Conversione come responsabilità
In questa domenica la prima lettura (Ez 18,25-28) e il vangelo (Mt 21,28-32) propongono un messaggio sul pentimento. L’uomo ingiusto può desistere dalla sua ingiustizia e agire con rettitudine, dice Ezechiele; nella parabola evangelica, il figlio che in un primo tempo si è rifiutato di andare a lavorare nella vigna del padre, in un secondo tempo, pentitosi, decide di andarvi. L’unità delle due letture può anche essere espressa con le categorie della conversione e della responsabilità. Anzi, della conversione come responsabilità.
Il pentimento è attestazione di libertà. Anche il malvagio può cambiare. Questa possibilità di conversione dice che il peccato non è una potenza che segna deterministicamente l’uomo e che lo appesantisce come zavorra da cui non potrà mai liberarsi. Nel pentimento l’uomo ritrova la retta via e “torna” allo stesso tempo a se stesso e a Dio. Atto di libertà, il pentimento è anche atto di liberazione. Il malvagio che cambia condotta “fa vivere se stesso” (Ez 18,27), dà vita alla sua esistenza, mostrando di non essere schiavo dei precedenti comportamenti.
Che cosa porta il malvagio a cambiare condotta? Com’è possibile evocare il pentimento, questo evento in cui è in gioco il mistero della persona e la coscienza della contraddizione tra sé e sé che conduce al dolore e alla lacerazione interiori? Ezechiele evoca il cammino interiore che conduce al pentimento con un verbo: “ha visto” (Ez 18,28, letteralmente; Vulgata: considerans).
- Pubblicità -
Che cosa ha visto? In Ez 18,14 si parla del “vedere i peccati del padre” da parte del figlio, il quale tuttavia non fa della visione dei peccati paterni un alibi per il proprio peccare, anzi, non si lascia generare al peccato dal padre peccatore. Quella visione indica allora la presa di coscienza dei propri peccati, è la dolorosa visione di sé nella non-unificazione, nella divisione profonda. Nel pentimento noi vediamo noi stessi nella contraddizione con noi stessi. E sappiamo di poterci rivolgere a Dio proprio in quella condizione di chi ha il cuore contrito.
Il profeta ricorda poi che ognuno è responsabile delle proprie azioni e delle conseguenze che le proprie azioni provocano. Dice il v. 26: “Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso”. Ovvero, fare il male è sempre farsi del male. Ezechiele abbozza un itinerario verso la responsabilità, mostrando che la fede in Dio ha rilevanti risvolti etici. Il primo è la serietà. Il profeta denuncia come non serio il tentativo di colpevolizzazione di altri, il tentativo di autogiustificazione che viene messo in atto pur di non riconoscere il proprio errore. In effetti, il capitolo 18 si apre riportando un detto che viene ripetuto tra i figli d’Israele: “I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati” (Ez 18,1-2).
Per dirla con Lam 5,7: “I nostri hanno peccato e noi portiamo la pena delle loro iniquità”. Siamo nell’epoca dell’esilio babilonese e l’idea che si diffonde è che tale situazione di disastro sia dovuta ai peccati dei padri. Il profeta combatte questa visione fatalistica di chi, di fronte al male, cerca un colpevole, che sarà sempre un altro, e al tempo stesso si crea lo statuto di vittima che vanta un diritto e che può sempre esigere una riparazione. Serietà è poi non rifugiarsi nell’irresponsabilità: ognuno è responsabile delle sue azioni. Prendere sul serio la propria vita, questo è l’invito del profeta. Ma ecco che, sulla strada verso la responsabilità, alla serietà si deve accompagnare il rispetto.
- Pubblicità -
Ezechiele dice che il malvagio che si è convertito, “ha visto”, ha osato guardare indietro e dentro, e riconoscere e nominare ciò che ha commesso, ha osato vedere l’ingiustizia del proprio operare. Rispetto è respicere, “guardare indietro” vedendo in verità se stessi ma anche coloro a cui si è fatto il male. Rispetto diviene allora coscienza dei limiti propri e altrui e dunque uso non più sconsiderato della parola. Solo la parola responsabile crea fiducia, mentre le parole irresponsabili di quanti ripetono questi detti, afferma Ezechiele, creano un clima di sfiducia. Il cammino verso la responsabilità esige il parlar vero, il dire il vero, e dunque il coraggio di correggere le proprie parole che pervertono la realtà. Franchezza, chiarezza, parresía, ecco gli ingredienti del dire il vero a cui il profeta sta invitando i figli quanto i figli d’Israele dicono. Ma ecco che serietà, rispetto, dire il vero, divengono responsabilità, cioè capacità di rispondere di sé, delle proprie parole e delle proprie azioni. Questa responsabilità è declinata da Ezechiele come allontanamento dal male, come conversione.
E di conversione si tratta, di fatto, anche nella parabola narrata da Gesù (Mt 21,28-30) e che Matteo incastona tra una diatriba con capi dei sacerdoti e anziani del popolo circa l’autorità di Giovanni Battista (21,23-27) e l’applicazione della parabola stessa al loro rifiuto di pentirsi e far fiducia a Giovanni (21,31-33). La parabola diviene narrazione che parla di Giovanni Battista (“Giovanni venne a voi …”: v. 32) sia in riferimento a prostitute e pubblicani che gli hanno creduto (“i pubblicani e le prostitute …”: v. 32) sia ai suoi interlocutori che non si sono nemmeno pentiti per credergli (“voi invece …”).
Il rovesciamento descritto nella parabola per cui il figlio che ha risposto di sì al comando del padre di andare nella vigna in realtà non gli obbedisce e il figlio che gli ha risposto di no alla fine gli obbedisce, diviene specchio della situazione esistenziale di persone marchiate dallo stigma del peccato che tuttavia “precedono” (v. 32), cioè scavalcano, prendono il posto, nel Regno di Dio, di coloro che sembravano gli obbedienti e i fedeli. Coloro cioè che tutto indicava che avessero risposto di sì alla volontà di Dio Padre. Il rimprovero di Gesù consiste nel fatto che le autorità giudaiche con cui Gesù sta dibattendo (21,23), “pur avendo visto” (v. 32) la conversione di prostitute e di pubblicani avvenute grazie al ministero di Giovanni, non si sono nemmeno pentite, ricredute e hanno persistito ostinatamente nel loro rifiuto del Battista.
La successione vedere – pentirsi, la troviamo ancora a descrivere il cammino interiore di Giuda che arriva a rendersi conto del male che ha fatto e a riconoscere la propria verità: “Giuda, vedendo che Gesù era stato condannato, pentitosi, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: ‘Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente’” (Mt 27,3-4). Nel pentimento Giuda vede realisticamente ciò che ha fatto e lo riconosce. Nella parabola, il pentimento del figlio lo porta a cambiare strada e a imboccare la via dell’obbedienza al volere del padre, dunque a vivere una vera e propria conversione. Simmetricamente, il mancato pentimento delle autorità giudaiche le trattiene nel loro rifiuto di Giovanni e impedisce loro la conversione. Del resto, era proprio a sadducei e farisei che venivano a presentarsi al battesimo da lui amministrato, che Giovanni aveva gridato l’urgenza di convertirsi e di uscire dall’ipocrisia e dalla menzogna (Mt 3,7-12).
Ora, la parabola mostra due persone in contraddizione con se stesse. Chi risponde di sì al padre, dopo, nella prassi, non obbedisce, dunque dice di no. Chi invece subito dice di no, dopo, ci ripensa e obbedisce, quindi, dice di sì. E poiché per Gesù il criterio di verità della fede è la prassi, la domanda con cui egli opera il trapasso del messaggio parabolico nella vita dei suoi interlocutori suona così: “Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?” (v. 31). Questa domanda voleva condurre i suoi interlocutori a un esame di sé per vedersi in verità applicando a sé le immagini della parabola. Voleva condurli a cogliere gli elementi che stanno dietro alla contraddizione del figlio che dice di sì ma poi non obbedisce. In che consiste questa contraddizione profonda? È anzitutto contrasto tra dire e fare. Gesù, che nel discorso della montagna aveva avvertito: “Non chiunque mi dice ‘Signore, Signore’, entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21), metterà in guardia le folle e i discepoli da scribi e farisei perché “dicono e non fanno” (Mt 23,3).
Vi è poi la contraddizione tra immagine presentata agli altri e verità personale. Uomini del sì, che in verità praticano il no, smentendo nelle azioni ciò che pubblicamente professano. E trovando proprio in questa doppiezza, in questa schizofrenia o bilanciamento interiore dei contrari, il paradossale equilibrio che li tiene in vita e li rende anche autorevoli agli occhi di tanti. Si tratta dell’ipocrisia che Gesù denuncerà (Mt 23,1-32). Questa cosciente, e perciò colpevole, doppiezza, è il prezzo da pagare al rifiuto di fare verità in se stessi: troppo faticoso, doloroso, perfino letale, il lavoro di esaminare il proprio cuore, di vedersi come si è in verità e così ricredersi, pentirsi e imboccare la via della verità e della pace. Meglio restare nella via più facile, meno scomoda, anzi, ben più gratificante, dell’ostinata affermazione di sé come giusti, non bisognosi di conversione e di pentimento. Peccato che in questa postura il referente di cui si tiene conto non è il Dio che scruta i cuori, ma il pubblico, la gente e la loro opinione, la gente e ciò che ad essi si fa vedere. Un’apparenza di sé, non la verità di sé.
A cura di: Luciano Manicardi
Per gentile concessione del Monastero di Bose