Una regalità paradossale
Con la domenica delle Palme termina il tempo di Quaresima e inizia il tempo di passione in cui entriamo nella settimana santa. Nell’annata C il testo evangelico non è il “racconto dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme”, perché Gesù si avvicina solamente alla città, come emerge dal v. 41 (“Quando fu vicino, alla vista della città…”), e non è neppure il “racconto delle palme” perché non vi è alcuna allusione a rami o palme agitate dalle folle, ma vi è solo l’atto di stendere mantelli sul puledro per fare una sella a Gesù e di stendere mantelli per terra dando una valenza regale al corteo.
La pagina lucana presenta la regalità paradossale di Gesù. Abbiamo un Signore che entra in Gerusalemme scortato da un corteo di povera gente, cavalcando un asino, avendo come paramenti i poveri mantelli che alcuni han posto in groppa all’asino e steso per terra. Questo “re” ha bisogno di chiedere in prestito un asino: la scena appare grottesca, quasi ridicola e risibile: un corteo da burla, un Signore che previene le rimostranze di chi potrà porre obiezioni alla “requisizione” dell’asino suggerendo le giustificazioni ai discepoli (Lc 19,30-31). Gesù è un re che non possiede nemmeno un asino. In questa scena vi è un aspetto farsesco. Dove si manifesta la signoria di Gesù sugli eventi? Nel suo inviare due suoi discepoli a prendere un asino. Tutto lì. Il paradosso della regalità di Gesù appare nell’insignificanza delle azioni ordinarie qui messe in atto.
Ma il paradosso appare anche nell’atteggiamento della “folla dei discepoli” (Lc 19,37) che acclamano Gesù come re. Ma di fronte all’intervento dei farisei che gli dicono di rimproverare i discepoli, Gesù mostra tutta la sua determinazione respingendo con vigore quell’invito: “Se questi taceranno, grideranno le pietre” (Lc 19,40). Sì, perché se i discepoli non sanno cogliere la rivelazione nel paradosso, sarà la realtà che la riconoscerà, saranno le pietre che la grideranno. Quelle pietre che nel racconto della tentazione di Gesù nel deserto (Lc 4, 3-4; Mt 4,3-4) sono simbolo di una realtà che ha come compito di porre resistenze agli umani e ai loro desiderata, qui appaiono come simbolo di quella realtà che è essa stessa paradossale e che sa riconoscere ciò che eventualmente non sa discernere e confessare il credente: ovvero la rivelazione di Dio in un uomo, del Messia in un povero, del salvatore in un perduto, del giusto in un crocifisso. Alla paradossalità della realtà si accompagna la paradossalità della rivelazione.
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Gesù accoglie questa proclamazione di regalità, lui che sempre ci è mostrato dai vangeli restio e avverso ad analoghe attribuzioni. Interrogato da Pilato sulla sua regalità, Gesù si mostra prudente e scettico, non fidandosi della comprensione della regalità che può avere un uomo come Pilato e gli risponde “Tu lo dici: io sono re” (Gv 18,37). Ma Gesù accorda un significato antiregale alla sua regalità. Così, egli non rifiuta gli attestati di regalità, irriverenti e ingiuriosi, che gli vengono rivolti durante la passione perché lì, nel corso del processo e sulla croce, gli si può riconoscere la signoria regale: è impotente, non può salvare nessuno e dunque non ci sono possibili cattive comprensioni della sua regalità. Lì, il carattere antiregale, di contestazione radicale del modello monarchico, è evidente. Lì, il paradosso diventa ossimoro. Sulla croce Gesù può solo essere salvato da Dio, è un povero che può solo attendere aiuto da Dio.
E l’aiuto e la salvezza che attende dal Signore avverranno in maniera paradossale, non certo eclatante e prodigiosa come lo scampare dalla condanna a morte o la discesa dalla croce. Gesù aveva rifiutato la regalità mettendo in atto l’arte della fuga quando, secondo il IV vangelo, le folle volevano prenderlo per farlo re dopo che li aveva sfamati con la moltiplicazione dei pani. “Gesù sapendo che venivano per prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte lui solo” (Gv 6,15). In Giovanni l’intento delle folle di fare re Gesù è stravolgimento del suo gesto di donazione sovrabbondante in un do ut des in cui esse accordano potere su di loro a chi dona loro cibo e sussistenza. In quell’ottica accettare di essere re significherebbe entrare in un gioco di potere in cui non vige il servire gli altri, ma il servirsi degli altri. Il rifiuto di essere fatto re rivela che Gesù non vuole che gli uomini si asserviscano, pagando con l’obbedienza e la sottomissione il pane che potrebbero ricevere.
Invece Gesù accetta la proclamazione regale rivoltagli dalla folla nel suo cammino burlesco verso la Città Santa. E forse l’aspetto burlesco di quel gesto è in verità rivolto verso la regalità mondana, politica, con i suoi connotati di potere esibito, di concentrazione di “potere” nelle mani di uno solo che arriva ad esercitare potere di vita e di morte sulle persone. Gesù accetta una regalità che sconfessa la regalità mondana e le maniere usuali di esercitarla. Nella sua regalità non c’è alcuna pretesa di potere, nessuna violenza da compiere, nessun dominio da instaurare, nessuna libertà da confiscare.
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Vi è dunque, nel cammino di Gesù verso Gerusalemme, un aspetto polemico nei confronti della regalità: il suo mimo profetico diviene parodia della regalità umana, dei suoi riti e delle sue cerimonie, dunque, della sua ideologia. E tale parodia è efficace proprio perché Gesù ha rivestito i panni e compiuto i gesti del re che prende possesso della capitale del suo regno. Il gesto profetico assume i contorni di rappresentazione teatrale satirica. Ma questo non è che un aspetto della narrazione lucana. Ve ne è un altro per cui, dietro al cammino di Gesù, il vangelo lascia intravedere il cammino di Cristo verso il Padre e la guida che egli esercita sulla chiesa dall’alto dei cieli.
Anzitutto viene presentata la missione della chiesa “Gesù inviò … dicendo: ‘Andate’… Essendo andati quelli che erano stati inviati…” (Lc 19,29-30.32). La missione esige dai cristiani, da un lato, la capacità di rendere conto a chiunque ne chieda ragione, dei gesti che essi compiono (vv. 31-34), dall’altro, la capacità di motivare il loro agire sulla base della parola del Signore. I gesti della chiesa nella sua missione nel mondo non mirano alla soddisfazione o all’eliminazione di un suo bisogno, ma sono obbedienza alla parola del Signore e manifestano il bisogno del Signore (“Il Signore ne ha bisogno”: v. 34), narrano un Signore che viene all’uomo nella povertà e nell’umiltà, perché solo nella condivisione della povertà può avvenire l’incontro. E la ricchezza che gli inviati portano con sé è tutta nel ridire le parole che il Signore ha consegnato loro (vv. 31.34): parole che, mentre proclamano la povertà dell’inviante, situano nella povertà l’inviato stesso. Il racconto cammino messianico di Gesù diviene la paradossale proclamazione di un Signore bisognoso e indigente. Viene così indicato alla chiesa che i bisogni che la affliggono possono divenire motivo di fiducia invece che di angoscia. Fiducia nel Signore e forza di comunione con i poveri a cui è rivolto il vangelo.
Nel v. 37 si afferma che tutta “la folla dei discepoli” lodava Dio a gran voce. Luca utilizza di nuovo questa espressione in At 6,2 per indicare i cristiani. Al rimprovero che i farisei intendono rivolgere ai discepoli attraverso Gesù, questi risponde dicendo: “Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre” (v. 40). Il testo intravede la possibilità di un silenzio colpevole della chiesa: ci sono una confessione di fede e un riconoscimento dei prodigi del Signore, che non possono essere taciuti, pena la sconfessione del proprio statuto di cristiani. Ignavia, codardia, vergogna, complicità, paura, interesse, convenienza, conformismo: tanti sono i motivi che possono spingere il cristiano a tacere quando dovrebbe parlare oppure a dire parole non abitate dallo scandalo evangelico, parole allineate, che non scomodano. E le parole evangeliche non scomodano solo chi le ascolta, ma anzitutto chi le pronuncia. Perché lo pongono nella situazione di povertà, inermità e bisogno propria del suo Signore. La condivisione della povertà del Signore è la condizione della credibilità della chiesa tra gli uomini.
L’acclamazione della folla dei discepoli proclama benedetto “Colui che viene” (v. 38; cf. Sal118,26). Nome del Signore è “il Veniente”. In quanto Veniente, il Signore non è presenza addomesticabile e non è possesso. Il Veniente ricorda alla chiesa che della confessione di fede fa parte l’apertura allo stupore e alla meraviglia, la disponibilità a mettersi in discussione, a farsi interpellare dalle novità della storia. Solo in quanto Veniente il Signore è anche il Vivente. E la confessione e la testimonianza della chiesa hanno la responsabilità di annunciare il Vivente, non – come fanno i discepoli di Emmaus – un morto (cf. Lc 24,19-24).
Gesù precede i suoi salendo verso Gerusalemme, la “città della pace”, la città che uccide coloro che sono inviati a lei (cf. Lc 13,34) e su cui Gesù piangerà perché non ha saputo riconoscere la via della pace (cf. Lc 19,41-42). Il cammino verso la pace richiede un’esigenza: il non fare violenza. La regalità di Cristo non è di questo mondo proprio perché, a differenza delle regalità mondane che legalizzano la violenza e se ne servono, Gesù ne rifiuta radicalmente l’uso, rifiuta di creare vittime. Egli è il re radicalmente non violento, fino ad assumere la violenza su di sé sulla croce, epifania massima della sua paradossale regalità.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose