Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 11 Dicembre 2022

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Dinanzi a te io mando il mio messaggero

L’annuncio della venuta del Signore; la difficile arte dell’attesa del Veniente; la gioia che Colui che viene suscita: questi i temi salienti della terza domenica di Avvento. Che affermano anche la non-evidenza della venuta del Signore. Nella prima lettura, l’annuncio isaiano della venuta liberatrice del Signore raggiunge i figli d’Israele in una situazione di “tristezza e pianto” (Is 35,10); nel vangelo, le opere che attestano che Gesù è il Messia, trascurano la “liberazione dei prigionieri” (Is 61,1; Lc 4,18) e sono riferite a Giovanni che si trova in prigione (cf. Mt 14,3-12); nella seconda lettura, la comunità cristiana è confrontata con l’annuncio di una venuta del Signore che chiede un atteggiamento di sopportazione e pazienza simile a quello dell’agricoltore, dei profeti (Gc 5,10), di Giobbe (Gc 5,11).

L’agricoltore attende un frutto che dipende da piogge che possono anche non venire; i profeti hanno parlato in nome di Dio suscitando ostilità e rifiuto; Giobbe ha perseverato nei dolori, nel non-senso, facendo della sua attesa una lotta drammatica. Così, l’attesa del Signore si tinge della tinta della pazienza.

La pazienza è l’arte di vivere l’incompiuto, l’inadeguato e la parzialità. La preghiera ebraica che recita: “Io credo con fede piena e perfetta alla venuta del Messia e, benché tardi, io l’attendo ogni giorno” esprime l’idea di pazienza insita nell’attesa. Nel “benché tardi” vi è la drammaticità dell’incompiuto e dell’irredento sperimentati nel quotidiano. La pazienza, necessaria per chi vive nella storia l’attesa del Regno, va esercitata nei confronti di Dio, della chiesa e di se stessi.

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Nei confronti di Dio, perché Dio non ha ancora adempiuto, per sempre e per tutti, le promesse di guarigione dei ciechi e degli zoppi, dei muti e dei sordi, le promesse di salvezza dal male e dalla morte; nei confronti della chiesa, perché la comunità cristiana è spesso inadempiente rispetto alle esigenze evangeliche; nei confronti nostri, perché scopriamo in noi inadeguatezze e difformità rispetto alla nostra vocazione. La pazienza è “forza nei confronti di se stessi” (Tommaso d’Aquino), capacità di non lasciarsi andare all’abbattimento, alla tristezza, alla disperazione. E questo grazie al fatto che la pazienza è sguardo in grande (makrothymía) sulla realtà, su Dio, sulla chiesa, su noi stessi. La pazienza è grandezza d’animo e si concretizza nell’amore: “l’amore pazienta” (1Cor 13,4).

I tre testi odierni ci consentono di riflettere su un altro aspetto della nostra vita umana e spirituale. Ovvero l’equilibrio che siamo chiamati a creare tra adesione al reale e desiderio di cambiamento, tra sopportazione dell’esistente e attesa del nuovo, tra pazienza e impazienza. Il passo profetico annuncia un mondo che non sarà più com’è adesso: la profezia non si accontenta dell’esistente, ma, mentre riconosce la realtà, ne invoca il cambiamento. La profezia tanto è inserita nella storia tanto afferma che questo mondo così com’è non va e che occorre intervenire su di esso e cambiarlo: il tempo messianico è quello in cui “si apriranno gli occhi dei ciechi, si schiuderanno gli orecchi dei sordi, lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto” (Is 35,5-6).

Isaia mostra che la profezia è anzitutto anelito verso un mondo altro ben più e prima che verso un altro mondo, un mondo al di là di questo mondo. Che Gesù sia il Messia lo mostrano le opere messianiche, ovvero quelle che sconvolgono l’ordinarietà dei giorni e immettono il bene là dove c’è il male: il mondo non può restare quello che è. I miracoli appaiono come ribellioni, come un dire di no all’ordine delle cose; le guarigioni di ciechi e sordi, muti e zoppi, la risurrezione di morti (Mt 11,5), dicono che la presenza di Gesù è contestazione allo stato delle cose, è sovvertimento dell’ordine stabilito, è il no al male e alla morte. Anche nel piccolo mondo del contadino di cui parla la lettera di Giacomo, la dimensione della pazienza e dell’accettazione della realtà si accompagna a quella dell’attesa della novità e del cambiamento.

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Il contadino deve vincere la tentazione di affrettare tempi che non sono in suo potere, ma anche la tentazione di cedere alla pigrizia lasciando che le cose vadano come vogliono. Anche noi siamo spesso presi tra la tentazione della fretta, dell’angoscia di intervenire e agire a ogni costo, e quella della pigrizia, del sederci, del lasciar perdere, dell’accontentarci o del rassegnarci. Una vita di ricerca di Dio non può che essere anche una vita appassionata in cui la persona si coinvolge, sente e patisce ciò che vive. Una vita di ricerca di Dio non può che anelare il cambiamento di ciò che è ingiusto e produce sofferenza. Insomma, atteggiamento richiesto in una vita cristiana equilibrata è tanto l’adesione alla realtà quanto il non accontentarsi dello stato delle cose: si tratta di tenere insieme pazienza e desiderio, sopportazione e anelito al cambiamento.

Il testo evangelico si apre annotando che Giovanni era in carcere, in catene: “Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione” (Mt 14,3). Eppure il testo non trasmette alcun lamento di Giovanni, nessuna invettiva contro chi l’ha incarcerato, nessuna protesta contro l’immobilismo a cui è costretto. Giovanni continua ad avere l’attenzione rivolta al Veniente. Anche in carcere continua a essere il precursore. Giovanni vive di fede e di relazione con il Messia veniente anche mentre è in prigione. Egli mostra che anche situazioni esterne contraddittorie e impedienti non hanno il potere di togliere la libertà della persona.

Giovanni pratica l’esercizio della libertà anche mentre è in prigione insegnandoci a non accordare un potere destrutturante alle situazioni esterne che ci fanno soffrire. E ci suggerisce che la libertà nasce nell’interiorità e che la libertà più grande e difficile, ma quella in cui la persona giunge a esprimere le sue migliori potenzialità, è la libertà dal proprio io, dalla tirannia del detestabile ego: Giovanni in prigione sa attendere, ma non la sua uscita dal carcere, bensì il Messia, e dunque persegue con determinazione la verità del suo essere, la sua vocazione. La libertà è nel decentramento da sé.

Se nella seconda domenica di Avvento, il Battista si trovava nel deserto, ora si trova in prigione (Mt 11,3), se prima gridava con convinzione la venuta del più forte di lui, ora domanda con toni sommessi se Gesù sia veramente lui il Veniente. Tuttavia, nel deserto come nella prigione, nella predicazione autorevole come nella domanda umile, Giovanni continua ad attendere il Veniente. Giovanni è l’uomo dell’attesa, l’uomo che vive sotto il segno della grazia: la vita che ha ricevuto per grazia da Dio nel passato (Giovanni significa “il Signore fa grazia”), egli la attende come grazia dal futuro attenendo nell’oggi il Messia veniente. E proprio la sua attesa apre i luoghi di morte e di chiusura che sono il deserto e la prigione, alla vita e alla libertà.

La sua attesa diviene speranza per le folle che andavano a lui nel deserto e per i discepoli che andavano a trovarlo in prigione. L’attesa cristiana della venuta del Signore è dono di speranza per gli uomini. Ed è quanto mai significativo il fatto che il Battista rivolga a Gesù stesso la sua domanda. La domanda di fede non spegne l’amore, anzi, Giovanni si rimette a ciò che Gesù stesso gli dirà: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3). Più che mai la fede appare qui come affidamento personale. L’amore rende la fede sempre più relazione tra viventi.

Certo, non è facile comprendere in profondità la domanda del Battista. Leggerci l’abbaglio di Giovanni che predicava un veniente giudiziale e che ora si trova di fronte un messia mite è una banalità sconfessata dal testo evangelico che nello stesso capitolo undicesimo presenta Gesù che usa duri toni giudiziali contro Corazin, Betsaida e Cafarnao (Mt 11,21-23). Si tratta di un espediente con cui Giovanni indica ai suoi discepoli di aggregarsi a Gesù, come pensano diversi padri della chiesa? Ciò che è rilevante è che la domanda di Giovanni sia posta a Gesù stesso: sembra quasi che Giovanni voglia sparire e lasciare che il suo ministero di preparazione si eclissi davanti a colui che viene e che deve prendere pienamente la scena e presentarsi lui direttamente.

Anche se pure Gesù, risponderà a Giovanni non con un’esibizione di sé, ma con il riferimento, rivelatore e nascondente al tempo stesso, alle Scritture. Anche Gesù cita le Scritture, in particolare Isaia, per dire ciò che fa, chi lui è e qual è il suo annuncio. Esattamente come Giovanni era stato presentato da Matteo con le parole di Isaia (Mt 3,3). Forse, nel passaggio di Giovanni dalla parola gridata alla domanda sussurrata, dalla convinzione granitica all’umiltà della domanda, possiamo cogliere semplicemente la storia e il divenire della fede di Giovanni. La fede ha sempre una storia e ognuno di noi ne scrive ogni giorno una nuova pagina.

In questo lavoro di scrittura è decisiva la vigilanza sull’attività immaginativa e psichica, sulla produzione di immagini interiori, sulla ricreazione della realtà e degli altri che noi operiamo quotidianamente nel nostro cuore. Giovanni, che predicava nel deserto la venuta di colui che non era ancora in scena, ora si misura con la realtà di una presenza, di una persona precisa, di quell’uomo lì, di ciò che egli compie e dice e che forse non combacia con le attese che proiettava su di lui. Proprio lui, quell’uomo, il Messia? Siamo ancora all’interno della dialettica tra anelito al cambiamento e adesione alla realtà, tra immaginazione del nuovo e incontro-scontro con la realtà e i suoi limiti.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose