Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 1 Gennaio 2023

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Pienezza del tempo

La festa del 1 gennaio, che quest’anno cade in domenica, è dedicata a Maria madre di Dio, ma i temi teologici che essa contiene sono diversi: non solo la divina maternità di Maria, ma anche la circoncisione e l’imposizione del nome a Gesù. Questi temi si sintetizzano nel farsi carne in Gesù della benedizione di Dio, e tra i frutti della benedizione vi è la pace (Nm 6,22-27). Alcune parole del Card. Giacomo Lercaro esprimono bene la dimensione cristologica della pace come dono di Dio e compito degli uomini: “La pace è la stessa salvezza messianica, congiunta e operata da un’effusione dello Spirito. Ciò è confermato dal Nuovo Testamento, dove Cristo stesso è personalmente la nostra giustizia e perciò la nostra pace; da qui deriva l’ordine e la pace reciproca tra gli uomini: essa infatti non può essere che risonanza dell’amore gratuito e misericordioso di Dio, dagli uomini sperimentato nel perdono delle proprie colpe. E quindi, non potrà non essere perdono reciproco”.

Mentre celebrano la divina maternità di Maria, le letture trovano nella paternità di Dio nei confronti di Israele (Nm 6,22-27), di Gesù (Lc 2,16-21) e dei cristiani (Gal 4,4-7) un loro elemento di unità. La benedizione, che nella famiglia ebraica è normalmente opera paterna, risale in ultima istanza a Dio Padre e raggiunge i figli d’Israele attraverso mediatori umani come padri di famiglia e sacerdoti (“Essi porranno il mio nome sui figli d’Israele e io li benedirò”: Nm 6,27); il nome imposto al bambino proviene dal cielo, dall’alto, cioè da Dio Padre (Lc 2,21); lo Spirito del Figlio effuso nel cuore dei credenti suscita in loro l’invocazione “Abbà, Padre” (Gal 4,6).

Gesù, “nato da donna, nato sotto la Legge” (II lettura), circonciso l’ottavo giorno e chiamato con il nome “Gesù” (vangelo), è il compimento della benedizione di Dio all’umanità (I lettura), è la benedizione fatta persona. La pienezza della benedizione si manifesta nel frutto benedetto del seno di Maria, colei che è la benedetta tra tutte le donne (cf. Lc 1,43). La protezione, la grazia e la pace in cui consiste la benedizione (I lettura) assumono il volto e il nome di Gesù di Nazaret. Nome che indica la volontà di salvezza di Dio: “Il Signore salva”. Lo sciogliersi dei lineamenti del volto nel sorriso pieno di benevolenza (questo il senso dell’espressione “far risplendere il proprio volto su qualcuno”: cf. Nm 6,25) si manifesta nel volto di Gesù Cristo su cui rifulge la gloria di Dio. Gesù è il sorriso di Dio all’umanità.

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Tema unitario delle letture è anche quello della presenza di Dio. Presenza che la benedizione sacerdotale (I lettura) stabilisce nel popolo; presenza manifestata nel volto e nel Nome di Gesù (vangelo); presenza che si fa interiore al credente grazie all’effusione dello Spirito e che lo guida alla figliolanza divina (II lettura). La maternità di Maria è l’evento che consente la manifestazione della presenza benedicente di Dio agli uomini.

Sottolineo l’aspetto della memoria della circoncisione di Gesù che era presente nella chiesa cattolica fino al 1970. Memoria importante perché ricorda la perenne ebraicità di Gesù e anche per la valenza spirituale della circoncisione stessa. La circoncisione incide il segno dell’appartenenza al popolo d’Israele e dell’ingresso nell’alleanza nello spazio corporeo, nella carne dell’uomo, anzi proprio nella carne del membro. Così lo strumento della generazione, grazie a cui l’uomo obbedisce al comando creazionale di riprodursi e di trasmettere la benedizione, l’organo dell’incontro sessuale con la donna, viene segnato da una ferita che è anche un’apertura e un’appartenenza. Apertura, perché con la circoncisione l’uomo si pone in ascolto della donna ponendo un limite alla sua “onnipotenza virile” e accetta di vivere la sessualità come incontro faccia a faccia; appartenenza, perché la circoncisione rende il corpo umano una superficie scritta, una sorta di libro su cui è incisa l’irrevocabile decisione divina di legarsi in alleanza con i figli d’Israele. Il passaggio di Dio e del suo Spirito nell’uomo lascia come traccia una ferita. La circoncisione è una ferita, uno spogliamento che rivela una mancanza più profonda e vitale che è connessa costitutivamente alla nostra umanità e che è la condizione dell’incontro con l’altro e dell’accesso di Dio nella nostra vita. Per questo la Bibbia simbolizza la circoncisione e la estende a tutto l’uomo parlando di circoncisione degli orecchi e del cuore (cf. Ger 4,4). La nostra carenza, la nostra mancanza è il luogo dell’incontro e della relazione.

Del resto, se il cristianesimo non ha assunto la circoncisione, ma ha fatto del battesimo il segno dell’iniziazione alla vita cristiana e dell’appartenenza alla comunità cristiana (e il luogo in cui il nome del nuovo nato viene pronunciato davanti a Dio e alla comunità cristiana), questo può essere chiamato dal Nuovo Testamento come circoncisione di Cristo: “In Cristo voi siete stati circoncisi, di una circoncisione però non fatta da mano di uomo, mediante la spogliazione del vostro corpo di carne, ma della vera circoncisione di Cristo. Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo…” (Col 2,11-12).

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Altro tema rilevante è quello del nome: “Gli fu messo nome Gesù come era stato chiamato dall’angelo” (Lc 2,16). Vocatum est nomen eius Iesus, quod vocatum est ab angelo. Nel nome è la chiamata: il nostro nome è la nostra vocazione, la nostra unicità, il nostro compito, la nostra responsabilità. Il nome “Gesù” poi, il nome di colui che è generato da Spirito santo, è il nome che viene da Dio e non dagli uomini, dall’alto e non dal basso. E per questo è l’unico nome in cui c’è salvezza (cf. At 4,12). Non è il nome che deve esaudire un desiderio genitoriale, che deve proseguire una storia genealogica, che deve dare continuità a vite di altri, che deve illudere di immortalità chi l’ha generato. Certo, i nostri nomi, cioè le nostre vite, le nostre unicità personali, sono – potremmo dire – braccati e ricattati dal nostro passato, feriti e perseguitati dal nostro passato, ma nel nome di Gesù, nella sua personalissima declinazione del suo nome, possiamo trovare l’orientamento per vivere il nostro nome nella libertà. Certo, nella libertà possibile, una libertà sempre fragile, una libertà sempre ostacolata e minacciata, da noi stessi e dagli altri. Ma i nostri nomi ormai sono innestati nel nome di Gesù, noi siamo stati battezzati nel nome di Gesù, e il battesimo, come abbiamo visto, è letto nel Nuovo Testamento come circoncisione cristiana. In Cristo il nostro nome non è più memoria di passato ma cammino verso il futuro, non è ripetizione del già visto e subìto, ma novità di vita. È anticipo di resurrezione, di quella vita eterna in cui finalmente riceveremo il nome nuovo che nessuno conosce e nessuno ha conosciuto, ma che solo Dio conosce. Come lui solo conosce il nostro cuore, la nostra unicità, la nostra vocazione, il nostro mistero.

Il testo evangelico fa emergere anche che esperienza originaria di Gesù, come di ogni umano, è quella di essere preceduto. Il nome “Gesù” era il nome con cui era stato chiamato dall’angelo “prima di essere concepito nel ventre materno” (Lc 2,21). Preceduto da genitori, preceduto dalla storia di un popolo, preceduto da Dio. L’accoglienza amorosa che i genitori faranno del figlio, così come l’accoglienza che gli predisporrà il popolo con le sue istituzioni religiose e i suoi riti, i suoi gesti e le sue parole, sarà essenziale al nuovo venuto per giungere all’accoglienza della propria storia di precedenza. L’accoglienza è la condizione per pacificarsi con la propria origine e con la storia che ci ha preceduti. L’accoglienza che conosciamo nel nostro venire al mondo e nel nostro vivere è fondamentale perché noi, a nostra volta, possiamo accoglierci nella storia di precedenza che ci ha segnati. E che, quale che essa sia, risale in ultima istanza a Dio Padre. C’è dunque un prima, per Gesù, che troverà il suo senso nel dopo: che cosa farà di Gesù tutto ciò che lo ha preceduto? Ma soprattutto, cosa farà Gesù di tutto ciò che lo ha preceduto? Del rapporto con la famiglia di origine? Degli usi, delle consuetudini e delle tradizioni religiose del suo popolo? Della chiamata che viene da Dio? Del suo stesso nome? Il dopo della vita di Gesù nasce come domanda in questo prima in cui Gesù è in posizione totalmente passiva.

Nel passo del vangelo si sottolinea l’attività interiore di Maria: luogo della libertà è l’interiorità in quanto spazio di elaborazione del senso, di accoglienza del reale e di maturazione delle scelte e delle decisioni: Maria, che riflette e medita “nel suo cuore” (Lc 2,19) sugli eventi che accadono e che custodisce interiormente parole che destano stupore, coltiva ed elabora in sé il senso di tali eventi, lo concepisce, lo porta in grembo come in grembo ha portato il figlio, gli dà progressivamente una forma, attendendo di partorirlo, o meglio, di essere lei generata a tale senso che la coglie quale madre del Signore.

Se Luca parla di un compiersi di giorni (cf. Lc 2,21) e Paolo della “pienezza del tempo” (Gal 4,4), la benedizione sacerdotale, pronunciata quotidianamente nella liturgia sinagogale (cf. Nm 6,24-26), esprime la benevolente azione quotidiana di Dio verso l’uomo: un’azione da riconoscersi nelle piccole cose di ogni giorno, nell’opacità del trascorrere dei giorni e dell’avvenire dei fatti. L’attività interiore e spirituale di memoria e riflessione, di cui Maria è soggetto, è luogo di unificazione del tempo e di discernimento della benedizione divina nel quotidiano.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose