché grande, bella e perciò preferita alle altre. Il vangelo di Tommaso cerca di motivare l’antieconomica scelta di lasciare novantanove pecore per cercarne una sola. Ma il linguaggio della parabola lucana vuole suggerire l’agire di Dio. Anzitutto si dice che la pecora è “perduta”, non semplicemente smarrita. E “il Figlio dell’uomo”, dirà Gesù al termine dell’incontro con il pubblicano Zaccheo, “è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10). Dietro alla pecora si delineano le persone, quelle ritenute perdute, lontane, senza dignità, i pubblicani e i peccatori, coloro che vivono nel peccato, coloro che per le loro stesse inclinazioni e attività si trovano a essere giudicati e disprezzati. Si intravedono tutti coloro che vengono chiamati non con il loro nome ma con il nome di una categoria, con un’etichetta, con un nome che non identifica ma che spersonalizza: prostituta, pubblicano, malfattore, bandito, … E il pastore, con il suo comportamento, narra la sollecitudine di Dio per ogni uomo, per ogni persona. Che ai suoi occhi è preziosissima. La parabola diviene trasparenza dell’agire di Dio.

Ma c’è anche un’altra motivazione possibile alla ricerca della pecora da parte del pastore: la responsabilità. Compito del pastore è non perdere nessuna pecora. Il testo dice che la pecora si è perduta, ma il pastore non può per questo esentarsi dalla responsabilità della cura e della ricerca chiudendosi nel “è colpa sua”, “se l’è cercata”, “non avrebbe dovuto fare ciò che ha fatto”, e così via … In ogni caso, nel segreto della coscienza, il pastore quella domanda se la deve porre. E forse il resto del gregge non è stato attento e non si è reso conto quando quella pecora si è attardata o è incespicata o si è azzoppata ed è rimasta indietro. Forse c’è una responsabilità anche del resto del gregge che non ha vigilato … Non sappiamo cosa sia successo a quella pecora, perché si sia smarrita: è caduta in un burrone? È rimasta ferita? Di certo, quando il gregge avanza la pecora ritardataria è minacciata di morte. Se rimane sola non ha scampo e diverrà preda degli animali selvaggi. La sventura per la pecora è perdere contatto con il gregge e restare sola. Allora sì che la perdita rischia di divenire ineluttabile. Ed ecco che il pastore si interroga anche sulla propria responsabilità: ha vigilato a sufficienza? Non è stato attento? E comunque quella pecora fa parte del gregge. Fuor di metafora, quella persona fa parte della comunità del Signore. Ecco dunque che il pastore diviene cercatore e cerca finché non abbia trovato (15,4): qui si sottolinea la durata della ricerca. Trovatala, la mette sulle spalle, fa tutt’uno con essa e, dal deserto dove si trovava, va a casa e convoca amici e vicini per far festa con loro. Forse le altre novantanove si sentiranno un po’ escluse, forse si arrabbieranno, come sarà per il fratello maggiore che sente una festa già iniziata per il minore che è tornato sano e salvo, e lui non ne sapeva niente (15,25-32). Decisamente, l’agire misericordioso di Dio ci mette alla prova, non è affatto facile da accettare, anzi, può suscitare le nostre gelosie e le nostre mormorazioni.

La seconda parabola – quella della dracma perduta, o della donna che cerca accuratamente (15,8) – ripete l’annuncio della prima parabola. Ma se l’annuncio è il medesimo cambiano gli attori

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e gli scenari. Non un uomo ma una donna, non un pastore ma una casalinga, non un deserto, ma l’interno di una casa, non l’ambito rurale e pastorale, ma l’ambito economico (è una moneta che viene smarrita). Per un evangelista inclusivo come Luca: il messaggio di Gesù si rivolge a uomini e a donne, a contadini e a cittadini, a ricchi e a poveri (avere cento pecore è avere un gregge di notevoli dimensioni, mentre dieci dracme sono una somma piuttosto modesta), a Giudei e a Greci. Anche la donna, una volta trovata la dracma, condivide la sua gioia facendo festa con amiche e vicine. E la gioia è parte integrante della misericordia. Il Dio misericordioso è anche il Dio della gioia, il Dio che si rallegra del peccatore che si converte, di colui che si riconosce nell’errore e accetta di essere trovato e accolto.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose