Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 10 Settembre 2023

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Una fede responsabile, libera, concorde

La fede come responsabilità: così potremmo intendere l’unità tra prima lettura (Ez 33,7-9) e vangelo (Mt 18,15-20) nella XXIII domenica del tempo Ordinario dell’annata A. Nella prima lettura si tratta della responsabilità del profeta nei confronti di Dio, che è responsabilità di ascolto della parola che il Signore pronuncia, ma anche della sua responsabilità nei confronti della casa d’Israele a cui il profeta deve riferire tale parola. Questa duplice responsabilità è racchiusa nell’immagine del profeta come sentinella (cf. Ez 3,16-21).

In realtà si tratta anche di responsabilità del profeta nei confronti del suo mandato profetico, dunque della sua fede e della sua stessa vita. Se infatti il profeta viene meno al compito di avvertire colui nei cui riguardi Dio ha pronunciato una parola di condanna, il malvagio andrà in rovina, ma “della sua morte io domanderò conto a te” (Ez 33,8). Va poi notato che se il compito della sentinella (come appare dal racconto simbolico di Ez 33,1-6) è di tenere gli occhi ben aperti per vedere l’approssimarsi di una minaccia (“veder sopraggiungere la spada”: vv. 3.6, cioè l’imminenza dell’invasione di un’armata nemica), applicata al profeta, l’immagine della sentinella verte piuttosto sull’ascoltare la parola di giudizio da parte di Dio e mettere in guardia chi ne è minacciato.

Inoltre il ministero profetico di Ezechiele si rivolge all’individuo, al singolo. Se il suono di tromba della sentinella poteva e doveva essere sentito da tutti (“suona il corno e dà l’allarme al popolo”: v. 3) e avere un effetto collettivo, il profeta deve avvertire il singolo della condanna che il Signore ha emanato nei suoi confronti per concedergli un’ulteriore possibilità di salvezza attraverso la conversione. Nel momento di grave crisi della casa d’Israele successiva alla caduta di Gerusalemme e all’esilio, la dispersione dei figli d’Israele si è accompagnata alla frammentazione dell’esperienza di fede: il messaggio profetico deve uscire dalla standardizzazione e personalizzarsi per non perdere efficacia. Il testo di Ez 33,7-9 presenta il rinnovarsi della vocazione profetica di Ezechiele in un contesto storico radicalmente mutato. Un tempo della storia d’Israele e dell’alleanza tra Dio e il popolo è ormai morto; Dio sta operando qualcosa di nuovo nella storia e questo “richiede a ciascuno una risposta personale e creativa che non s’appoggi più semplicemente sulla tradizione, ma corrisponda vitalmente alla creazione potente del nuovo popolo di Dio” (Luciano Monari). Pertanto, alla responsabilità del profeta si deve accompagnare anche la responsabilità di colui a cui viene annunciata la parola giudiziale di Dio.

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Questo rinnovamento del ministero profetico in una situazione storica di grave crisi, porta il profeta ad assumere maggiormente una dimensione “pastorale” nel suo ministero e a sollecitare la responsabilità personale di ciascuno affinché sia evitata la tentazione di adagiarsi su un’appartenenza collettiva che rischia di restare superficiale e di non toccare i vissuti profondi della persona. Mentre valorizza la responsabilità personale, il nostro testo sottolinea anche la dimensione della libertà. Il malfattore, una volta che il profeta gli ha fatto vedere il male che ha commesso, può ravvedersi e cambiare comportamento.

Il male non è una potenza metafisica che schiaccia l’uomo: l’uomo può ritrovare la retta via, può tornare a se stesso e a Dio. Del resto, anche il giusto può decadere dalla sua giustizia e commettere il male ed Ezechiele lo pone in rilievo: “La giustizia del giusto non lo salva se pecca, e il malvagio non cade per la sua malvagità se si converte dalla sua malvagità, come il giusto non potrà vivere per la sua giustizia se pecca” (Ez 33,12). Il messaggio che Dio affida al profeta libera l’uomo da ogni determinismo assegnandogli però il pesante fardello della responsabilità della sua libertà. Come colui che ha compiuto il male non resta eternamente determinato dal male commesso ma può cambiare strada e compiere il bene, così il giusto può pervertire il proprio cammino e divenire un malfattore. 

L’uomo può cambiare: nessuna posizione è immutabile. Egli si situa tra la possibilità del traviamento e del mutamento, della perversione e della conversione. Il profeta ha dunque il compito di divenire coscienza critica che toglie sicurezza a chi si ritiene giusto e di aprire orizzonti di luce e speranza per chi si trova nel peccato. In particolare, la prossimità stabilita liturgicamente tra la pagina di Ezechiele e il passo di Mt 18,15-18, presenta la correzione fraterna come compito non solo pastorale ma anche profetico. Possidio, il biografo di Agostino, afferma che il vescovo di Ippona aveva assunto come costitutivo del suo ministero pastorale il compito profetico di sentinella: “Egli si comportava come la sentinella posta dal Signore a guardia della casa di Israele (Ez 3,17; 33,7), che predica la sua parola e incalza a tempo e fuori tempo (2Tm 4,2), biasimando con grande pazienza e dottrina, soprattutto si preoccupava di ammaestrare coloro che fossero poi a loro volta in grado di ammaestrare altri (cf. 2Tm 4,2)” (Vita diAgostino 19,5). Lo stesso Gerolamo, commentando Ezechiele 33, parla del vescovo come di una sentinella che, grazie alla sua conoscenza delle sante Scritture, annuncia al popolo la parola di Dio e corregge il peccatore.

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E di correzione si tratta nella pagina evangelica, una correzione mirata alla conversione del fratello che pecca. Il peccato di cui si tratta in questo discorso che Gesù rivolge ai suoi discepoli è un peccato pubblico. Non è, come riporta la traduzione italiana, un peccato “contro di te” (questa è un’armonizzazione con Mt 18,21: “Se mio fratello commette colpe contro di me”): si tratta di comportamenti che producono gravi ricadute comunitarie, tanto che a un certo punto, l’intera assemblea locale (ekklesía) può essere coinvolta e invitata a esprimersi per aiutare un processo di ravvedimento del peccatore (Mt 18,17).

Matteo attesta una pratica disciplinare ispirata a gradualità (e qui ne vengono elencate tutte le tappe possibili, fino all’eventuale scomunica finale), che cercava di far fronte a situazioni comunitarie ferite da gravi peccati comunitari. Come nel v. 18 la responsabilità e l’autorità di sciogliere e legare, cioè di perdonare e di escludere, attribuiti al solo Pietro in Mt 16,19, sono estesi all’intera comunità, così il compito della correzione fraterna appare esteso a ciascun cristiano. Anche le lettere del Nuovo Testamento mostrano che la correzione fraterna è sì inerente al ministero dell’apostolo (1Ts 5,12; cf. At 20,31; 1Cor 4,14), ma che è anche responsabilità di ogni battezzato. Paolo riconosce nella capacità di correzione dei cristiani di Roma un elemento della loro maturità di fede: “Voi siete capaci di correggervi l’un l’altro” (Rm 15,14).

Nella comunità cristiana la correzione del fratello che cade nell’errore è una responsabilità connessa all’essere tutti membra dello stesso corpo. “Io sono custode di mio fratello”, dice colui che assume la responsabilità della correzione e così si sottrae al rischio di divenire, come Caino, l’uccisore del fratello (cf. Gen 4,9). Nella correzione fraterna io rompo con l’individualismo che mi dissocia dall’altro e mi porta a pensare solo a me e alla mia “perfezione” individuale; assumendo il compito della correzione esco dall’indifferenza in cui spesso mi riparo per proteggermi dal faticoso incontro con l’altro; con essa mostro di essere responsabile della santità del fratello e che il suo peccato è come se fosse mio. I cristiani di Colossi sono esortati a correggersi gli uni gli altri: “La parola di Cristo abiti tra voi con abbondanza: con ogni sapienza istruitevi, correggetevi reciprocamente, cantate a Dio nei vostri cuori, con gratitudine, salmi, inni, cantici spirituali” (Col 3,16). La correzione reciproca è uno dei modi con cui la parola di Cristo prende concretamente dimora nella comunità cristiana.

E il testo di Matteo si conclude proprio affermando la presenza di Cristo stesso là dove anche solo due o tre si riuniscono nel suo nome e pregano nella concordia (Mt 18,19-20). I vv. 19-20 costituiscono un testo fondativo di ogni teologia della sinodalità. Il verbo symphonéo (Mt 18,19), “accordarsi”, reso in latino con consentire, che indica il movimento di trovare un consenso per decidere all’unanimità è centrale nella dinamica sinodale. E questo consensus deve fondarsi su un sentire cum Christo, essendo Cristo stesso che fa l’unità della comunità cristiana. Nel v. 20 troviamo il verbo synághein che, accompagnato dall’espressione “nel mio nome”, è reso in latino con congregati in nomine meo ed è echeggiato dall’espressione in nomine tuo adgregati dell’Adsumus (dove però è riferito allo Spirito santo, non a Gesù), preghiera tradizionale di apertura di sinodi e concili. La promessa di Gesù di essere presente là dove due o tre sono riuniti nel suo nome riprende il nome Emmanuele, “Dio con noi” di Mt 1,23 e anticipa l’“io sono con voi” che chiude il vangelo (Mt 28,20). Come Dio ha accompagnato il suo popolo nelle sue peregrinazioni, così Gesù accompagna la chiesa nel suo cammino storico e cammina con lei ieri come oggi, “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose